LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Presidente –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. MARCHEIS BESSO Chiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14990-2019 proposto da:
P.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 4, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO MANFREDONIA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
SELEZIONI IMMOBILIARI SRL, rappresentata e difesa dall’avvocato CHIARANTANO BRUNO;
– controricorrente –
F.L., F.A., F.M., F.P.;
– intimati –
avverso l’ordinanza n. 32577/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE depositata il 17/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 29/04/2021 dal Presidente Relatore Dott. TEDESCO GIUSEPPE.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Velletri accolse la domanda proposta dalla Selezioni Immobiliari S.r.l. nei confronti di P.L. e altri, che fu condannata, insieme agli altri convenuti, al rilascio di un fondo rustico sito in Comune di Marino (RM), del quale l’attrice si era affermata proprietaria in forza di atto intercorso con il Comune di Pastena del 23 dicembre 2002.
La Corte d’appello di Roma, adita dalla Pomente, nel contraddittorio con Selezioni Immobiliari, contumaci gli altri convenuti, confermò la sentenza d’appello.
La Corte d’appello riconobbe che, nella specie, la convenuta, senza contestare il titolo di proprietà dedotto dall’attrice a sostegno della domanda, aveva solamente proposto un’eccezione riconvenzionale di usucapione, che a sua volta importava l’attenuazione dell’onere della prova imposto all’attore in rivendicazione. La corte distrettuale aggiunse che la convenuta non aveva fornito la prova del possesso “in capo alla medesima o ai danti causa degli altri occupanti, i quali, in base alla documentazione prodotta relativa ai contratti di affitto, devono ritenersi meri detentori del terreno da parte dei precedenti danti causa dell’attrice, non essendo stata provata, da parte dei medesimi, alcuna interversione della detenzione in possesso ai fini della invocata prescrizione acquisitiva”.
Per la cassazione della sentenza P.L. propose ricorso, affidato a sette motivi.
La Corte di cassazione rigettò il ricorso.
Per quanto interessa in questa sede il Collegio osservò che “da qualificazione giuridica dell’eccezione come eccezione riconvenzionale di usucapione, implicando la mancata contestazione dell’originaria appartenenza del bene al comune autore ovvero ad uno dei danti causa dell’attrice, comporta l’attenuazione del rigore del principio secondo il quale l’attore in rivendica deve provare la sussistenza dell’asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, essendo sufficiente per il rivendicante assolvere l’onere probatorio su di lui incombente, limitandosi a dimostrare di avere acquistato tale bene in base ad un valido titolo di acquisto (Cassazione civile, sez. II, 05/11/2010, n. 22598; Cass. 22 luglio 2005 n. 15388); (…) la corte territoriale ha fatto corretta applicazione del regime probatorio previsto dall’art. 948 c.c. e dell’art. 2967 c.c., avendo ritenuto che, in presenza di un’eccezione riconvenzionale di usucapione, l’onere probatorio era attenuato ed il titolo d’acquisto dell’attrice e dei suoi danti causa era idoneo a provare la proprietà del fondo”.
La Corte esaminò congiuntamente il secondo e il terzo motivo di ricorso, con i quali si sottolineava, da un lato, che la Pomente aveva fatto valere un possesso anteriore rispetto al più risalente dei titoli invocati dall’attrice, dall’altro, che, congiungendo il proprio possesso, a quello dei propri danti causa, diversi da quelli di Selezioni Immobiliari, aveva goduto del bene in maniera piena, continua ed ininterrotta dal 1952. Essa dichiarò inammissibili tali motivi “in quanto non colgono la ratio decidendi, fondata sull’accertamento che Liberata Pomente ed i suoi danti causa erano meri detentori del terreno, sulla base di contratti d’affitto con il Comune, e che non vi era prova di un atto di interversione del possesso”.
2. Contro l’ordinanza della Suprema Corte la Pomente ha proposto ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., con il quale denuncia che la Corte di cassazione, nel definire il ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Roma, era incorsa in un duplice errore revocatorio.
In primo luogo, la Corte di cassazione, nel riconoscere che nella specie erano applicabili i principi di giurisprudenza sull’attenuazione dell’onere della probatio diabolica nell’azione di rivendicazione, ha richiamato i propri precedenti, in base ai quali, però, si riconosce l’attenuazione non in conseguenza della mera proposizione dell’eccezione, ma solo quando vi sia il riconoscimento, o comunque la mancata contestazione, del titolo dell’attore o di uno dei suoi danti causa. La Corte di cassazione, pertanto, aveva supposto che l’eccezione, così come proposta dalla Pomente, importasse un simile riconoscimento in favore dell’attrice. Diversamente la Pomente aveva fatto valere un possesso remoto rispetto al più risalente dei titoli di acquisto invocati dall’attrice, non essendoci quindi i presupposti dell’attenuazione.
In secondo luogo, la Corte di cassazione, nella ricostruzione della ratio decidendi della sentenza impugnata, ha supposto che la Corte d’appello di Roma avesse riconosciuto che la Pomente era affittuaria del terreno. La ricorrente sostiene che tale lettura non rispecchia il reale contenuto della decisione, da cui risulta che i contratti di affitto riguardavano i danti causa degli altri occupanti, non la Pomente.
Selezione Immobiliari ha resistito con controricorso.
Gli altri soggetti destinatari della notificazione del ricorso sono rimasti intimati.
La causa è stata fissata dinanzi alla Sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore di inammissibilità del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria.
3. Il primo motivo è inammissibile. La revocazione di una sentenza della Corte di cassazione può essere domandata solo ove sia dedotto che la decisione sia frutto di un errore di fatto che dia luogo ad un indiscutibile contrasto tra quanto in essa rappresentato e le oggettive risultanze degli atti processuali (Cass. n. 14002/2017).
L’errore, in altre parole, deve risultare dalla sentenza impugnata “con immediatezza ed obiettività senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive” (Cass. n. 16439/2021; n. 3190/2006).
Tali requisiti non ricorrono nel caso in esame. Infatti, che la decisione sia frutto di una svista nella lettura del ricorso è deduzione logica che la ricorrente ricava dal confronto fra la fattispecie sottoposta all’esame della Corte e i principi di giurisprudenza sull’attenuazione dell’onere probatorio nell’azione di rivendicazione. Ora, quando il rilievo dell’errore riflette una ricostruzione logico giuridica quale è quella proposta dalla ricorrente, siamo fuori dalla nozione di errore revocatorio, che deve inerire a una mera attività ricognitiva, del tutto priva di ogni connotazione di tipo valutativo (Cass. n. 2478/2006). A maggior ragione l’errore revocatorio non potrebbe inerire alla ricognizione del reale significato dei principi di giurisprudenza sull’attenuazione dell’onere probatorio nell’azione di rivendicazione in conseguenza dell’eccezione di usucapione del convenuto. “In tema di revocazione delle sentenze della Cassazione, è inammissibile il ricorso al rimedio previsto dall’art. 391-bis c.p.c. nell’ipotesi in cui il dedotto errore riguardi norme giuridiche, atteso che la falsa percezione di queste, anche se indotta da errata percezione di interpretazioni fornite da precedenti indirizzi giurisprudenziali, integra gli estremi dell’error iuris, sia nel caso di obliterazione delle norme medesime (riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione), sia nel caso di distorsione della loro effettiva portata (riconducibile all’ipotesi della violazione)” (Cass. n. 4584/2020; n. 29922/2011).
4. E’ inammissibile anche il secondo motivo di ricorso. Infatti, la ricorrente non denuncia un errore revocatorio, ma l’errore nella individuazione della ratio decidendi della sentenza d’appello da parte della Corte di cassazione. E’ stato chiarito che “non è idonea ad integrare errore revocatorio, rilevante ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4), la valutazione, ancorché errata, del contenuto degli atti di parte e della motivazione della sentenza impugnata, trattandosi di vizio costituente errore di giudizio e non di fatto” (Cass. n. 10184/2018).
Si deve aggiungere, solo per completezza di esame, che la lettura della sentenza della Corte d’appello di Roma, operata dalla Corte di cassazione, sembra non differire da quella data dalla medesima ricorrente nell’originario ricorso per cassazione. In esso si identifica, fra l’altro, quale ragione del rigetto dell’appello, il rilievo, attribuito dalla ricorrente alla Corte capitolina, che la convenuta (la P.) “non avrebbe fornito la prova (…) del dedotto proprio possesso del fondo rivendicato, in quanto, in base alla documentazione prodotta, relativa ai contratti di affitto, essa dovrebbe ritenersi mera detentrice del terreno trasferitole dai precedenti danti causa dell’attrice, non essendo stata provata, da parte sua e degli altri occupanti, alcuna interversione in loro favore della detenzione in possesso (…1” (pag. 8 e 9, lett. d del ricorso).
5. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con addebito di spese.
Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 29 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2021