LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Presidente –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29345-2017 proposto da:
M.A., M.M., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DI VILLA CARPEGNA 58, presso lo studio dell’avvocato MARCO PETRINI, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA SALUTE *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1655/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 24/10/2017.
RILEVATO
che:
con atto di citazione del 18 gennaio 2003, M.M. e M.A. evocavano in giudizio, davanti al Tribunale di Bari, il Ministero della salute per sentir accertare la responsabilità di tale Ente ai sensi dell’art. 2043 c.c., per la lesione alla integrità psicofisica provocata a S.A., rispettivamente moglie e madre degli attori, consistita nell’insorgere del virus della epatite C che aveva provocato, per effetto di complicazioni, la morte della congiunta. Conseguentemente chiedevano la condanna del Ministero al risarcimento dei danni “iure hereditatis” e “iure proprio”. Precisavano che, nell’aprile del 1977, in occasione di un ricovero presso l’ospedale Di Venere di Bari, la S. era stata sottoposta a trattamento trasfusionale e nel 1983 le era stata diagnosticata una epatopatia cronica. Nel 1992 era stata accertata l’infezione da virus dell’epatite C e cinque anni più tardi, la S. era deceduta;
si costituiva il Ministero della salute, eccependo il difetto di legittimazione passiva, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, il divieto di cumulo con l’indennizzo ottenuto ai sensi della L. n. 210 del 1992, conseguito a seguito della domanda presentata dal marito della vittima in data 2 febbraio 1999;
il Tribunale di Bari, con sentenza del 18 giugno 2014, in accoglimento della eccezione di prescrizione quinquennale, rigettava la domanda relativa al risarcimento del danno “iure hereditatis”. Quanto al danno “iure proprio” rivendicato dai congiunti, escludeva il nesso causale tra il decesso e la patologia epatica contratta;
avverso tale decisione M.M. e M.A. proponevano appello, davanti alla Corte territoriale di Bari, con atto di citazione del 16 luglio 2014. Si costituiva il Ministero contestando la fondatezza del gravame;
la Corte d’Appello di Bari, con sentenza del 20 ottobre 2017, rigettava l’impugnazione compensando tra le parti le spese di lite;
avverso tale decisione M.M. e M.A. propongono ricorso per cassazione affidandosi ad un motivo. Resiste con controricorso il Ministero della salute.
CONSIDERATO
che:
con il ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2935 e 2947 c.c., in tema di decorrenza della prescrizione. Il principio della conoscenza della riferibilità causale richiederebbe una valutazione oggettiva della storia clinica del soggetto leso, e non soggettiva. La Corte d’appello avrebbe errato nel confermare la decisione di primo grado sostenendo che la paziente aveva avuto conoscenza del rapporto di causalità tra la trasfusione e la malattia già nel 1993, anno in cui era stata riscontrata la HCV, per la sua qualità di infermiera, oltre che per la circostanza secondo cui, a seguito dell’emanazione della L. n. 210 del 1992, la questione della riferibilità causale della patologia alla trasfusione era di dominio pubblico. Pertanto, secondo la Corte territoriale, dalla data della messa in mora del 26 marzo 2002 erano trascorsi i cinque anni del termine di prescrizione. L’argomentazione sarebbe errata perché fondata sulla soggettività della vittima, violando le norme indicate in premessa, che richiedono una valutazione oggettiva, basata sulla documentazione clinica e non sulla qualifica del danneggiato. Sotto altro profilo, l’emanazione della normativa in tema di indennizzo non sarebbe sufficiente a configurare, sempre e comunque, la conoscenza della riferibilità dell’evento dannoso alla trasfusione;
il motivo è dedotto come violazione di legge e in particolare delle norme in tema di durata della prescrizione, ex artt. 2935 e 2947 c.c. riferiti alla prova della conoscenza del rapporto causale tra la patologia e la trasfusione e non è prospettato in termini di violazione delle norme sulla prova presuntiva, al fine di contestare che i dati fattuali posti a sostegno della decisione rivestano il carattere della gravità, precisione e concordanza. Pertanto, la questione va esaminata esclusivamente con riferimento all’applicazione dei principi in tema di decorrenza del termine di prescrizione quinquennale, riferito al danno iure hereditatis;
sotto tale profilo il motivo non è specifico, perché non sono esplicitate le ragioni per le quali la motivazione della Corte territoriale sarebbe errata, in quanto i ricorrenti si sono limitati a reiterare le argomentazioni oggetto di uno dei motivi di appello, mentre il giudice di secondo grado ha fatto corretta applicazione del principio consolidato che fa decorrere il termine di prescrizione dal momento in cui la parte danneggiata era a conoscenza o poteva essere a conoscenza delle cause della patologia epatica secondo la ordinaria diligenza o quella richiesta nel caso concreto;
la decisione impugnata si fonda su tre argomentazioni;
richiama il principio consolidato secondo cui la prova della consapevolezza va riferita al momento in cui la malattia è stata percepita o avrebbe potuto essere percepita, usando l’ordinaria diligenza, quale danno ingiusto, conseguente al comportamento doloso o colposo del Ministero; fa riferimento ai due parametri oggettivi, interno ed esterno al soggetto;
quanto al parametro esterno, individua correttamente la data in cui è stata diagnosticata la patologia (anni 1992/93) e cioè riferendola alle conoscenze scientifiche del tempo; per cui essendo già in vigore della L. n. 210 del 1992, la conoscenza del problema era di pubblico dominio;
quanto al criterio oggettivo interno, l’indagine ha interessato la diligenza esigibile dalla vittima, che riguarda le informazioni di cui la stessa era in possesso e sotto tale profilo la S., per la qualità professionale (infermiera), aveva degli strumenti aggiuntivi per percepire la riferibilità della patologia alla trasfusione;
ulteriore elemento considerato dalla Corte territoriale è quello del lungo decorso della malattia, che impose alla ammalata di rimanere a stretto contatto con medici e con le strutture ospedaliere e a sottoporsi a numerosi ricoveri, cure, esami clinici e ad ogni altra terapia relativa alla patologia in atto. Tali elementi certamente consentivano di presumere sulla base di una valutazione in fatto non sindacabile in questa sede e non censurata, per le ragioni che si sono dette in premessa- quella conoscenza del rapporto di causalità tra la trasfusione e la patologia riscontrata nel 1993, in un periodo precedente al marzo 1997 (data anteriore, di oltre cinque anni, rispetto alla lettera di messa in mora del 26 marzo 2002);
va aggiunto che il motivo non riguarda il capo della sentenza che ha rigettato la richiesta di danni “iure proprio” che, pertanto, è passata in giudicato riguardo alla esclusione del nesso causale tra il decesso e la patologia conseguente alla trasfusione;
ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile-3, il 10 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021