Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21236 del 23/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26005/2017 proposto da:

D.J.F.R.R., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati Mellone Ernesto, Mellone Marco, giusta procura speciale per sostituto del Notaio:

L.S.F.M.Z. (*****), munita di apostille n. *****;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4342/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, pubblicata il 01/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/03/2021 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA, che chiede respingersi il ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. – d.J.F.R.R., cittadina *****, intraprendeva la procedura amministrativa per ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana jure sanguinis; presentava la relativa istanza in data 8 ottobre 2013. Il provvedimento dell’ufficiale dello stato civile che riconosceva all’interessata la cittadinanza italiana per discendenza veniva successivamente annullato d’ufficio, in via di autotutela, con provvedimento del 17 aprile 2014.

La predetta F. adiva quindi il Tribunale di Roma.

Nella contumacia del Ministero detto Tribunale negava che l’istante avesse diritto alla cittadinanza italiana.

2. – La pronuncia di primo grado era impugnata avanti alla Corte di appello di Roma. L’appellante ribadiva in quella sede di essere figlia di un soggetto, F.S., il quale, benché fosse stato riconosciuto cittadino italiano solo dal momento in cui il Ministero aveva accertato la sussistenza delle condizioni previste dalla L. n. 379 del 2000 (il 6 febbraio 2008), doveva ritenersi esserlo fin dal momento della nascita (*****).

La Corte di appello rigettava l’impugnazione osservando: che quanto affermato dall’appellante contrastava con l’accertamento dell’ufficiale dello stato civile; che la stessa F. non aveva neanche depositato il provvedimento del 5 dicembre 2012 riguardante la cittadinanza italiana di F.S., di cui non era stato quindi possibile verificare il contenuto; che le questioni di legittimità costituzionale sollevate erano state già valutate dal giudice di prima istanza e non si ravvisavano elementi di novità argomentativi che ne giustificassero, in fase di gravame, una diversa valutazione.

3. – d.J.F.R.R. denuncia per cassazione la sentenza della Corte di Roma, che è stata pronunciata il 1 luglio 2017, facendo valere due motivi. L’Amministrazione dell’interno, benché intimata, non ha svolto difese.

Il pubblico ministero ha domandato respingersi il ricorso.

La ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo di ricorso viene denunciata la violazione o la falsa applicazione della L. n. 379 del 2000, artt. 1 e 2. Sostiene l’istante che la predetta legge ha inteso riconoscere fin dalla nascita, e quindi con effetto ex tunc, lo status di cittadino italiano ai discendenti di emigranti trentini che lo avessero richiesto; in conseguenza, secondo la ricorrente, il provvedimento amministrativo emesso all’esito della relativa istruttoria avrebbe natura certificativa, o ricognitiva, dello status di cittadino italiano, e non costitutiva: il padre della ricorrente avrebbe quindi dovuto considerarsi cittadino italiano fin dalla sua nascita, e non dal momento in cui era stata accertata l’esistenza delle condizioni atte a giustificare il riconoscimento del relativo status (6 febbraio 2008).

Il motivo è infondato.

La L. n. 379 del 2000 ha consentito di ottenere la cittadinanza italiana ai discendenti di coloro che, prima del 16 luglio 1920, erano emigrati dai territori dell’impero austro-ungarico che furono trasferiti al Regno d’Italia col Trattato di Saint Germain en Laye del 10 settembre 1919. La data del 16 luglio 1920 corrisponde a quella di entrata in vigore suddetto Trattato, stipulato tra le potenze alleate e l’Austria al termine della prima guerra mondiale.

L’art. 1 detta Legge prevede, in particolare, che alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico ed emigrate all’estero, ad esclusione dell’attuale Repubblica austriaca, prima del 16 luglio 1920, nonché ai loro discendenti “e’ riconosciuta la cittadinanza italiana qualora rendano una dichiarazione in tal senso con le modalità di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 91, art. 23 entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”: termine successivamente prorogato di cinque anni in forza della L. n. 51 del 2006, art. 28 bis.

La ricorrente sostiene che il riconoscimento della cittadinanza ottenuto dal padre in forza della nominata legge sia “retrodatabile sin dalla nascita” del detto genitore.

L’assunto non può essere condiviso.

La L. n. 379 del 2000, art. 1, comma 2, richiama la L. n. 91 del 1992, art. 23 secondo cui le dichiarazioni per l’acquisto della cittadinanza sono rese all’ufficiale dello stato civile del comune dove il dichiarante risiede o intende stabilire la propria residenza, ovvero, in caso di residenza all’estero, davanti all’autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza, per essere poi trascritte nei registri di cittadinanza. Ai fini del riconoscimento della cittadinanza è dunque necessario che il richiedente formuli la dichiarazione indicata dall’art. 1, comma 2, cit., avanti alle suddetta autorità (sempre che sussistano, naturalmente, le condizioni richieste per l’ottenimento dello status in discorso).

A norma della stessa L. n. 91 del 1992, art. 15 l’acquisto della cittadinanza ha poi effetto, salvo quanto previsto dall’art. 13, comma 3 – relativo a fattispecie di riacquisto della cittadinanza, non rilevanti ai presenti fini – “dal giorno successivo a quello in cui sono adempiute le condizioni e le formalità richieste”, e quindi dal giorno successivo a quello in cui è stata resa la dichiarazione richiesta dalla L. n. 370 del 2000, art. 1, comma 2, (cfr. pure Corte Cost. 19 giugno 2019, n. 149, in motivazione).

Resta conseguentemente escluso che l’acquisto della cittadinanza previsto dal più volte citato L. n. 379 del 2000, art. 1, comma 2, possa farsi risalire al momento della nascita dell’interessato.

Non è pertinente il richiamo, operato dalla parte istante in memoria, alla decisione resa da Cass. Sez. U. 25 febbraio 2009, n. 4466, che riguarda il riconoscimento della cittadinanza italiana alla donna che l’avesse perduta L. n. 555 del 1912, ex art. 10 per aver contratto matrimonio con cittadino straniero anteriormente al 1 gennaio 1948, indipendentemente dalla dichiarazione resa ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 19. Tale regolamentazione riguarda, infatti, una fattispecie di modifica dello status che, a differenza dell’ipotesi che si prospetta in questa sede, vede, nel suo momento inziale, il possesso della cittadinanza italiana (da parte della donna che l’abbia poi perduta in forza della richiamata norma, dichiarata incostituzionale).

2. – Il secondo mezzo oppone la violazione o falsa applicazione degli artt. 3,10,22 e 35 Cost.. Viene prospettata l’incostituzionalità della L. n. 379 del 2000, art. 1: la norma – lamenta la ricorrente – pur riconoscendo lo status di cittadini italiani a una determinata categoria di soggetti, subordinerebbe tale riconoscimento a un adempimento amministrativo da rendersi entro un determinato periodo di tempo; in tal senso, essa conferirebbe ai soggetti che ne sono destinatari un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai discendenti di coloro che sono stati residenti nei territori, facenti parte dello Stato italiano, successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava in forza del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, ovvero in forza del Trattato di Osimo del 10 novembre 1975: è osservato, in particolare, che per questi ultimi soggetti il legislatore ha previsto, con la L. n. 124 del 2006, la possibilità di ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana senza limiti temporali. Una ulteriore eccezione di incostituzionalità è formulata con riferimento alla L. n. 1322 del 1920, art. 1 con cui è stato convertito il R.D. n. 1804 del 1919, art. 1 di approvazione del Trattato di Saint Germain en Laye del 10 settembre 1919: si deduce che la norma entrerebbe in conflitto con le richiamate disposizioni costituzionali.

2. – Il motivo è inammissibile.

La violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente col motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Cass. Sez. U. 12 novembre 2020, n. 25573; Cass. 15 giugno 2018, n. 15879; Cass. 17 febbraio 2014, n. 3708).

Deve escludersi, d’altro canto, che, in base a un giudizio di non manifesta infondatezza, la questione di costituzionalità basata sulla previsione del termine quinquennale di cui alla L. n. 379 del 2000, art. 1, comma 2, sia suscettibile di rimessione alla Corte costituzionale. La ricorrente lamenta, in sostanza, una disparità di trattamento, tra la situazione presa in considerazione dalla L. n. 379 del 2000, art. 1 e quella disciplinata dalla L. n. 91 del 1992, art. 17 bis (inserito dalla L. n. 124 del 2006, art. 1). Trascura però di valorizzare la differenza esistente tra le due fattispecie: infatti, la norma da ultimo citata prende in considerazione i “soggetti che siano stati cittadini italiani, già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano”, e successivamente trasferiti, in forza dei nominati Trattati, alla Repubblica jugoslava, e i loro discendenti. La L. n. 379 del 2000 considera, invece, soggetti che non sono mai stati cittadini italiani, regolamentando la posizione dei discendenti di cittadini austriaci emigrati dall’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, quando quei territori furono annessi al Regno d’Italia. E del resto, in modo del tutto coerente, la L. n. 379 cit., art. 1 contempla il medesimo meccanismo di acquisto della cittadinanza italiana, condizionato all’attivazione dell’interessato nel termine quinquennale (poi prorogato) ai discendenti di coloro che erano originari dei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, trasferiti all’Italia in forza del Trattato di Saint Germain en Laye del 10 settembre 1919, ma successivamente ceduti alla Jugoslavia in forza del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 e del Trattato di Osimo del 10 novembre 1975. Si è in presenza, anche in questo caso, di discendenti di soggetti che non hanno mai acquistato la cittadinanza italiana, per non essere all’epoca stanziati nei territori ceduti al Regno d’Italia, e a cui non era quindi applicabile l’art. 70 del Trattato di Saint Germain en Laye (“Chiunque abbia la partinenza in un territorio che faceva parte dei territori dell’antica Monarchia austro-ungarica acquisterà di pieno diritto, ad esclusione della cittadinanza austriaca, la cittadinanza dello Stato che esercita la sovranità sul territorio predetto”). I detti discendenti, dunque, come giustamente osservato dal pubblico ministero, non hanno mai potuto acquistare la cittadinanza italiana jure sanguinis.

Quanto, poi, alla questione di costituzionalità sollevata con riferimento alla L. n. 1322 del 1920, art. 1 con cui è stato convertito in legge il R.D. n. 1804 del 1919, di approvazione del Trattato di Saint Germain en Laye, essa è declinata in modo generico, senza indicare specifiche prescrizioni normative (al di fuori di quelle teste’ citate, che rinviano, indirettamente o direttamente al Trattato) e facendo oltretutto riferimento a una situazione di contingente impedimento (a presentare la dichiarazione richiesta per il riconoscimento della cittadinanza) che non presenta più alcuna attualità. E’ ben vero, infatti, che gli artt. 72 e 78 del Trattato (nemmeno citati, per la verità, nel corpo del ricorso) regolavano l’acquisto della cittadinanza per i residenti all’estero, individuando il termine di un anno per l’esercizio di una opzione: ma dette norme sono palesemente inapplicabili alla presente fattispecie (invece disciplinata dalla L. n. 379 del 2000), e quindi irrilevanti. Nel presente giudizio non si fa infatti questione della impossibilità in cui sarebbe ipoteticamente incorso, un secolo fa, un ascendente dell’odierna ricorrente, residente all’estero, nel rendere la richiamata dichiarazione nel termine previsto dal Trattato di Saint Germain en Laye.

Hanno infine carattere di assoluta novità, in quanto estranei ai motivi del ricorso per cassazione, e non possono pertanto essere presi in considerazione, i profili, trattati in memoria, che sono legati all’annullamento, in autotutela, del provvedimento con cui l’autorità amministrativa aveva originariamente riconosciuto all’odierna istante la cittadinanza italiana. Si tratta, oltretutto, di doglianze prive di fondamento ove si consideri la conformità al diritto del provvedimento finale adottato dall’ufficiale dello stato civile.

3. – In conclusione, il ricorso è respinto.

4. – Non è luogo a pronuncia sulle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 24 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021

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