LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9585/2017 proposto da:
Immobiliare R. S.r.l. in Liquidazione Volontaria, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Cavour n. 17, presso lo studio dell’avvocato Panzarani Massimo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Pergami Federico, Pototschnig Cristina, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Fridom S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Ugo De Carolis n. 101, presso lo studio dell’avvocato Morganti Marco, rappresentata e difesa dagli avvocati Bemarduzzi Marcello, Di Giovanni Isidoro, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 462/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 06/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/03/2021 dal cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 462/2017, depositata il 6/2/2017, – in controversia concernente opposizione, promossa dalla Immobiliare R. srl, società costituita nel 1986, nell’ambito del Gruppo Montimmobiliare, in liquidazione volontaria dal 1996, successivamente confiscata, nel 1994, a seguito di misura di prevenzione (sequestro) adottata nel 1990, il cui 97% delle quote (originariamente detenuto da C.D. e dalla di lui società I Girasoli srl) erano quindi successivamente divenuti di proprietà dello Stato, avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano nel 2011, con il quale si era ingiunto, alla prima, di pagare alla Fridom srl, quale cessionaria del credito (da Dani srl, a sua volta cessionaria dalla I Girasoli srl), la somma di Euro 2.066.859,19, oltre interessi e spese, derivante da finanziamento infragruppo effettuato, in favore della R., su iniziativa dei custodi giudiziari nominati, da parte di alcune società confluite nella I Girasoli srl, con intervento ad adiuvandum dell’Agenzia del Demanio e dell’ANBSC – Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità, – ha confermato, sia pure con diversa motivazione, la decisione di primo grado, che aveva respinto l’opposizione, ritenendo il credito azionato certo ed esigibile. In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che: a) in punto di esistenza del credito azionato in senso monitorio, tutte le produzioni del primo grado da parte dell’appellata Fridom lo provavano (vale a dire: la lettera sottoscritta, in data 2/8/2011, dal liquidatore della R., in risposta a diffida di pagamento della Dani srl, società cedente di Fridom srl, implicante riconoscimento del debito, atteso che il liquidatore aveva riconosciuto che i crediti indicati erano in contabilità della società; il Bilancio della società chiuso ai 31/12/2008, approvato dai soci, ove il credito in oggetto era indicato sotto la voce “Debiti per finanziamenti”) e, quand’anche fosse ammissibile la produzione in giudizio, da parte dell’appellante principale R. (la quale lamentava di non averla potuto effettuare in primo grado), dell’atto di transazione (intervenuto nel novembre 1994, a definizione di diciotto giudizi civili promossi dalle società del Gruppo, oggetto di sequestro, nei confronti dell’ex amministratore, di fatto o di diritto, C.D., ai sensi dell’art. 2932 c.c.), la stessa risultava irrilevante, attenendo l’atto a giudizio civile concernente la responsabilità personale del C.D., ex amministratore di fatto delle società attrici, nonché una sua personale responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., mentre il credito in oggetto riguardava finanziamenti erogati alla R. srl, non dal C. (che nell’atto di transazione rinunciava al credito da versamenti concessi alla società), ma da una serie di società; b) in punto di legittimità della cessione dei credito (per sua nullità, ai sensi dell’art. 1418 c.c. per contrarietà alla normativa antimafia e per illiceità della causa) e di asserita mala fede della Fridom, (per essere le società cessionarie “riconducibili”, in realtà, al C., ex socio confiscato), sia pure correggendo la motivazione del Tribunale (incentrata sulla declaratoria di inammissibilità, da parte del Tribunale penale, di istanza presentata dalla Fridom nelle forme dell’incidente di esecuzione, volta all’accertamento della buona fede per i crediti che trovano legittimazione in corso di procedura di prevenzione), doveva darsi rilievo al fatto che i finanziamenti infragruppo, da cui derivava il credito in oggetto, erano successivi al sequestro delle quote della R. srl di proprietà del C. e della I Girasoli ed erano stati erogati, su richiesta dei tre custodi giudiziari nominati dal Tribunale, dalle società del Gruppo dotate di maggiore liquidità, alcuni, tra il 1990 ed il 1994, quando le stesse (successivamente riconosciute immuni da censure penali) erano ancora sotto sequestro e quindi sotto controllo dell’autorità giudiziaria, altri, dopo il 1994, allorché, revocato il sequestro delle quote detenute in dette società dal C. e dalla I girasoli, esse erano state dichiarate estranee all’attività criminosa; e che la cessione del credito (nel 2000, dall’originaria titolare società I Girasoli alla Dani, poi cedente il credito alla Fridom) era avvenuta in epoca nella quale il Tribunale aveva già revocato il sequestro delle quote del C. ivi detenute, con implicito riconoscimento della lecita provenienza del suo patrimonio, non essendo sufficiente ad integrare la dedotta malafede della cessionaria la circostanza che le tre società, parti della cessione (I Girasoli srl, Dani srl e Fridom srl) fossero “riconducibili alla famiglia del C.”, trattandosi di “società di capitali la cui compagine sociale è del tutto priva di rilevanza”; e) in punto di esigibilità del credito, l’art. 2467 c.c. non vale a rendere il credito, in quanto postergato perché derivante da finanziamento infragruppo, inesigibile, operando la postergazione solo in fase di liquidazione o esecutiva, in ipotesi di concorso di creditori, non in fase di accertamento. La Corte di merito respingeva poi, perché infondato, l’unico motivo di ricorso incidentale della Fridom, basato sull’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio per carenza di valida procura alle liti della R..
Avverso la suddetta pronuncia, notificata T8/2/2017, la Immobiliare R. srl in liquidazione volontaria propone ricorso per cassazione, notificato il 7-13/4/2017, affidato a cinque motivi, nei confronti di Fridom srl (che resiste con controricorso) e dell’Agenzia del Demanio (che non svolge difese). La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 183 c.p.c., comma 6, in riferimento agli artt. 153,213 e 345 c.p.c. nonché ex art. 24 Cost., per avere la Corte di merito omesso di provvedere sull’eccezione preliminare e sul primo motivo di gravame, con il quale si lamentava che il Tribunale avesse disatteso la richiesta di entrambe le parti di concessione dei termini istruttori, ex art. 183 c.p.c., non subordinata ad alcuna autorizzazione del giudice adito, e di rimessione in termini, con istanza ex art. 213 c.p.c., con conseguente violazione del diritto di difesa (impedendo così alla R. di produrre i documenti relativi all’atto di transazione del 23/11/1994 sottoscritto dal C., con il quale quest’ultimo, quale socio “di fatto, di diritto e di sostanza” delle società I Girasoli, Dani, Immobiliare R. e Fridom, rinunciava al credito derivante da tutti i finanziamenti erogati o direttamente o per il tramite delle sue società ad altre società del Gruppo Montimmobiliare), sia la mancanza assoluta di motivazione o l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo; b) con il secondo motivo, sempre in punto di ritenuta esistenza del credito ex adverso azionato, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1988 c.c. e art. 1362 c.c. e ss., in relazione all’interpretazione del contenuto della comunicazione Zafarana del 2/08/2011, del bilancio chiuso ai 31/12/2008 e dell’approvazione dello stesso senza alcuna riserva, della corrispondenza tra le parti, nonché dell’atto di transazione del 23/11/1994, sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo; e) con il terzo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1260, 2467 e 1418 c.c. e della normativa antimafia, D.Lgs. n. 159 del 2011 e ss., sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo, in ordine alla ritenuta legittimità della cessione di credito, avvenuta nel 2000, in data successiva alla confisca dei beni (e “falla buona fede della cessionaria Fridom (il cui amministratore è la moglie del C., Co.Ma.Ma.), cessionaria di Dani (i cui soci sono i figli della coppia C.- Co.); d) con il quarto motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2467 c.c., sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo rappresentato dall’esistenza di diversi debiti in capo all’Immobiliare R.; e) con il quinto motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo, in punto di non debenza del raddoppio del contributo in difetto di un rigetto integrale o di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione proposta dalla R., stante la ” riforma integrale della motivazione della decisione di primo grado. 2. La prima censura è inammissibile.
Lamenta la ricorrente che la Corte d’appello abbia del tutto omesso di motivare sulle ragioni del rigetto del primo motivo di appello, con il quale si denunciava error in procedendo, per violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, in relazione alla mancata concessione, da parte del Tribunale, dei termini per il deposito delle memorie istruttorie, e si chiedeva rimessione in termini ed istanza di acquisizione di informazioni ex art. 213 c.p.c.
Ora, questa Corte ha costantemente ribadito (Cass., 9169/2008; Cass. 23612/2014; Cass. 24402/2018; Cass. 21953/2019) che “qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il “thema decidendum” e il “thema probandum”, l’appellante che faccia valere tale nullità – una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo giudice – non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il “thema decidendum” sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5, e quali prove sarebbero state dedotte, poiché in questo caso il giudice d’appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attività istruttorie non potute svolgere in primo grado”. In sostanza, seppure, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6 (e prima della Novella 2012, ai sensi dell’art. 184 c.p.c), qualora le parti ne facciano richiesta alla prima udienza, il giudice “concede” i termini perentori previsti dalla stessa disposizione per consentire la definitiva determinazione del thema probandum e del thema decidendum e la piana lettura della norma non lasci spazio all’esercizio di un potere discrezionale da parte del giudice, tanto più in presenza di richiesta congiunta del termine (aspetto peraltro questo, nella specie, contestato dalla controricorrente, la quale deduce che la R. abbia rinunciato alla richiesta, nel corso del giudizio), disattesa senza motivazione (cfr. Cass. 22376/2018; Cass. 4497/2011), tuttavia, non è sufficiente la formulazione di tale error in procedendo, non comportante la rimessione della causa al primo giudice, ma è necessaria anche la deduzione, per quanto qui interessa, di quali prove sarebbero state dedotte, poiché, in questo caso, il giudice d’appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attività istruttorie non potute svolgere in primo grado. Invero, tale principio risponde a quello più generale, in forza del quale l’ordinamento non appresta alcuna tutela all’interesse alla mera regolarità formale del processo, cosicché l’interesse a denunciare la violazione di una norma processuale in tanto sussiste in quanto ciò abbia comportato un pregiudizio alla sfera giuridica della parte (Cass. 3712/2012; Cass. SU 15763/2011), la quale è pertanto tenuta ad allegare e dimostrare quali specifiche attività avrebbe svolto, che tanto aveva sottoposto invano al giudice del merito e quali danni sarebbero derivati dalla mancata osservanza delle norme sulla regolarità formale (Cass. 12812/2012).
Orbene, la ricorrente, senza spiegare quali altre prove essa intendeva formulare, si limita a dolersi della impossibilità di produrre in via documentale l’atto di transazione del novembre 1994 (ed imprecisati documenti ad esso relativi; peraltro, il contenuto dell’atto di transazione è riprodotto con sua trascrizione integrale nel corpo del presente ricorso per cassazione, asseritamente ai sensi dell’art. 372 c.p.c. ed ai fini di autosufficienza del ricorso), ma tale produzione è stata comunque esaminata dalla Corte d’appello, con congrua motivazione, e ritenuta, in ogni caso, inidonea a provare l’inesistenza del credito oggetto di cessione, per cui è causa, valutate le altre risultanze documentali, In prìmis l’atto ricognitivo del 2011, proveniente dal liquidatore della società, l’approvazione del bilancio chiuso al 31/12/2008, da parte dei soci, ove il credito in oggetto era indicato sotto la voce “Debiti per finanziamenti”, nonché lo stesso contenuto documentale allegato dalla ricorrente (trattandosi di atto transattivo intervenuto con il C. a definizione dei giudizi di responsabilità civile contro di lui intrapresi).
4. La seconda censura e’, del pari, inammissibile. La Corte d’appello ha ritenuto provata l’esistenza del debito della R. da una serie di documenti (lettera del 2011 del liquidatore della società, nel quale quest’ultimo, lungi dall’effettuare una mera rappresentazione contabile della situazione societaria, dichiarava che i crediti indicati risultavano dalla contabilità della società e che tuttavia la stessa non aveva allo stato alcuna disponibilità liquida, ed il bilancio ultimo, chiuso al 31/12/2008, nel quale il credito vantato dalla Dani risultava indicato sotto la voce “debiti per finanziamenti”, unitamente alla corrispondenza intercorsa tra R. e le società finanziatrici), aventi valenza ricognitiva, in difetto di prova contraria offerta dall’opponente (avendo questa, essenzialmente, invocato l’atto di transazione del 1994, ritenuto invece dalla Corte di merito non decisivo).
La ricognizione di debito non costituisce, in effetti, autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 c.c., un’astrazione meramente processuale della causa debendi, da cui deriva uria semplice relevatio ab onere probandi che dispensa il destinatario della dichiarazione dall’onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante della ricognizione stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento (Cass. 20689/2016).
L’indagine sul contenuto e sul significato della dichiarazione, al fine di stabilire se importino ricognizione di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., rientra nel potere discrezionale del giudice di merito (Cass. 2205/2007; Cass. 23822/2010; Cass. 4605/2015).
Ora, la ricorrente non spiega sotto quali profili siano stati violati il combinato disposto dell’art. 1988 c.c. e art. 1362 c.c. e ss. e tali principi di diritto; si tratta pertanto di un vizio che si rivolge unicamente all’apprezzamento di fatto operato dal giudice di merito, la cui decisione è incensurabile in sede di legittimità ove sorretta da idonea motivazione, perché immune da vizi logici e giuridici.
Non risulta inoltre che vi sia alcun fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti il cui esame sia stato omesso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
5. Il terzo motivo è inammissibile.
Viene anzitutto invocata l’operatività di normativa, D.Lgs. n. 159 del 2011, c.d. codice antimafia, non applicabile alla fattispecie ratione temporis, trattandosi di finanziamenti intervenuti negli anni ‘90 e di cessione del credito stipulata nel 2000.
In ogni caso, la buona fede della cessionaria è stata motivatamente dedotta dal fatto che il credito aveva trovato, in gran parte, legittimazione nel corso della procedura di prevenzione, vale a dire il sequestro, avendo i custodi giudiziari ed il giudice delegato autorizzato, nel luglio 1994, i finanziamenti infragruppo, nonché dal fatto che altre società del Gruppo avevano effettuato i finanziamenti dopo il dissequestro del patrimonio, prima della confisca definitiva.
Inoltre, la cessione del credito (nel 2000, dall’originaria titolare società I Girasoli alla Dani, poi cedente il credito alla Fridom) era avvenuta in epoca nella quale il Tribunale aveva già revocato il sequestro delle quote del C. ivi detenute, con implicito riconoscimento della lecita provenienza del suo patrimonio, non essendo sufficiente ad integrare la dedotta malafede della cessionaria la circostanza che le tre società, parti della cessione (I Girasoli srl, Dani srl e Fridom srl), fossero “riconducibili alla famiglia del C.”, trattandosi di “società di capitali la cui compagine sociale è del tutto priva di rilevanza”.
A fronte di tate complessiva vantazione, motivata delle risultanze di causa, la ricorrente insiste sulla ritenuta rilevanza della compagine societaria delle società cessionarie, nella quale figurano parenti e coniuge del C..
La doglianza risulta quindi inammissibile a fronte di un’articolata motivazione della sentenza impugnata: quanto dedotto dal ricorrente non configura violazioni di diritto sostanziale presenti nella decisione impugnata, cosicché il riferimento alle norme anche speciali risulta palesemente inconferente, giacché quel che viene in discussione è unicamente il modo in cui la Corte di merito, cui competeva farlo, ha valutato le risultanze documentali acquisite agli atti. Si è trattato, dunque, di una valutazione di merito, come tale di stretta competenza della Corte territoriale.
Ne’ emergono fatti decisivi oggetto di discussione, il cui esame sia stato omesso, ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.
6. Il quarto motivo è infondato.
La ricorrente deduce che il credito in oggetto era inesigibile anche ex art. 2467 c.c., disposizione in forza della quale il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione di altri crediti, a condizione che gli stessi finanziamenti siano stati concessi in un momento in cui risultava un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.
Secondo la ricorrente R., la società Fridom, in quanto cessionaria da I Girasoli, società della R., non potrebbe pretendere il rimborso dei finanziamenti effettuati, per violazione del disposto normativo suddetto.
Ora, la Corte d’appello, respingendo la doglianza della Immobiliare R., ha ritenuto che, nella fase di accertamento del credito, non rileva il disposto dell’art. 2467 c.c., secondo cui il credito da finanziamento dei soci di società a responsabilità limitata sarebbe soggetto a postergazione, in quanto l’inesigibilità del credito perché postergato opera solo in fase esecutiva, nel momento in cui sussiste un concorso tra creditori.
Tale statuizione risulta conforme al diritto nel dispositivo ma ne va corretta la motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.. Invero, come da ultimo rilevato da questa Corte (Cass. 12994/2019), “in tema di finanziamento dei soci in favore della società, la postergazione disposta dall’art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma; ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento, ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi”. Assume la controricorrente che, oltre a non essere la I Girasoli srl, successivamente alla confisca delle quote della Immobiliare R., più socia di quest’ultima, in ogni caso, la disposizione suddetta non opera perché si deve trattare, come chiarito dall’art. 2467 c.c., comma 2 di finanziamenti concessi in un contesto di difficoltà economica prodromica ad una procedura concorsuale, insussistente nella specie, disponendo la Imm.re R. di un consistente cespite immobiliare e non esistendo, a parte la Fridom e le altre società del Gruppo, altri significativi creditori della società. Ora, deve essere rilevato che gli artt. 2467 e 2497 quinques c.c., nel testo introdotto dalla riforma societaria di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, postergando, in casi determinati, il credito di rimborso dei soci, hanno introdotto una nuova disciplina “di diritto sostanziale”, che incide direttamente sugli effetti del negozio di finanziamento, non avente natura interpretativa, né processuale, ed applicabile in sede di liquidazione della società, incidendo in modo diretto sugli effetti giuridici del negozio di finanziamento; ne consegue che, in mancanza di una diversa disciplina sulla efficacia nel tempo in deroga all’art. 11 preleggi, le predette norme non si applicano ai crediti dei soci nei confronti della società sorti per effetto di finanziamenti anteriori al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della riforma (Cass. 12003/2012; Cass. 1898/2014; conf. in motivazione Cass. 2015/16049 e Cass. 25610/2018).
In motivazione, questa Corte, nella pronuncia n. 12003/2012, ha chiarito, confutando la tesi circa la natura interpretativa della nuova disposizione, che il principio di diritto già in precedenza affermato con riferimento a fattispecie verificatesi anteriormente all’entrata in vigore del decreto n. 6 del 2003 (Cass. 2012/2758, secondo cui l’erogazione di somme, che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate, può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale”, o altre simili denominazioni, il quale dunque non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale “residual claimant”; conf. 24861/2015; Cass. 7471/2017) non potrebbe essere addotto a sostegno del carattere interpretativo della nuova disciplina, ai fini della sua applicazione retroattiva, in quanto “vi è una profonda differenza tra i finanziamenti eseguiti dai soci “in conto capitale” o con altre formule simili, pur al di fuori di una formale deliberazione di modifica dell’atto costitutivo, e i finanziamenti eseguiti dai soci a favore della società in forma di prestito (mutuo)”.
Nella specie, si tratta, pacificamente, di finanziamenti infragruppo risalenti agli anni ‘90. Neppure si può fare riferimento all’epoca in cui la cessionaria Fridom ha azionato (2012) il diritto al rimborso, trattandosi pur sempre, come sopra esposto, di effetto giuridico di negozi di finanziamento sorti anteriormente all’entrata in vigore della nuova normativa.
7. Il quinto motivo è infondato.
Occorre premettere, come già ritenuto da questa Corte a Sezioni Unite (Cass.SU 4315/2020; conf. Cass. 4731/2021), che la debenza dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato (c.d. doppio contributo) pari a quello dovuto per l’impugnazione è normativamente condizionata a due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui sussistenza è oggetto dell’attestazione resa dal giudice dell’impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater; il secondo, di diritto sostanziale tributario, consistente nell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta invece all’amministrazione giudiziaria, soggetto al sindacato del giudice tributario.
Ora, la rimodulazione motivazionale operata dalla Corte d’appello non ha comportato l’accoglimento, sia pure parziale, di uno dei motivi di appello, cosicché la reiezione del gravame è stata integrale, con conseguente ricorrenza del presupposto processuale per la debenza del c.d. doppio contributo da parte dell’appellante.
8. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 8.700,00, a titolo di compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021
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