LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 10964-2018 proposto da:
AUSL UMBRIA *****, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO PALERMO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LIETTA CALZONI;
– ricorrente –
contro
AUSL UMBRIA *****, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO PALERMO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LIETTA CALZONI;
Nonché contro ***** SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VICOLO MARGANA 15, presso lo studio dell’avvocato LUIGI RINALDI FERRI, rappresentato e difeso dall’avvocato ULISSE BARDANI;
– controricorrenti al ricorso incidentale –
nonché contro T.L., P.P., C.C.;
– intimata –
Nonché da:
T.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell’avvocato CARLA RIZZO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati VALTER ANGELI, ENRICO BISCARINI;
– ricorrente incidentale e controricorrente –
nonché contro ***** SPA, P.P., C.C., AUSL UMBRIA *****;
– intimati –
avverso la sentenza n. 822/2017 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 08/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.
RILEVATO
che:
1. L’Azienda Unità Sanitaria Locale Umbria ***** propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, avverso la sentenza n. 822/2017 della Corte d’Appello di Perugia, pubblicata in data 8/11/2017 e non notificata. La sig.ra T.L. propone controricorso e ricorso incidentale, prospettando due motivi. Resistono al ricorso incidentale – con separati controricorsi – l'***** s.p.a. (assicuratore del Dott. C.) e l’Azienda Sanitaria Umbria *****. I dottori C.C. e P.P., intimati, non hanno svolto difese. La ricorrente incidentale e la ricorrente principale ASL hanno prodotto memorie.
2. Per quanto qui d’interesse, la sig.ra T.L. proponeva appello avverso la sentenza n. 1511/2014 emessa dal Tribunale di Perugia, con la quale, sulla base di un accertamento peritale, era stata rigettata la domanda svolta nei confronti dell’Unità Sanitaria Locale n. 1 – Azienda Sanitaria della Regione Umbria, avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità dei sanitari C.C. e P.P., in relazione ai danni riportati dalla medesima in seguito ad intervento chirurgico al quale era stata sottoposta in data ***** presso l’Ospedale di *****. Nel giudizio di primo grado erano intervenuti i medici, chiamati dalla ASL convenuta, il primo dei quali chiamava in manleva la propria compagnia assicuratrice.
3. La sig.ra T., all’epoca trentasettenne, riferiva che nel 1998 si era sottoposta a una serie di accertamenti diagnostici in ragione della comparsa e persistenza di una sindrome algica lombare; che siccome le terapie farmacologiche non sortivano effetti, decideva di rivolgersi al Dott. C. il quale, per eseguire ulteriori accertamenti, il ***** disponeva il suo ricovero presso il reparto di Ortopedia dell’Ospedale di *****; che il Dott. C. informava la paziente della necessità di intervenire chirurgicamente per stabilizzare il tratto lombare compromesso, mediante applicazione di ammortizzatori interspinosi DIAM; che la paziente veniva sottoposta ad intervento chirurgico in data *****, eseguito dal Dott. P.; che successivamente trasferita presso il Centro di Riabilitazione *****, la terapia riabilitativa veniva ostacolata da un marcato dolore lombare, sicché il Dott. P. provvedeva ad effettuare alcune manipolazioni, ma ciononostante il dolore continuava ad aumentare così come la sua incapacità di deambulazione; che la mancanza di progressi clinici induceva la paziente a rivolgersi a diverse strutture sanitarie per consulenze specialistiche; che i successivi interventi – sostanzialmente farmacologici – presso altre cliniche non sortivano effetti; che allo stato dei secondo grado di giudizio, la sig.ra T. lamentava dolori continui nella regione lombare, si muoveva con l’ausilio di una sedia a rotelle e portava molla di codivilla a sinistra per tendenza del piede a ruotare verso l’interno e una pompa innestata per l’infusione continua di antidolorifici nel tratto lombare compromesso. Costituitisi i convenuti, nonché l’assicuratore del Dott. C., ***** s.p.a., il Tribunale rigettava la domanda sulla base degli esiti di una CTU.
4. Innanzi alla Corte d’Appello di Perugia si costituiva la USL per chiedere il rigetto dell’appello e, in via subordinata, l’accertamento della sua estraneità ai fatti dedotti in causa, con condanna dei sanitari eventualmente ritenuti direttamente responsabili. Il Dott. C., in via subordinata, insisteva sulla domanda di manleva nei della compagnia assicuratrice. La Corte d’Appello di Perugia, ritenendo non esaustiva la relazione peritale svolta nel corso del giudizio di primo grado, ne disponeva il rinnovo nominando altro collegio peritale, sull’assunto che i periti originariamente nominati risultavano intrattenere rapporti di lavoro con il Dott. P.. Depositato l’elaborato peritale e un suo supplemento a chiarimenti, sulla scorta delle risultanze della CTU e dei documenti in atti, il giudice di secondo grado accoglieva l’appello svolto dalla sig.ra T. nei confronti della ASL e respingeva la domanda svolta dalla ASL verso i medici.
5. In particolare, la Corte territoriale rilevava che l’appellante aveva provato la sussistenza del nesso causale tra l’intervento chirurgico del ***** e le sue condizioni fisiche repentinamente aggravatesi in seguito all’istallazione dei DIAM, e ancora in continuo aggravamento. Di contro, l’Azienda sanitaria non aveva fornito la prova né dell’assenza di colpa dei sanitari, né dell’esistenza di eventuali cause alternative, da sole sufficienti a determinare il danno subito dalla sig.ra T.. Per l’effetto, aderendo alle considerazioni del collegio peritale, riconosceva una invalidità permanente biologica del 70% all’esito dell’intervento e, considerato lo stato anteriore di invalidità valutabile intorno al 20%, come indicato dai CTU, liquidava il danno non patrimoniale differenziale – secondo le Tabelle milanesi – in Euro 722.317,00, oltre rivalutazione ed interessi. Condannava al pagamento della predetta somma l’Azienda sanitaria, anche per le spese del doppio grado, mentre rigettava la domanda svolta dall’ASL nei confronti dei dottori chiamati in causa, compensando tra loro le spese di giudizio, così come tra il Dott. C. e la propria compagnia assicuratrice.
CONSIDERATO
che:
1. Per quanto attiene al ricorso principale spiegato dall’Azienda Sanitaria, con il primo motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione degli artt. 1218,2697 c.c. e art. 2729 c.c., commi 1 e 2. In specie, la Corte territoriale sarebbe incorsa nella violazione degli artt. 1218 e 2697 c.c. ove ha ritenuto non assolto l’onere probatorio da parte dell’attuale ricorrente, nonostante si fosse in presenza di un quadro probatorio, documentalmente agli atti, specifico ed esaustivo; nonché, nella violazione dell’art. 2729 c.c., commi 1 e 2, in quanto l’asserita lacunosità della cartella clinica non recherebbe il requisito della “gravità” richiesto dalla norma de qua, essendo in contrasto con la documentazione versata in atti. Inoltre, adduce non potersi condividere le argomentazioni addotte dal giudice di secondo grado, e ciò sulla base delle proprie tesi difensive e argomenti di prova, incentrati sul fatto che le condizioni di partenza della paziente erano ben più gravi e invalidanti di quelle relative a una pura e semplice lombosciatalgia, posto che nel supplemento di indagine i CTU hanno escluso “il quadro ipercifotico dorsale” a loro avviso diagnosticato dal Dott. C.; inoltre tutti i CTU avrebbero riferito che l’intervento non comportava particolari difficoltà, essendo all’epoca già praticato, anche se si poteva insistere in una terapia conservativa, e dunque non aveva natura sperimentale, come indicato di giudici di merito; che l’assunto circa la carenza di documentazione attestante il rilascio di un consenso informato risulta formalistico, posto che la paziente avrebbe riferito di essere stata informata dal Dott. C. che la sua colonna era molto compromessa e che doveva sottoporsi a intervento chirurgico al fine di stabilizzare la colonna, giacché quel tipo di intervento l’avrebbe aiutata a rinviare l’inserimento di barre intervertebrali, risultando anche nell’atto di citazione che il marito della paziente, nel corso dell’intervento, era stato informato che anche il disco superiore risultava rovinato e necessitava di un supporto DIAM; deduceva inoltre la non riscontrabilità in atti di elementi idonei a evidenziare la scorrettezza delle scelte chirurgiche e delle modalità dell’eseguito intervento, come attestato nei successivi esami eseguiti presso altri istituti (***** e ***** e *****); mentre il fatto che il comportamento del Dott. P. sia stato reticente od omissivo nel periodo post – operatorio risulterebbe solo dalle affermazioni dell’attrice, non già da una rituale assunzione di prova sul punto.
2. Con il secondo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione degli artt. 1218,1223 e 2729, primo e comma 2, c.c. per avere la Corte d’Appello ritenuto assolta la prova del nesso causale fra la condotta dei sanitari e la patologia di cui risulta affetta la paziente, sulla semplice deduzione della sig.ra T. per cui vi era stato un “repentino aggravamento” delle sue condizioni fisiche dopo l’intervento; né al mancato assolvimento dell’onere probatorio era dato supplire d’ufficio. Invoca la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’attore deve allegare un nesso causale astrattamente plausibile, vale a dire corrispondente alle regole statistico-scientifiche che governano le relazioni tra classi di eventi e che, poi, questo rapporto dovrebbe trovare “conferma” nell’esame degli elementi del caso concreto (con correlativa esclusione dei fattori alternativi) (Cass. n. 18392/2017; n. 6275/2012). Nel caso di specie, tuttavia, tale indagine sarebbe stata pienamente omessa dalla Corte territoriale che avrebbe proceduto a registrare in modo “del tutto acritico” il materiale istruttorio costituito dalla documentazione e dalla nova CTU, senza procedere a quelle valutazioni di merito occorrenti in un quadro diagnostico caratterizzato: a) dalla precarietà delle condizioni della paziente allorché si rivolse ai dottori C. e P., b) dal rapporto tra tali condizioni (ben più gravi) in rapporto a quelle riscontrate all’esito dell’intervento; c) dall’ingravescenza che, nel corso degli anni successivi, assunse la forma di una sindrome secondo la scienza medica non diagnosticabile per quanto attiene alla causa che potrebbe averla generata. In particolare, il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente ritenuto che, sulla base dell’esame EMG svolto in data ***** (dunque di un’unica, singola ed isolata risultanza), la sindrome “di tipo 1”, della quale la sig.ra T. è risultata affetta, derivasse dal praticato intervento, mentre non era stato considerato il miglioramento ottenuto dopo l’intervento, seguito da un peggioramento dopo la rimozione dei DIAM, e l’assenza di una instabilità della colonna successiva all’intervento.
3. Il primo e il secondo motivo del ricorso principale vanno dichiarati inammissibili.
4. Va infatti preliminarmente rilevato che sotto le spoglie del motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, le censure mirano ad una rivalutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito. Di contro, in forza del consolidato orientamento di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Sez. U -, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24054 del 12/10/2017; Sez. L, Sentenza n. 16698 del 16/7/2010; Sez. 1, Sentenza n. 4178 del 22/2/2007).
4.1. Pertanto, solo entro i limiti del vizio motivazionale, inteso nel senso della violazione del minimo costituzionale di cui a Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 – neppure invocato nel ricorso – la ricorrente avrebbe potuto involgere il sindacato di questa Corte, diversamente, riducendosi i mezzi di impugnazione ad una serie di soggettive interpretazioni sui documenti versati in atti e sulle osservazioni dei periti.
4.2. Più precisamente, la ricorrente deduce precipuamente una violazione dei principi di ripartizione degli oneri probatori.
4.3. In relazione all’art. 2697 c.c., questa Corte ha più volte indicato che la violazione della norma de qua, censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile solo ove il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non, invece, laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/5/2018; Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/6/2013; Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 5/9/2006).
4.4. La sentenza gravata, però, non presenta le violazioni denunciate, rispondendo adeguatamente al principio di diritto, anche di recente precisato da questa Corte, in base al quale mentre è onere del creditore della prestazione sanitaria provare, anche a mezzo di presunzioni, l’inadempimento astrattamente idoneo a causare il danno e il nesso di causalità fra l’aggravamento o l’insorgenza della situazione patologica e la condotta del sanitario e’, invece, onere della parte debitrice provare – ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio – la non imputabilità a sé medesimo dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione (Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 dell’11/11/2019; Sez. 3 -, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018; Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del 26/7/2017).
4.5. L’asserita violazione delle norme che governano la responsabilità sanitaria, difatti, non si configura nel caso concreto ove la Corte territoriale, sulla scorta della CTU collegiale rinnovata in sede di giudizio d’appello, ha ritenuto che l’attrice-appellante abbia allegato e provato la sussistenza del rapporto contrattuale inter partes e gli inadempimenti dei medici riguardanti: il mancato assolvimento dell’obbligo informativo circa le caratteristiche, le controindicazioni e gli effetti collaterali dei DIAM applicati, in rapporto agli eventuali vantaggi derivanti dalle alternative possibili, quali la fisioterapia; le omissioni nella tenuta della cartella clinica (espresse quali “evidenti lacune nella sua compilazione p. 47 CTU”) e del verbale operatorio, nonché la mancanza di informazioni certe circa l’evoluzione delle condizioni della paziente durante la convalescenza (pag 11 sentenza e pag 50 CTU); in particolare ha sottolineato l’inadeguatezza della scelta dell’intervento, tenuto conto del quadro patologico disco vertebrale (descritto come ” modesto”, a p. 14, con assenza di ernie discali manifeste e impegno radicolare minimo emerso dalle indagini pre-operatorie) che suggeriva di tentare una terapia riabilitativa per risolvere un’alterazione posturale in considerazione dell’età relativamente giovane della paziente; ha messo in rilievo l’aggravamento repentino delle condizioni fisiche della paziente in seguito all’installazione dei DIAM, quale elemento dirimente ai fini della valutazione del nesso di causalità (p. 7 sentenza); ha considerato il comportamento negligente e reticente del chirurgo operatore tenuto prima e dopo l’intervento – nel suggerire l’installazione dei DIAM, ancora non studiato nel follow up a distanza rispetto ad altri dispositivi interspinosi, sia in seguito all’intervento, e nel non dare indicazioni sulle caratteristiche dei DIAM, applicati-. Infine, aderendo alle risultanze della ctu, ha evidenziato che “la sindrome dolorosa regionale complessa di cui è affetta la sig.ra T., in base alla letteratura scientifica, nell’80% dei casi risulta avere origine iatrogena derivante dall’insulto chirurgico dei tessuti molli (intervento chirurgico), con conseguente iperattivazione del sistema simpatico”, ritenendo, dunque, provato il nesso eziologico sulla scorta del principio civilistico del “più probabile che non”.
4.6. Per converso, la Corte di merito ha messo in rilievo come non sia risultato adempiuto da parte della convenuta appellata, l’onere di provare l’assenza di colpa dei sanitari (p. 7 della sentenza) ed in particolare, a fronte delle inadempienze provate dall’attrice causalmente ricollegabili al danno rilevato (secondo un criterio di probabilità logica desumibile dagli elementi di conferma disponibili nel caso concreto e dalla contemporanea esclusione di possibili elementi alternativi, p. 17 sentenza), evidenziava infine che era del tutto probabile che l’installazione di DIAM avesse determinato “un’interruzione della conduzione nervosa, non stabilmente compensata, come emerge dal referto dell’esame EMG svolto il *****” (p. 18) e che “Ne’ risulta che le parti appellate abbiano fornito prova circa l’esistenza di eventuali cause alternative, da sole sufficienti a determinare il repentino aggravamento della disfunzione motoria della paziente, e idonee, quindi, a interrompere il nesso eziologico tra la propria condotta negligente e il danno subito” (pag. 19 della sentenza d’appello)”.
4.7. Neppure coglie nel segno l’asserita violazione dell’art. 2729, c.c., commi 1 e 2, ove il ricorrente adduce che la lacunosità della cartella clinica non possa nel caso concreto assumere il requisito di gravità specificamente richiesto per validare un ragionamento per presunzioni. Ed invero, in tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (Sez. 3 -, Sentenza n. 27561 del 21/11/2017; Sez. 3, Sentenza n. 12218 del 12/6/2015; Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/1/2010). La Corte territoriale ha correttamente fatto riferimento (pag. 13 della sentenza) al principio di diritto sopra menzionato, sull’assunto in base al quale l’imperfetta compilazione della cartella clinica non potrebbe tradursi in un danno nei confronti del paziente, ricadendo l’obbligo di controllarne l’esattezza sul sanitario ex art. 1176 c.c.
4.8. Sotto il profilo motivazionale, oltre a quanto sopra rilavato in relazione alla denunciata violazione delle norme in tema di oneri di prova e di causalità giuridica, deve peraltro escludersi anche che, in ipotesi, si versi piuttosto nel caso di una motivazione apparente o comunque in violazione del minimo costituzionale, in rapporto alle circostanze rivelatesi, in tesi, inesatte in quanto non confromi a quanto rilevato dai CTU, prese ancora in considerazione dalla Corte di merito, quali il fatto che: – sia stata erroneamente indicata la presenza di una cifosi, considerata nella sentenza come fattore da curare con diverse terapie in via alternativa, ma negata dai CTU in sede di integrazione della relazione peritale; – sia stato erroneamente ritenuto il mancato preventivo ricorso a terapia farmacologica e fisioterapia prima dell’intervento (a dire della ricorrente attestata dagli atti visionati dai CTU); – non sia intervenuta una resezione o incisione del nervo, ma solo uno stiramento nel corso dell’operazione, e dunque non un insulto in sede operatoria, bensì lo stiramento del nervo che è stato ritenuto avere agito come fattore causale di quell’iperattivazione del ” gran-simpatico”, a sua volta tradottasi nella finale sindrome di tipo 1 (correlata a procedure chirurgiche) di cui, però, non è dato conoscere la causa; – che la ***** nel ***** non abbia reputato scorretto l’intervento, bensì necessario continuare con la terapia antidolore.
4.9. Tutto quanto sopra evidenziato in fatto, invero, si dimostra non decisivo là dove Corte di merito ha ritenuto che, valutate tutte le circostanze nel loro insieme, l’ingravescenza evidenziatasi subito dopo l’intervento sia stata notevole e repentina e che dunque tale evento sia con tutta probabilità immediatamente riconducibile a una causa iatrogena (insulto delle innervazioni in fase di esecuzione), a fronte della lacunosità della cartella clinica che rende impossibile la valutazione di altre cause alternative, rimaste quindi del tutto non provate.
4.10. Si tratta, pertanto, di una motivazione del tutto in linea con tutti parametri normativi e logici sopra indicati.
5. Con il terzo motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione dell’art. 1223 c.c. La ricorrente contesta che, nel procedere alla liquidazione del quantum debeatur, la Corte d’Appello non si sia avveduta del fatto che l’aggravamento del danno alla salute della sig.ra T. fosse già di per sé esistente. Avrebbe, difatti, semplicemente recepito acriticamente quanto dedotto dalla CTU di secondo grado, ove i due periti ritenevano che in epoca pre-operatoria la paziente presentasse una invalidità biologica valutabile intorno al 20%. Senonché, non sarebbero evincibili i parametri adottati dai periti per pervenire a tale grado, né il giudice di merito avrebbe considerato e dato conto delle condizioni nelle quali la T. versava già prima dell’intervento chirurgico.
5.1. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
5.2. La ricorrente principale lamenta l’erronea liquidazione del quantum debeatur per danno differenziale, per avere la Corte d’Appello recepito acriticamente le deduzioni dei periti, ancorché gli stessi non avessero indicato i parametri adottati per ritenere che la paziente fosse affetta, ante intervento chirurgico, da invalidità biologica pari al 20%, ritenuta riduttiva rispetto alle condizioni in cui essa si presentava al tempo dell’intervento. Tuttavia, la ricorrente omette di indicare ove ed in quali termini abbia rivolto specifiche critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice “a quo”, nonché di trascrivere almeno i punti salienti della ctu e delle critiche spiegate onde consentire a questa Corte di valutarne la decisività e rilevanza della contestazione (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 11482 del 3/6/2016; Sez. 1, Sentenza n. 16368 del 17/7/2014; Sez. 1, Sentenza n. 10222 del 4/5/2009).
6. Con il quarto ed ultimo motivo si prospetta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte d’Appello ritenuto di non potersi pronunciare sulla condanna nei confronti dei dottori C. e P. nei confronti di parte attrice a titolo di manleva essendo stata abbandonata in sede di appello. Di contro, la ricorrente assume di aver riproposto tale domanda nella comparsa di costituzione in appello, là dove viene in subordine richiesto che ” sia accertata l’estraneità della azienda sanitaria…ai fatti dedotti in causa, e per l’effetto, siano condannati i sanitari ritenuti responsabili, in solido o chi di ragione, fra loro” e che il perdurante interesse dell’Azienda, come dimostrato a p. 36 della comparsa conclusionale” aveva fatto sì che la stessa venisse coltivata durante tutto il procedimento.
6.1. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e 6.
6.2. La ricorrente si limita ad indicare di aver insistito nella “domanda di manleva” nei confronti dei dottori C. e P. con la comparsa di costituzione in appello, riportandone un contenuto affatto diverso su cui la Corte si è invece pronunciata, rigettandola. Sostiene, infatti, di avere chiesto, nella denegata ipotesi di accoglimento, anche parziale, delle domande, che venga accertata la sua estraneità ai fatti di causa e che, per l’effetto, siano condannati i sanitari ritenuti responsabili, in solido o chi di ragione fra loro (v. p 40 del ricorso).
6.3. Da un lato, nel motivo si omette qualsiasi riferimento alla “domanda di manleva” (o di rivalsa) per come formulata originariamente nel primo grado. Dall’altro, si omette di considerare che, sul punto, la Corte d’appello si e’, al contrario di quanto assunto, pronunciata e ha ritenuto “che la ASL in grado di appello ha abbandonato la domanda di manieva ed insistendo nella domanda di accertamento di esclusione della sua responsabilità con condanna diretta dei sanitari, domanda che sicuramente poteva riproporre stante l’omessa pronuncia in I grado, essendo rimasta assorbita dal rigetto della domanda della T.”. In particolare, nella motivazione è dato leggere che i) la domanda formulata in appello riguarda un’affermazione di estraneità della ASL dimostratasi del tutto infondata alla luce della sua responsabilità contrattuale rilevabile dal contratto di spedalità (v. p. 7 della sentenza), ii) la domanda di manleva nei confronti dei due medici non è stata più insistita in sede di appello, mentre iii) la domanda di rivalsa interna nei confronti dei medici non è mai stata formulata e potrà essere autonomamente instaurata dalla ASL in un separato giudizio. La Corte, pertanto, si è pronunciata sulla insussistenza di una causa di esclusione della ASL da ogni responsabilità per fatto direttamente imputabile ai soli medici, in ciò riportandosi alle precedenti argomentazioni e, con una diversa ratio decidendi ha ritenuto che la domanda di manleva fosse stata rinunciata, mentre mai era stata esercitata l’azione di rivalsa nei confronti dei medici, aggiungendo che la Asl potrebbe i eventualmente rivalersi autonomamente nei riguardi dei medici sulla base dei loro rapporti interni.
6.4. Il motivo, pertanto, è inammissibile perché non si confronta adeguatamente con tre diverse rationes decidendi, che dimostrano che la Corte, sul punto, si è effettivamente pronunciata e che alcune di esse non risultano neanche impugnate.
7. Conclusivamente il ricorso principale è inammissibile.
8. Per quanto attiene al ricorso incidentale della sig.ra T., con il primo motivo si contesta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla domanda formulata dall’attrice di condanna dell’Azienda sanitaria al risarcimento dei danni patrimoniali per l’incidenza acclarata della patologia sull’attività lavorativa specifica. Assume, difatti, di aver più volte assunto che i gravi postumi riportati a causa dell’errato intervento chirurgico avevano totalmente compromesso la sua capacità lavorativa e addirittura causatole la perdita del lavoro. Tale questione, peraltro, aveva formato oggetto di specifica domanda risarcitoria con l’atto di citazione in primo grado, e l’attrice l’aveva coltivata anche nelle successive fasi processuali. Rileva, inoltre, che il collegio peritale aveva espressamente ritenuto incompatibile il suo lavoro, attività di sostegno sociale, con il quadro menomativo riportato a seguito dell’intervento. Invoca la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 24210/2015) per cui ogni qualvolta il danno alla salute è notevole, la prova dell’incidenza della menomazione sulla capacità lavorativa del soggetto leso deve considerarsi in re ipsa.
8.1. Il motivo è fondato.
8.2. La Corte di merito ha liquidato il solo danno non patrimoniale e non ha fatto riferimento a diverse richieste di liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa sia specifica che generica.
8.3. La ricorrente incidentale, per quanto è dato rilevare nel presente motivo, ha indicato di avere addotto con l’atto di citazione in primo grado che “l’invalidità causata dall’intervento ha costretto l’attrice ad abbandonare il lavoro” e quantificava “i danni da invalidità permanente (Euro 272.689,25)”. Sul punto, oltre a richiamare il contenuto delle ordinanze collegiali che hanno disposto uno specifico quesito sul punto e le conclusioni del collegio peritale che ha ritenuto la menomazione ricevuta come “incompatibile con il lavoro della sig.ra T., che svolgeva attività di sostegno sociale all’interno di una cooperativa”, richiama le domande svolte nei due gradi di giudizio (più precisamente richiama l’atto di citazione nelle parti indicate (p. 20 21) e l’atto di appello a p. 52, riportato a p. 42 del ricorso).
8.4. In proposito occorre puntualizzare che la perdita di capacità lavorativa generica, ugualmente richiamata dalla ricorrente come domanda omessa, non ha immediata incidenza patrimoniale come quella specifica oggetto di domanda, essendo essa collegata al danno biologico e potendo dar luogo, semmai, a una personalizzazione del danno biologico che non si deduce essere mancata o specificamente richiesta. Il principio da ultimo fatto proprio da Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 12572 del 22/05/2018, è nel senso che “…. il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato omnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20312 del 09/10/2015).
8.5. In definitiva, il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita di capacità lavorativa specifica richiede un giudizio prognostico sulla compromissione delle aspettative di lavoro in relazione alle attitudini specifiche della persona, mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, di natura non patrimoniale, consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento, dell’attività lavorativa, non incidente, neanche sotto il profilo delle opportunità, sul reddito della persona offesa, risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo. Tale tipologia di danno, configurabile solo ove non si superi la soglia del 30% del danno biologico (essendo esso normalmente ricompreso nelle valutazioni superiori), va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto. (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 17411 del 28/06/2019).
8.6. La Corte di merito, quindi, ha certamente omesso ogni considerazione della domanda relativa a una perdita della capacità lavorativa specifica, determinante una perdita patrimoniale che, tuttavia, è attestata nella CTU e allegata nelle domande proposte anche per quanto attiene alla sua quantificazione.
8.7. La Corte di rinvio dovrà pertanto considerare la suddetta domanda.
9. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omessa motivazione circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. La ricorrente rileva che, ove si ritenga che il vizio denunciato con il primo motivo di ricorso incidentale, non integri la violazione dell’art. 112 c.p.c., è evidente comunque che sia stata omessa la valutazione della questione inerente al danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica, pur essendo stata oggetto di discussione tra le parti. Il motivo è assorbito dall’accoglimento del primo.
10. Conclusivamente, il ricorso principale è dichiarato inammissibile, mentre viene accolto il primo motivo di ricorso incidentale, con assorbimento del secondo; per l’effetto la Corte cassa la sentenza e rinvia alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese.
PQM
Dichiara il ricorso principale inammissibile;
Accoglie il primo motivo di ricorso incidentale, con assorbimento del secondo;
Per l’effetto cassa la sentenza e rinvia alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principate dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato – se dovuto- pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 21 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021