LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRO Massimo – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Giudo – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16716-2020 proposto da:
E.E., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato Valeria D’Addezio;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato per legge in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– intimato –
avverso il decreto N. CRONOL. 947/2020 del TRIBUNALE DI POTENZA, SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CITTADINI DELL’UNIONE EUROPEA depositato il 29/03/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/07/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA SCALIA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. E.E., cittadino del Ghana, ricorre con quattro motivi per la cassazione del decreto in epigrafe indicato con cui il Tribunale di Potenza, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’unione Europea, pronunciando D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, ne ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento della competente commissione territoriale che aveva, a sua volta, disatteso la richiesta di protezione internazionale e di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso per ragioni umanitarie, nella ritenuta inattendibilità del racconto e nella apprezzata insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione.
Il richiedente aveva dichiarato di avere abbandonato il Paese di origine per le aggressioni subite in ragione dei propri orientamenti omosessuali e di temere, ove vi avesse fatto rientro, di essere ucciso dalla comunità mussulmana, cui egli apparteneva, che lo riteneva, per la sua condizione, in “peccato”.
Il Ministero si è costituito tardivamente al dichiarato fine di partecipare alla eventuale discussione in pubblica udienza ex art. 370 c.p.c., comma 1.
2. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 106 Cost., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, perché il tribunale si era avvalso nel procedimento di un “gop”, che aveva svolto attività istruttoria, emesso ordinanze e redatto la minuta del decreto impugnato, con conseguente violazione delle norme che disciplinano in materia il funzionamento del tribunale in composizione collegiale (L. n. 46 del 2017).
2.1. Il motivo è inammissibile perché non si confronta con i contenuti dell’impugnato provvedimento in calce al quale è riportata la seguente dizione: “Motivazione redatta con la collaborazione del G.O.P. Dott. D.F.V.”.
L’indicata locuzione lascia del tutto fuori fuoco la critica mossa con il proposto motivo poiché il riferimento contenuto nell’impugnato decreto è alla “redazione” della motivazione da parte di un giudice onorario nell’ambito del suo tirocinio formativo, in collaborazione con il decidente.
Nel caso in cui risulti, in calce alla sentenza, che la stessa è stata redatta con la collaborazione di un magistrato onorario in tirocinio, non può considerarsi la sentenza stessa affetta da nullità né tanto meno da inesistenza, rilevabile anche d’ufficio in sede di impugnazione; invero, con tale annotazione non si vuole intendere che il procedimento sia stato deciso dal magistrato onorario, la cui persona non figura nella composizione del collegio decidente, ma solo che, nell’espletamento del tirocinio, quel magistrato abbia collaborato col giudice relatore all’esame della controversia e alla stesura della minuta della motivazione, di cui poi, secondo il rito applicabile, con la sottoscrizione, ha assunto la paternità nella svolta funzione, il presidente del collegio (in termini per fattispecie in cui la collaborazione alla stesura di un magistrato ordinario in tirocinio o di un giudice ausiliario di corte d’appello: Cass. 21/02/2017, n. 4426; Cass. 13/12/2018, n. 32307).
2.2. Gli ulteriori profili di censura sono, in ogni caso, inammissibili non avendo il ricorrente allegato in modo puntuale fasi e provvedimenti alla cui formazione abbia concorso il giudice onorario e, comunque, infondati non determinando nullità lo svolgimento da parte del giudice onorario di tribunale di attività istruttoria delegata dal giudice designato (Cass. SSUU 26/02/2021, n. 5425).
3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione della Convenzione di Ginevra del 1951, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, del 1948, art. 1 e art. 25, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5, 7, 14, 16 e 17, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32 comma 3, anche in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 15, comma 6, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, degli artt. 10,32, e 2 Cost., e dell’art. 112 c.p.c..
Al richiedente era stato negato lo status di rifugiato con violazione dell’obbligo di collaborazione istruttoria che, ove rettamente inteso, avrebbe dovuto determinare il tribunale ad approfondire gli aspetti ritenuti contraddittori delle dichiarazioni rese davanti la commissione territoriale. Il tribunale era incorso in motivazione apparente perché affetta da contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. Non poteva condividersi l’impostazione del tribunale che subordinava la credibilità del richiedente sulla propria natura omosessuale ad una valutazione psicologica e/o medica; la valutazione sulla credibilità del racconto non era stata il risultato della procedimentalizzazione fissata nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.
3.1. Il motivo è inammissibile perché non autosufficiente, difettando di indicare quali contenuti decisivi della prova sarebbero mancati nella valutazione del tribunale, tenuto all’osservanza del dovere di cooperazione istruttoria ed ancora perché sovrappone critiche tra loro non compatibili (così per la dedotta violazione dell’art. 360 c.p.c., per i vizi tipizzati, ai nn. 3, 4 e 5), quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione, rimettendo siffatta tecnica al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili per poi ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c. (vd.: Cass. n. 26874 del 23/10/2018; Cass. n. 19443 del 23/09/2011).
3.2. Non vi è poi assoluta mancanza di motivazione per illogicità o non conciliabilità delle affermazioni nel provvedimento denunciato per i dedotti contenuti; l’accertamento resta non sindacabile nelle raggiunte conclusioni circa la non credibilità del racconto sulla condizione di omosessuale del dichiarante (Cass. 02/07/2020, n. 13578; Cass. 19/06/2020, n. 11925) perché fondato su argomenti neppure raggiunti nella proposta impugnazione (così, per le diverse versioni, in fatto, fornite dal dichiarante ora davanti alla commissione amministrativa ora dinanzi al tribunale).
3.3. La censura sulla mancata audizione del ricorrente è ancora del tutto generica non segnalando per quali contenuti “a chiarimento” il primo sarebbe dovuto essere sentito dal giudice e la pronta indicazione in tal senso svolta nella fase di merito.
4. Con il terzo ed il quarto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, quanto al diniego della protezione sussidiaria e di quella umanitaria, l’esistenza di una motivazione apparente per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e la violazione, della Convenzione di Ginevra del 1951, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, del 1948, art. 1 e art. 25, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3,5,7,14,16 e 17, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, anche in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 15, comma 6, al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e 19, comma 1, agli artt. 10,32, e 2 Cost..
4.1. L’errata valutazione sulla credibilità del racconto aveva determinato il tribunale a non condurre alcun esame sulla domanda effettuata di protezione sussidiaria svolta D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).
Il motivo è inammissibile perché in contrasto con la costante giurisprudenza di questa Corte per la quale nella inattendibilità del racconto nessuna attività istruttoria è tenuto a svolgere il giudice del merito al fine del riconoscimento della protezione sussidiaria per le forme di cui al D.Lgs., art. 14, lett. a) e b), (vd.: Cass. n. 10286 del 29/05/2020, prima parte della massima ufficiale; Cass. n. 16122 del 28/07/2020, su vicende personali, credibilità del racconto ed onere di collaborazione istruttoria).
4.2. La motivazione adottata era apparente e segnata dal mancato esercizio del potere istruttorio del giudice; tanto era destinato a valere quanto agli aspetti della cattura in Libia e delle torture subite.
Era mancato il giudizio comparativo, ai fini della vulnerabilità del richiedente, tra le condizioni del Paese di origine, per la mancanza delle evidenze minime per condurvi una esistenza in cui non risultino compromesse le ineludibili esigenze della vita personale ed il livello di integrazione socio-lavorativo in Italia.
Il motivo è inammissibile perché non si confronta con i contenuti del provvedimento impugnato là dove il tribunale esclude l’esistenza dei presupposti legittimanti la protezione umanitaria nell’apprezzata mancata prova dei fatti narrati sulle ragioni di abbandono del paese di origine e nella comparata mancata integrazione in Italia del richiedente (Cass. 4455/2018) e quindi proprio in applicazione del canone di giudizio che viene in modo inefficace contestato in ricorso.
Il tutto nel rilievo che restando la valutazione della condizione di vulnerabilità, che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria, ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia da compararsi con la situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, l’inattendibilità del racconto su queste ultime vicende elide un necessario termine di raffronto nella formulazione del giudizio e quindi, in difetto di ulteriori allegazioni, relative alla condizione dal primo sofferta, la sua stessa vulnerabilità.
5. In via conclusiva il ricorso è infondato. Nulla sulle spese non avendo il Ministero intimato articolato difese.
6. La natura delle censure proposte dal ricorrente, che giustifica il rigetto del ricorso, conformemente alla proposta formulata dal Relatore ed in applicazione del criterio della “ragione più liquida”, esclude la necessità di soffermarsi, in questa sede, sulla questione relativa all’invalidità della procura ad litem per mancanza di certificazione della data di rilascio, risolta in senso affermativo da una recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un. 1/06/2021, n. 15177) e su quella, successiva, di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, introdotto dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46 (cfr. Cass., Sez. III, 23/06/2021, n. 17970).
Si dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2021