LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3182-2017 proposto da:
A.D., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO N 58, presso lo studio degli avvocati SAVINA BOMBOI, e BRUNO COSSU che li rappresentano e difendono unitamente all’avvocato GIORGIO GARGIULO;
– ricorrenti –
contro
FONDAZIONE OPERA SAN CAMILLO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAPO PELORXO 3, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI COSTANTINO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 203/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 20/07/2016 R.G.N. 101/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/11/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato BRUNO COSSU.
FATTI DI CAUSA
1. Gli odierni ricorrenti con la domanda di cui al ricorso di primo grado hanno esposto di avere prestato servizio con funzioni di operatori socio sanitari presso il Centro Servizi Anziani di Venezia Lido, di proprietà dell’ente religioso Provincia Lombardo Veneta che applicava agli stessi il c.c.n.l. ARIS; che con contratto di affitto del 10.3.2009 la predetta struttura recettiva era stata affidata in gestione alla Fondazione Opera San Camillo, la quale aveva comunicato che con decorrenza dal 1.2.2011 il rapporto di lavoro degli ex dipendenti dell’ente religioso Provincia Lombardo Veneta sarebbe stato regolato dal c.c.n.l. UNEBA (fatta eccezione per i relativi allegati) in sostituzione del precedente contratto scaduto, “fermo restando il mantenimento dell’attuale trattamento economico ai sensi dell’art. 2113 c.c.”; che, tuttavia, con il successivo accordo di armonizzazione in data 2.5.2011 era stato in concreto stabilito un trattamento economico notevolmente inferiore a quello in precedenza goduto, non essendo stata prevista la indennità di turnazione (contemplata dal precedente contratto collettivo) e risultando il trattamento retributivo mensile ragguagliato ad un orario settimanale articolato su 38 ore anziché su 36 ore, come in precedenza regolato. Dedotto che il comportamento della Fondazione costituiva inadempimento dell’obbligo di mantenimento del trattamento economico e normativo in vigore nei confronti dei dipendenti della Provincia Lombardo Veneta (obbligo assunto in sede di contratto di fitto, di accordo di armonizzazione del 2.5.2011 e con comunicazione del 3 febbraio 2009), e configurava violazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 36 Cost., hanno chiesto la condanna della convenuta Fondazione Opera San Camillo a corrispondere, con effetto dal 1.2.2001, un trattamento economico retributivo quantitativamente equivalente a quello percepito in forza del c.c.n.l. per le case di cura private (ARIS), come tale comprensivo oltre che della relativa retribuzione diretta, dell’indennità di turnazione di cui all’art. 61, lett. d) del detto contratto collettivo, trattamento rapportato all’effettivo maggior orario normale di 38 ore settimanali.
2. La sentenza di primo grado, di accoglimento della domanda dei lavoratori, è stata riformata dalla Corte di appello di Venezia, che con sentenze, definitiva e non definitiva, ha respinto la originaria domanda.
3. Per quel che ancora rileva, la statuizione di rigetto è stata fondata sulla considerazione che: a) la indennità di turno costituisce un tipo di emolumento eventuale e non un’intrinseca qualità della prestazione e come tale si sottrae in generale al principio di irriducibilità della retribuzione; nello specifico, pacifico l’inserimento in turni del personale proveniente dalla Provincia Lombardo Veneta, nulla spettava a titolo di relativa indennità, non essendo l’erogazione dell’emolumento in oggetto prevista né dalla contrattazione collettiva applicabile, né dall’accordo di armonizzazione; b) nulla era dovuto a titolo di retribuzione cd. supplementare posto che l’articolazione dell’orario settimanale ordinario su 38 ore anziché su 36 ore risultava stabilita dall’accordo di armonizzazione, il quale aveva espressamente escluso che potesse trovare applicazione l’allegato al c.c.n.l. UNEBA, alla stregua del quale il maggior orario settimanale di 38 ore su base annuale doveva essere compensato o con l’erogazione di una somma equivalente o con una somma accantonata nella banca delle ore; tanto comportava, per i limiti di efficacia e vincolatività della disciplina collettiva in presenza di disdetta e di positiva regolamentazione con una nuova regolazione contrattuale costituita nello specifico dall’accordo di armonizzazione del maggio 2011, che nulla i lavoratori potevano reclamare sulla base della intervenuta modifica dell’orario settimanale; c) infine, in relazione alla prospettata violazione dell’art. 36 Cost. il carattere accessorio della indennità di turnazione induceva ad escludere che la mancata erogazione comportasse violazione del canone costituzionale di sufficienza e proporzionalità; analogamente quanto al lavoro supplementare dovendo in generale evidenziarsi che la particolare garanzia apprestata dall’art. 36 Cost. non si riferisce ai singoli elementi retributivi bensì al trattamento economico globale; la articolazione dell’orario settimanale su 38 ore anziché su 36 ore era conforme alla disciplina direttamente applicabile, né configurava indebita riduzione della retribuzione proporzionata e sufficiente.
4. Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso A.D. e gli altri lavoratori in epigrafe indicati sulla base di quattro motivi; la intimata Fondazione Opera San Camillo ha resistito con tempestivo controricorso.
5. All’esito della discussione la causa è stata decisa come da dispositivo, non ravvisandosi specifiche ragioni di opportunità, destinate a prevalere sull’esigenza della ragionevole durata del processo, per la trattazione congiunta della presente causa con quella di cui al ricorso n. RG 3187/2017 proposto da altri lavoratori nei confronti della Fondazione Opera San Camillo ed avente ad oggetto, come prospettato dal procuratore dei ricorrenti, le medesime questioni giuridiche della presente causa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, e art. 1363 c.c. con riferimento alla interpretazione dell’accordo sindacale 2.5.2011; la lettura dell’accordo di armonizzazione da parte della Corte di merito non aveva considerato il contesto nel quale lo stesso era maturato né tenuto conto degli atti negoziali che lo avevano preceduto e della garanzia, in più sedi ribadita dalla Fondazione datrice di lavoro, del mantenimento del trattamento economico in essere in favore del personale proveniente dalla Provincia Lombardo Veneta; era stato, inoltre, tradito il dato letterale dell’accordo medesimo in quanto l’ampiezza delle espressioni ivi utilizzate non consentiva di escludere dal trattamento economico la indennità di turno costituente, per come pacifico, una componente fissa della retribuzione; parimenti la Corte di merito aveva errato nel ricostruire il significato negoziale dei punti 2 e 3 dell’accordo medesimo ed i limiti connessi alla dichiarata esclusione dell’applicabilità dell’Allegato 2 al c.c.n.l. UNEBA.
2. Con il secondo motivo di ricorso deducono, in via subordinata, omesso esame di fatti decisivi ai fini dell’interpretazione dell’accordo del 2.5.2011 rappresentati dalle circostanze indicate ai punti 1.2.1.1., 1.2.1.2., 1.2.1.3, 1.2.1.4. del ricorso e, per quanto riguarda il punto 1.2.2.2., dalla circostanza che l’art. 1 dell’Accordo di armonizzazione prevedeva, con decorrenza dal 1 febbraio 2011, che al personale in forza al Centro Servizi Anziani di Venezia venisse applicato il c.c.n.l. UNEBA, con esclusione dei suoi allegati e accordi regionali.
3. Con il terzo motivo di ricorso deducono falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. con riferimento al compenso per la indennità di turno, censurando la sentenza impugnata per avere omesso di applicare alla fattispecie in esame il principio di diritto, pur correttamente enunciato dal giudice di appello, secondo il quale la indennità di turno era un compenso legato alla particolare modalità della prestazione non più dovuto nel caso del venir meno del relativo presupposto fattuale; da tanto scaturiva che nel pacifico perdurare di tale presupposto di fatto il diritto all’emolumento in oggetto non poteva essere negato.
4. Con il quarto motivo di ricorso deducono violazione dell’art. 2103 c.c. censurando la sentenza impugnata in quanto il giudice di appello, pur riconoscendo che la retribuzione individuale garantita dall’art. 2103 c.c. nella permanenza del c.c.n.l. ARES era ragguagliata ad un orario di lavoro settimanale di 36 ore ed all’indennità di turno, aveva ritenuto che il compenso per tale indennità e per il maggiore orario osservato potessero essere ridotti per il fatto che l’accordo di armonizzazione non ne prevedeva il mantenimento.
5. I motivi in esame stante la reciproca connessione sono esaminati congiuntamente.
5.1. Non è contestato tra le parti e comunque accertato dal giudice di merito (v. sentenza, pag. 14, primo capoverso) che nel periodo dedotto il contratto collettivo ARES, fosse “scaduto”; in conseguenza, in base alla giurisprudenza di questa Corte che ha escluso la efficacia ultrattiva delle pattuizioni collettive, tale contratto non poteva più costituire, neppure in relazione al trattamento retributivo e fatto salvo in ogni caso il rispetto del parametro di sufficienza e proporzionalità di cui all’art. 36 Cost., la fonte regolatrice del rapporti in questione, la quale andava pertanto ricercata nelle norme di legge ed in quelle convenzionali eventualmente esistenti (Cass. 15/12/2016, n. 25919; Cass. 25/05/2012, n. 8288; Cass. 107/10/2010, n. 20784; Cass. Sez. Un. 30/05/2005, n. 11325).
5.2. La possibilità di modificazione in peius del trattamento dei lavoratori in ipotesi di successione di contratti collettivi è generalmente ammessa con il solo limite dei diritti quesiti (che presuppongono il riconoscimento dell’esistenza “ex lege” del diritto, il che è configurabile solo in caso di successione di leggi nel tempo, non anche nell’ipotesi di successione di normativa di origine pattizia, e, per altro verso, di diritti acquisiti può parlarsi solo con riferimento a quei diritti già entrati a far parte del patrimonio dei lavoratori, in relazione ad un evento già maturato, e non con riferimento ad aspettative sorte sulla base di regole previgenti o a semplici pretese di stabilità nel tempo di una regolamentazione di origine pattizia. (Cass. 08/05/2000, n. 5825), dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale (Cass. 19/06/2014, n. 13960; Cass. 10/10/2007, n. 21234).
5.3. In base alla condivisibile giurisprudenza richiamata devono essere, quindi, respinte le censure articolate con i motivi terzo e quarto in quanto fondate sull’assunto – che non trova fondamento normativo nel disposto dell’art. 2103 c.c., ove riferito, come nel caso di specie, alla applicazione di una disciplina collettiva in sostituzione di altra cessata – del principio di irriducibilità della retribuzione la quale, come sopra evidenziato, opera sul diverso piano del rapporto individuale.
5.4. Neppure la pretesa azionata potrebbe essere fondata sull’interpretazione dell’accordo collettivo di armonizzazione propugnata dai ricorrenti.
5.5. Giova premettere che in relazione all’accordo di armonizzazione, che costituisce accordo aziendale, al giudice di legittimità non è riconosciuta alcuna funzione analoga a quella risultante dalla formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 che attribuisce a questa Corte, limitatamente ai contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, un sindacato in funzione “paranomofilattica” (Cass. 18/12/2014 n. 26738; Cass. 19.3.2014; Cass. 19/03/2014 n. 6335; Cass. Sez. Un. 23/09/2010, n. 20075); da tanto deriva che il sindacato sulla correttezza dell’interpretazione dell’accordo di armonizzazione fatta propria dal giudice di appello è il medesimo che per gli atti negoziali ed i contratti ed è soggetto ai principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di modalità di deduzione della violazione delle regole ermeneutiche e del vizio di motivazione ed in tema di limiti del detto sindacato.
5.6. La consolidata e condivisibile giurisprudenza di questa Corte maturata in punto di sindacato sull’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, ha precisato che l’attività ermeneutica costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice di merito se ne è discostato, mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice di merito sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 03/09/2010 n. 19044; Cass. 12/07/2007 n. 15604, in motivazione; Cass. 22/02/2007 n. 4178) dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. 06/06/2013, n. 14318; Cass. 22/11/2010 n. 23635).
5.7. Le deduzioni della parte ricorrente in tema di violazione delle regole legali di interpretazione da parte del giudice di appello non sono fondate.
5.8. La sentenza impugnata, premesso che la indennità di turno costituisce un emolumento eventuale, non legato alla intrinseca qualità della prestazione lavorativa ed in quanto tale sottratto al principio della irriducibilità della retribuzione, ha ritenuto che le parti stipulanti l’accordo del maggio 2011 non avessero inteso riconoscere tale emolumento ed escluso che il diritto alla indennità di turno si configurasse come componente della retribuzione ordinaria, puntualizzando che a tal fine non poteva utilizzarsi il significato di retribuzione secondo la nozione operante nella vigenza della precedente disciplina collettiva: le parti stipulanti, laddove avevano affermato che il mutamento del contratto collettivo applicabile non avrebbe comportato una diminuzione degli attuali livelli retributivi riconosciuti, non aveva inteso riferirsi all’una o all’altra componente della retribuzione; l’accordo aveva finalità compensativa ed in questa prospettiva occorreva considerare che esso prevedeva una serie di deroghe, favorevoli ai lavoratori rispetto al c.c.n.l. UNEBA, in particolare con il riconoscimento di un superminimo non riassorbibile.
5.9. Da quanto ora osservato si evince che la interpretazione operata dal giudice di appello è frutto della valutazione complessiva delle clausole dell’accordo di armonizzazione, del quale è stata in particolare valorizzata la finalità compensativa riconoscibile in alcune clausole prevedenti una serie di deroghe favorevoli ai lavoratori rispetto alle clausole del c.c.n.l. UNEBA (es. in tema di previsione di un superminimo non riassorbibile); la Corte di merito ha, infatti, osservato che le previsioni favorevoli miravano in modo parziale alla conservazione del trattamento economico originario realizzata “(mediante il riconoscimento della differenza tra retribuzione annua + EADR (elemento aggiuntivo della retribuzione) e retribuzione ccnl UNEBA)”. In tal modo il giudice di appello ha dimostrato di avere ben presente il fatto che l’accordo di armonizzazione era finalizzato a “compensare” il trattamento economico normativo meno favorevole previsto dal contratto collettivo UNEBA rispetto a quello in precedenza applicato ed ha ritenuto che tale finalità fosse stata raggiunta con la previsione di alcune clausole derogatorie, più favorevoli ai lavoratori provenienti dalla Provincia Lombardo Veneta, destinate a garantire, sia pure solo parzialmente e non in toto, il livello retributivo in precedenza goduto sulla base del c.c.n.l. ARIS, non più applicabile.
5.10. Le censure articolate con il primo motivo di ricorso che denunziano violazione delle regole legali di interpretazione non si confrontano con il complesso delle argomentazioni che sorreggono la interpretazione criticata; tali argomentazioni, laddove insistono sulla funzione compensativa di alcune clausole, rivelano la chiara consapevolezza del contesto nel quale si inseriva l’accordo di armonizzazione, delle problematiche connesse al trattamento meno favorevole per i lavoratori provenienti dall’ente Provincia Lombardo Veneta derivante dall’applicazione tout court del contratto collettivo UNEBA, della necessità di trovare un accettabile punto di equilibrio fra le opposte esigenze delle parti, dovendo ulteriormente osservarsi che la assicurazione relativa alla conservazione del precedente trattamento economico, in più sedi enunciata dalla Fondazione datrice di lavoro, alla stregua delle stesse prospettazioni dei ricorrenti, non era direttamente vincolante, configurandosi al più come una generica dichiarazione di intenti destinata ad attualizzarsi solo e nei termini in cui fosse stata recepita in un accordo negoziale che vincolava la Fondazione medesima direttamente nei confronti dei lavoratori. In tale contesto, la ampiezza della espressione utilizzata in relazione all’oggetto della garanzia rappresentato dal mantenimento degli “attuali livelli retributivi riconosciuti ai lavoratori”, valorizzata dagli odierni ricorrenti, non appare significativa nel senso dagli stessi preteso, dovendo tale espressione essere collocata nel più ampio contesto negoziale e posta in relazione con le ulteriori clausole dell’accordo.
5.11. La deduzione intesa a criticare l’interpretazione dell’accordo di armonizzazione per avere affermato la inapplicabilità, in tema di lavoro supplementare, dell’allegato 2 del c.c.n.l. UNEBA e’, invece, inammissibile in quanto meramente contrappositiva alla interpretazione fatta propria dal giudice di merito, non essendo veicolata dalla deduzione e illustrazione della violazione di uno specifico criterio legale di interpretazione.
6. Le considerazioni che precedono assorbono la necessità di esame del secondo motivo di ricorso che denunzia omesso esame rispetto a circostanze di fatto da ritenersi, invece, alla stregua di quanto sopra rappresentato ben presenti dal giudice di merito.
7. Le spese sono regolate secondo soccombenza.
8. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 6.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 3 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021