LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29527-2016 proposto da:
ROSA DEI VENTI s.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore C.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato PIERCARLO CARNELLI, ed elettivamente domiciliato (nello studio Grez & Ass) in ROMA, C.so VITTORIO EMANUELE 18;
– ricorrente –
contro
M.S., rappresentato e difeso dagli Avvocati NICOLA SCAROLA, e ROMINA SAVALLI, ed elettivamente domiciliati presso lo studio dei medesimi, in COMO, VIA MENTANA 4;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 856/2016 della CORTE di APPELLO di TORINO, pubblicata il 23/05/2016;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 25/03/2021, dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione, notificato in data 10.3.2009, M.S. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Aosta la ROSA DEI VENTI s.r.l., proprietaria dell’edificio confinante, in Comune *****, esponendo che quest’ultima aveva eseguito sul proprio immobile una serie di importanti interventi edilizi di ristrutturazione e risanamento, in violazione dei diritti dell’attore in tema di distanze, in pregiudizio della stabilità e in modifica dell’accesso al fondo, chiedendo la condanna della convenuta al ripristino e al risarcimento dei danni ovvero, in subordine, al solo risarcimento degli stessi.
Si costituiva in giudizio la società convenuta, contestando il fondamento in fatto e in diritto delle pretese dell’attore e chiedendone il rigetto.
Istruita la causa mediante l’audizione di testi e lo svolgimento di C.T.U., con sentenza n. 40/2014, depositata in data 31.10.2014, il Tribunale di Aosta (Ndr: testo originale non comprensibile) la società convenuta dalle domande proposte nei suoi confronti e compensava tra le parti le spese di causa. In particolare, il Tribunale richiamava la CTU, secondo la quale l’intervento di recupero non aveva comportato alcuna modifica sostanziale alla sagoma planimetrica del fabbricato oggetto di ristrutturazione; e quanto alla sopraelevazione della falda ovest del tetto, evidenziava come non fosse possibile ritenere raggiuta la prova della sopraelevazione, anche alla luce della mancata deduzione di istanze di prova orale sul punto; quanto alla sopraelevazione della falda est del tetto, specificava che l’attore aveva omesso di contestare specificamente l’affermazione di cui alla comparsa costitutiva secondo cui la falda medesima sarebbe stata riedificata come lo era prima dei lavori e secondo le quote rilevate da parte del tecnico comunale; quanto alla apertura di nuove finestre, il Giudice affermava che si trattasse di luci irregolari e non di vedute, per cui la domanda così come formulata (in termini di rimozione e non di regolarizzazione) non poteva essere accolta; quanto alla demolizione del muro di confine, dalla CTU si evinceva che esso fosse stato addirittura oggetto di consolidamento; che il CTU aveva accertato che il terreno su cui era stato posato un serbatoio GPL fosse di proprietà della convenuta e che, rispetto al limite esterno del confine di proprietà, vi fossero almeno 155 cm, con il rispetto del limite richiesto dalla normativa vigente; quanto alla pretesa trasformazione del passaggio in gradinata, essa era da escludere in base all’istruttoria orale; né risultava provato l’asserito danno conseguente alla demolizione, senza le dovute cautele, di una cantina, posto che (come osservato dal CTU) il fabbricato si presentava in stato di abbandono con varie parti ammalorate causa l’incuria e la mancata manutenzione e, inoltre, un fabbricato confinante era crollato non molti anni prima, causando assestamenti imprevisti nei muri perimetrali; quanto infine agli interventi relativi alla fognatura, il CTU non era stato in grado di definire se essa fosse già esistente al momento dell’intervento di recupero.
Avverso detta sentenza proponeva appello M.S. avverso alcuni capi della sentenza. Resisteva all’appello la Rosa dei Venti s.r.l. proponendo appello incidentale sulla compensazione delle spese processuali.
Con sentenza n. 856/2016, depositata in data 23.5.2016, la Corte d’Appello di Torino accoglieva parzialmente l’appello;
condannava la società appellata all’arretramento della propria costruzione fino alla distanza di 3 m dal fabbricato di proprietà M., limitatamente alla violazione di tali limiti da parte della costruzione realizzata dalla società appellata, lungo le falde nord e ovest del tetto, nonché alla rimozione dei gradini della scala realizzati sulla proprietà di parte appellante (e, segnatamente, sui mappali ***** del Comune di *****) e alla regolarizzazione delle luci irregolari aperte sul lato nord del caseggiato di proprietà dell’appellata mediante innalzamento delle stesse all’altezza di 2 m dal pavimento e apposizione su ciascuna di una grata fissa costituita da maglie aventi le dimensioni massime non superiori a tre centimetri quadrati; condannava la Rosa dei Venti s.r.l. al risarcimento del danno in favore dell’appellante liquidato in via equitativa in Euro 1.000,00, oltre interessi dalla sentenza al saldo; rigettava l’appello incidentale.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la Rosa dei Venti s.r.l. in liquidazione, sulla scorta di tre motivi. Resiste M.S. con controricorso. Ciascuna delle due parti ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta “Con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3: (la) violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.”, ponendo in rilievo il fatto che il controricorrente, nel giudizio di primo grado, non avesse mai chiesto la regolarizzazione delle finestre, bensì la loro riduzione in pristino; e che anche in secondo grado l’appellante non avesse legittimamente modificato la sua domanda, seppure in narrativa avesse prospettato che la qualificazione delle aperture quali luci irregolari, operata dal Tribunale, avrebbe dovuto implicare la necessità di riqualificare la domanda proposta quale istanza di regolarizzazione.
1.1. – Il motivo è fondato.
1.2. – Costituisce principio consolidato quello secondo cui, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formulazione letterale adottata dalla parte (Cass. n. 26159 del 2014; Cass. n. 21087 del 2015), dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonché del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte (Cass. n. 5442 del 2006; n. 27428 del 2005).
Pertanto, se il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto e comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, detto principio non osta a che il Giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. sez. un. 9147 del 2009).
1.3. – La Corte distrettuale, rispondendo al secondo motivo d’appello, poneva in rilievo il fatto che M.S. si dolesse della sentenza (di primo grado) nella parte in cui la stessa aveva qualificato, “in termini di luci e non di vedute, le finestre realizzate dalla Rosa dei Venti, trattandosi di aperture che, pur munite di inferriate, sono suscettibili di inspicere nel fondo dell’appellante e ciò in violazione delle distanze legali”. Sicché, il giudice di prime cure, “nel rigettare la domanda sul presupposto di luci irregolari, sarebbe incorso in errore, giacché il medesimo, ad avviso dell’appellante avrebbe dovuto riqualificare autonomamente la domanda in termini di regolarizzazione delle luci irregolari” (v. sentenza pagg. 7-8).
La Corte del merito, dunque, nel ritenere il motivo fondato, ha rilevato, da un lato, come la Corte di legittimità, ai fini della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (in applicazione dell’art. 112 c.p.c.) abbia posto l’accento sul “divieto di attribuire alla parte un bene non richiesto, o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, e deve ritenersi violato ogni qualvolta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi identificativi dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda” (Cass. n. 27727 del 2005). E, dall’altro lato, come abbia fatto riferimento alla giurisprudenza di legittimità per la quale “in tema di luci e vedute, viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice di merito che, adito allo scopo di sentir dichiarare l’illegittimità di alcune vedute aperte in una costruzione eretta in sopraelevazione, ne abbia imposto la regolarizzazione invece come “luci”. Diversi sono infatti, i presupposti per l’una e l’altra disciplina, riguardando l’art. 905 c.c. le aperture che consentono di inspicere e di prospicere, cioè di vedere ed affacciarsi verso il fondo del vicino, ed invece gli artt. 901 e 902 c.c. il diritto di praticare aperture in direzione di quello per attingere luce ed aria; così come diversi sono i rimedi, poiché l’inosservanza delle distanze dettate dall’art. 905 c.c. può essere eliminata soltanto dall’arretramento o chiusura delle vedute, mentre le prescrizioni sulle luci possono farsi rispettare attraverso la loro semplice regolarizzazione” (Cass. n. 2558 del 2009; cfr. Cass. n. 512 del 2013).
Come riconosciuto anche dalla ricorrente, la domanda azionata dall’odierno controricorrente, nel primo e nel secondo grado, possedeva una valenza del tutto generica, essenzialmente diretta (tra l’altro) allo scopo di eliminare le violazioni poste in essere nella realizzazione delle nuove opere per cui è causa. E tale volontà era stata interpretata dal Giudice d’appello che, facendo uso del proprio potere di ermeneutica, teneva conto della situazione dedotta in causa, della volontà effettiva e delle finalità che il M. intendeva perseguire (in tal senso, Cass. n. 6226 del 2014). Laddove, la Corte d’Appello ha ritenuto che la richiesta regolarizzazione delle luci da parte dell’appellante non comportasse alcun mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, ma solo un semplice quid minus rispetto al rimedio previsto per le vedute (Cass. n. 22553 del 2009).
1.4. – Va, in proposito, richiamata la diversità dei presupposti, della ratio e del contenuto della disciplina di cui all’art. 905 c.c., in tema di distanze per l’apertura di vedute, rispetto a quella contemplata dagli artt. 901 e 902 c.c., con riguardo alle luci.
Con la prima (che riguarda quelle aperture le quali consentono di inspicere, cioè di vedere il fondo del vicino, ed inoltre di prospicere, cioè di affacciarsi guardando anche obliquamente e lateralmente lo stesso) si intende essenzialmente tutelare il proprietario dall’indiscrezione del vicino, impedendo a quest’ultimo di creare aperture a distanza inferiore a quella di un metro e mezzo. La disciplina di cui agli artt. 901 e 902 c.c. regolamenta il diritto, iure proprietatis, di effettuare sul proprio fabbricato aperture verso il fondo del vicino allo scopo di attingere luce ed aria, senza affacciarsi su quello, stabilendo i requisiti di altezza e di sicurezza (collocazione di inferriate e grate fisse) alla cui sussistenza è condizionata la limitazione del diritto del vicino.
Alla evidenziata diversità di presupposti e di ratio tra le due normative, corrisponde la diversità delle determinazioni, che, in concreto, possono essere adottate per evitare che venga realizzato quel risultato che la legge ha inteso impedire. Così, mentre la possibilità di affacciarsi sul fondo del vicino può essere, in caso di inosservanza delle distanze minime previste dall’art. 905 c.c., eliminata soltanto dall’arretramento o dalla chiusura della veduta, tranne che essa non costituisca il contenuto di uno specifico diritto di servitù, le prescrizioni stabilite dall’art. 901 c.c., in tema di luci possono essere fatte rispettare attraverso la semplice regolarizzazione delle aperture originariamente create in violazione delle prescrizioni in tema di altezza e sicurezza poste dalla legge: regolarizzazione che può essere, peraltro, chiesta in qualsiasi momento dal proprietario del fondo confinante, a norma dell’art. 902 c.c. (sicché, la domanda volta ad obbligare il vicino alla regolarizzazione di una luce, pur costituendo quantitativamente un minus rispetto alla actio negatoria servitutis, rappresenta un qualcosa di diverso rispetto a quest’ultima; ne consegue che – proposta domanda originaria di riduzione a distanza legale di una servitù di veduta diretta ed indiretta sul proprio fondo – costituisce domanda nuova, come tale inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la regolarizzazione di una luce irregolare, atteso che l’accoglimento di detta domanda imporrebbe l’esecuzione di opere non ricomprese nel petitum originario) (Cass. n. 22553 del 2009, cit.).
1.5. – Nella specie, come già chiarito, il controricorrente in primo grado non aveva chiesto la regolarizzazione delle luci aperte, ma aveva fatto valere la illegittimità di dette aperture siccome realizzate a distanza inferiore a quella regolamentare, con conseguente richiesta di eliminazione delle stesse, accolta dal Tribunale con riguardo ad una sola di esse: sicché la decisione della Corte d’appello, che, qualificate le stesse aperture come luci, ne ha opinato la irregolarità per mancato rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c., imponendone la regolarizzazione (non rilevando, in tale contesto, nemmeno evidenziare la eventuale erroneità o apoditticità della relativa affermazione), si colloca al di là delle domande dello stesso controricorrente, decidendo, tra l’altro, questioni sulle quali non si era sviluppato alcun contraddittorio e sulle quali quindi il convenuto non aveva potuto sollevare alcuna eccezione (Cass. n. 2558 del 2009, cit.).
Vale, in proposito, richiamare le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte in materia di criteri di riferimento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., ponendo l’accento sul divieto, che il predetto principio implica, di attribuire alla parte un bene non richiesto, o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, interferendo nel potere dispositivo delle parti, attraverso l’alterazione di alcuno degli elementi identificativi dell’azione (petitum e causa petendi), ed attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda (v., tra le altre, Cass. n. 27727 del 2005, cit.).
2.1. – Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta “Con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5: (il) travisamento radicale di fatti decisivi per il giudizio tale da integrare omesso esame; con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione o falsa applicazione degli artt. 1064,1065 e 1069 c.c.”. Rileva la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe ignorato le risultanze istruttorie: la ricorrente era ed è titolare di un diritto di servitù di passaggio sui mappali di proprietà del M.; la gradinata non è stata realizzata dalla ricorrente bensì preesisteva all’intervento di ristrutturazione. Il completo travisamento del fatto che non di realizzazione ex novo, ma di risistemazione del preesistente a fini di migliore conservazione e fruizione della servitù, si sia trattato.
2.2. – Con il terzo motivo, la ricorrente deduce “Con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5: (il) travisamento radicale di fatti decisivi per il giudizio tale da integrare omesso esame”, censurando il capo di sentenza che la condanna all’arretramento della propria costruzione fino alla distanza di 3 metri dal fabbricato di proprietà M., limitatamente alla violazione di tali limiti lungo le falde nord e ovest del tetto. Secondo la Corte d’Appello il CTU avrebbe accertato che le opere realizzate dalla ricorrente, comportanti aumento volumetrico, non sarebbero state edificate nel rispetto del limite di 3 metri stabilito dall’art. 873 c.c.; inoltre il tetto era ribassato rispetto al preesistente, mentre la sentenza impugnata affermava che l’abbassamento delle quote si riferiva soltanto alla parte sommitale, per cui se la sommità del tetto era stata abbassata non poteva esserci stato ampliamento dei prospetti e quindi della sagoma altimetrica, laddove, viceversa, per la ricorrente tutte distanze erano entro i limiti di legge.
3. – Stante la loro stretta connessione logico-giuridica, i due motivi di ricorso vanno esaminati e decisi congiuntamente. 3.1. – Essi sono inammissibili sotto vari profili.
4. – In termini generali va rilevato che, nel ricorso per cassazione, non è consentita la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione tra loro eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, non essendo permessa la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e la insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa, palesemente mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).
4.1. – Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).
Quando nel ricorso per cassazione viene denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il vulnus deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 15177 del 2002; Cass. n. 1317 del 2004; Cass. n. 635 del 2015). Le Sezioni Unite (Cass., sez. un., n. 23745 del 2020) hanno ritenuto che l’onere di specificità dei motivi, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, impone al ricorrente, a pena d’inammissibilità della censura, di indicare puntualmente le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente ad indicare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare (con una ricerca esplorativa officiosa che trascende le sue funzioni) la norma violata o i punti della sentenza che vi si pongono in contrasto.
Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto configurati (come nella specie) per mezzo della sola indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).
4.2. – Sotto altro profilo, costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, ed applicabile ratione temporis) consenta di denunciare in cassazione (oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante) solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 14014 del 2017; Cass. n. 9253 del 2017).
A seguito della riforma del 2012 è scomparso pertanto, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, rimanendo il controllo circa la esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e la coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga direttamente ed immediatamente dal testo della sentenza impugnata.
Detto controllo concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., sez. un., n. 19881 del 2014).
4.3. – La società ricorrente lamenta il mancato esame di un preteso diritto di servitù di passaggio sui mappali di proprietà del controricorrente, in ragione delle reciproche concessioni sottoscritte davanti al Tribunale di Aosta il 23.2.1999; ma indica solo genericamente il verbale di conciliazione che conterrebbe reciproche concessioni dalle quali asseritamente deriverebbe il diritto di servitù di passaggio, senza riportarne precisamente il dato testuale, né indicarne le pagine; non chiarisce quando tale diritto sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti; manca di far emergere la decisività di tale diritto di cui non ha mai chiesto l’accertamento.
Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente (nella specie) avrebbe dunque dovuto anche specificamente e contestualmente indicare con precisione, oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017; Cass. n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’e’ idonea e spcifica indicazione. Donde, altresì, la censura della figura del travisamento della prova, che non implica una valutazione dei fatti, ma si traduce nella denuncia di incongruenza della motivazione (Cass. n. 1163 del 2020).
5. – Le censure di cui al secondo e al terzo motivo si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando i ricorrenti di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).
Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).
6. – Vanno dichiarati inammissibili i motivi secondo e terzo. Va invece accolto il primo motivo, nei sensi di cui in motivazione, con la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il secondo ed il terzo motivo. Accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese di questo giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2021
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