LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –
Dott. ROSSI Raffaele – rel. Consigliere –
Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19684/2016 R.G. proposto da:
M.E., elettivamente domiciliata in Roma, piazza Adriana n. 11, presso lo studio dell’Avv. Luigi Piccarozzi, dal quale è
rappresentato e difeso, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 186/9/16 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 18 gennaio 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11 febbraio 2021 dal Consigliere Raffaele Rossi.
RILEVATO
che:
1. M.E., dirigente ENEL in quiescenza, proponeva ricorso avverso il silenzio-rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate direzione provinciale di Roma alla domanda di rimborso degli importi ritenuti per IRPEF sulle somme erogate a titolo di reddito di capitale da rendimento della P.I.A. (pensione integrativa aziendale), asserendo l’applicabilità dell’imposta nella misura del 12,50% da calcolarsi sulla base imponibile derivante dalla differenza tra l’ammontare del capitale corrisposto come rendimenti dei contributi versati (tanto dal datore di lavoro quanto dal lavoratore) e quello dei contributi da quest’ultimo versati, ridotta del 2% per ogni anno successivo al decimo dalla conclusione del contratto.
2. La domanda del contribuente, accolta in prime cure, è stata disattesa, a seguito di gravame interposto dall’Ufficio, dalla Commissione tributaria regionale del Lazio con la sentenza n. 186/9/2016 pubblicata il 18 gennaio 2016.
3. Ricorre per cassazione M.E., articolando tre motivi;
resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.
CONSIDERATO
che:
4. Con il primo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione di plurime norme di legge in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, si denuncia l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Commissione tributaria regionale nel ritenere (rigettando l’eccezione ad hoc proposta) l’ammissibilità dell’appello, benché l’atto di impugnazione fosse sottoscritto da soggetto privo dei relativi poteri, segnatamente dal “capo team legale” S.V., non avente qualifica dirigenziale, “su delega del direttore provinciale” non allegata all’atto né depositata in giudizio.
5. La censura è infondata.
Basti, al riguardo, richiamare il consolidato indirizzo ermeneutico di questa Corte secondo cui nei gradi di merito del processo tributario gli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate, in virtù di quanto previsto dalle norme del regolamento di amministrazione n. 4 del 2000, adottato ai sensi del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 66 sono legittimati direttamente alla partecipazione al giudizio (ed al compimento dei relativi atti, anche di impugnazione) e possono essere rappresentati sia dal direttore, sia da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore presumendosi la sua idoneità a rappresentare la volontà dell’ente, senza necessità di una speciale procura, salvo che sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio ovvero l’usurpazione del potere (così, ex plurimis, Cass. 31/01/2019, n. 2901; Cass. 25/01/2019, n. 2138; Cass. 30/10/2018, n. 27570; Cass. 04/04/2018, n. 8238; Cass. 03/10/2017, n. 23098; Cass. 26/07/2016, n. 15470).
Nella specie, non avendo il contribuente sollevato contestazioni del genere, validamente apposta si profila la sottoscrizione dell’atto di appello spiegato dall’ufficio finanziario ad opera del preposto al servizio legale, reparto competente.
6. Con il secondo mezzo, sempre articolato come violazione e falsa applicazione di norme di legge, parte ricorrente assume che il giudice del merito, male interpretando il principio di diritto sancito dal Cass., Sez. U., 22/06/2011, n. 16342, abbia erroneamente ritenuto la più favorevole tassazione (dell’aliquota del 12,5%) applicabile soltanto ai rendimenti netti conseguiti mediante utilizzo dei contributi versati sul mercato finanziario e non già a quelli derivanti da impieghi interni al bilancio, così gravando il contribuente di una prova impossibile (o estremamente difficile) da fornire e, per di più, senza nemmeno avvalersi dei poteri istruttori officiosi, quale l’ammissione di una consulenza tecnica di ufficio.
7. Con il terzo motivo, per “violazione degli artt. 115 e 116 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, si deduce il vizio motivazionale della sentenza gravata, consistente nel non aver adeguatamente valutato la prova documentale, certificante la misura dei rendimenti conseguiti, prodotta in lite dal contribuente.
8. Ambedue le doglianze – congiuntamente esaminabili, siccome avvinte da stretta connessione – sono destituite di fondamento.
8.1. La disamina delle stesse postula una sintetica illustrazione del quadro giurisprudenziale di riferimento in tema di regime fiscale delle prestazioni erogate dai fondi di previdenza integrativa aziendale all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Centrale, nell’elaborazione del giudice di nomofilachia, sono ancor oggi le sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite (oltre alla già citata Cass., Sez. U., n. 13642 del 2011, le contestuali ed identiche sentenze distinte dai numeri da 13643 a 13653), le quali, statuendo proprio in ordine al fondo P.I.A. costituito dall’ENEL, enunciarono, a risoluzione di contrasto insorto tra le sezioni semplici della Corte, il seguente principio di diritto: “In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un Fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino a 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 (T.U.I.R.), solo per quanto riguarda la “sorte capitale” corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del “rendimento netto” si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui all’art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 del T.U.I.R.”.
8.2. La successiva elaborazione pretoria si è concentrata (anche per dissipare divergenti letture euristiche) sulla definizione del concetto di “rendimento netto”, individuato negli importi rivenienti dall’effettivo investimento sul mercato, da parte del fondo, del capitale accantonato (ex aliis, Cass. 29/12/2011, n. 29583; Cass. 12/01/2012, n. 280; Cass. 04/04/2012, n. 5376; Cass. 25/05/2012, n. 8320; Cass. 27/03/2013, nn. 7724-7728; Cass. 22/05/2013, nn. 12491-12496; Cass. 02/10/2013, n. 22492; Cass. 09/10/2013, n. 22950; Cass. 12/02/2014, n. 3132; Cass. 12/02/2014, n. 3136; Cass. 19/03/2014, n. 6380; Cass. 09/04/2014, n. 8310; Cass. 04/02/2015, n. 1977; Cass. 22/05/2015, n. 10604; Cass. 13/01/2017, n. 720).
Con la precisazione che l’assoggettamento di detto “rendimento” al più favorevole trattamento impositivo previsto dalla L. n. 482 del 1985, art. 6 non discende da una diretta riconduzione a detta norma della fattispecie, ma è giustificato dalla equiparazione tra i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e (quelli corrisposti in dipendenza di contratti) di capitalizzazione sancita dall’art. 41 (ora 44), comma 1, lett. g-quater), e art. 42 (ora 45), comma 4, del T.U.I.R. (Cass. 26/04/2017, n. 10285; Cass. 18/10/2017, n. 24525; Cass. 02/03/2018, n. 4941; Cass. 07/03/2018, n. 5436).
Più specificamente, si è ritenuto che integrino il c.d. rendimento netto “le somme derivanti dall’effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato, non anche quelle calcolate attraverso l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate” (così, oltre alle citate Cass. n. 10285 del 2017 e Cass. n. 24525 del 2017, cfr. Cass. 02/4/2018 n. 4943; Cass. 19/6/2018 n. 16116; Cass. 24/7/2018 n. 19621; Cass. 30/10/2018 n. 27585).
Di recente, poi, si è altresì puntualizzato che, da un lato, il “rendimento” è configurabile pure in relazione ai capitali maturati ed agli investimenti effettuati anteriormente alla trasformazione (avvenuta nell’anno 1998) del fondo da P.I.A. a Fondenel e che, dall’altro, il requisito del “rendimento” non va circoscritto ai soli (eventuali) investimenti nel mercato finanziario (valori mobiliari, strumenti finanziari), potendo assumere rilievo a tale scopo anche altri tipi di mercato, quale quello immobiliare (Cass. 18/04/2019, n. 10907; Cass. 03/05/2019, n. 11637; Cass. 07/11/2019, n. 28688).
Resta in ogni caso esclusa l’operatività della minore tassazione rispetto alle somme versate dal contribuente a fondi previdenziali che non abbiano mai investito sul mercato; del pari, non può qualificarsi come “rendimento” quello corrispondente alla redditività sul mercato dell’intero patrimonio Enel (rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito), poiché tale coerenza rappresenta il risultato di un predeterminato calcolo di matematica attuariale e non già il frutto dell’investimento di accantonamenti sul libero mercato (Cass. 19/06/2018, n. 16116; Cass. 15/06/2018, n. 15853; Cass. 19/06/2018, nn. 16116-16117-16118; Cass. 30/10/2018, n. 27610; Cass. 12/11/2019, n. 29205).
8.3. Dal punto di vista processuale, il contribuente che impugna il rigetto dell’istanza di rimborso è attore in senso sostanziale, come tale onerato di provare il fondamento della pretesa azionata, cioè a dire tenuto a dimostrare: se il fondo abbia impiegato sul mercato il capitale accantonato; quale (e quanto) sia stato il rendimento di gestione conseguito da tale impiego; in qual modo sia stata determinata l’assegnazione delle eventuali plusvalenze alle singole quote individuali del fondo attribuite al dipendente, onde individuare la parte dell’indennità ricevuta da ascrivere a rendimenti da investimenti sul mercato (oltre alle pronunce citate sopra, vedi Cass. 02/04/2020, n. 7660; Cass. 28/02/2020, n. 5494; Cass. 18/11/2020, n. 26198; Cass. 23/11/2020, n. 26543).
E, come ha espressamente precisato questa Corte, siffatto onere probatorio non può ritenersi sufficientemente assolto tramite il mero rinvio “al conteggio proveniente dall’ENEL, prodotto dal contribuente, che non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per la quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato” (Cass. 15/03/2017, n. 13278; Cass. 16/03/2017, n. 13281; Cass. 26/03/2019, n. 8429; Cass. 20/10/2020, n. 22847).
9. A tali principi si è attenuto il giudice di prossimità.
Al fine di argomentare il rigetto della domanda di rimborso, la sentenza gravata, esplicitatì sinteticamente (ma esaustivamente) gli astratti criteri di giudizio seguiti, ha, per un verso, negato l’idoneità della documentazione offerta dal contribuente a provare l’impiego dei capitali accantonati sul mercato (il che – giova ripeterlo – costituisce un indefettibile prius logico rispetto alla verifica del rendimento di gestione) e, per altro verso, corroborato tale conclusione con l’apprezzamento della natura del fondo P.I.A. (desunta dai documenti allegati dall’Ufficio) quale fondo interno a prestazioni definite, finanziato con accantonamenti a bilancio e gestito mediante l’adozione di riserve matematiche.
Siffatta valutazione, oltreché conforme a diritto, è esposta con argomentazione chiara, diffusa e puntualmente riferita ai mezzi istruttori fondanti il convincimento, non inficiata quindi da alcun vizio motivazionale rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e non più suscettibile di essere rimessa in discussione attraverso un nuovo esame delle risultanze istruttorie, in buona sostanza sollecitato dal terzo motivo di ricorso ma, come noto, del tutto estraneo alla funzione ed all’oggetto del sindacato di legittimità.
10. Rigettato il ricorso, le spese di lite seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente M.E. al pagamento in favore della controricorrente Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Quinta Sezione Civile, il 11 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2021