Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.21639 del 28/07/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26891-2019 proposto da:

W.I., rappresentato e difeso dall’Avvocato LEONARDO BARDI, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso il DECRETO n. 6455/2019 del TRIBUNALE DI MILANO, depositato il 3/8/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/2/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

FATTI DI CAUSA

Il tribunale, con il decreto in epigrafe, ha rigettato il ricorso che Isaac W., nato in Nigeria il 12/1/1992, aveva proposto avverso il provvedimento con il quale la commissione territoriale aveva, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale che lo stesso aveva proposto.

Isaac W., con ricorso notificato il 3/9/2019, ha chiesto per tre motivi la cassazione del decreto.

Il ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, comma 11, lett a) e b), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale, pur in mancanza di videoregistrazione dell’audizione innanzi alla commissione territoriale, ha ritenuto di non procedere all’audizione del richiedente nel corso dell’udienza di comparizione.

2. Il motivo è infondato. In tema di protezione internazionale, questa Corte, nell’enunciare il principio secondo cui, in mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente disporre lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento a consentire il pieno dispiegamento del contraddittorio, salvo che non sia stato lo stesso richiedente ad aver visto accolta la propria istanza motivata di non avvalersi del supporto della videoregistrazione, ha precisato che l’obbligatorietà della fissazione dell’udienza di comparizione, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, non comporta automaticamente la necessità di dar corso all’audizione del richiedente (cfr. Cass. n. 17717 del 2018; Cass. n. 32318 del 2018). Tale affermazione trova conforto nella giurisprudenza comunitaria, la quale, pronunciandosi in ordine all’interpretazione degli artt. 12, 14, 31 e 46 della direttiva 2013/32/CE del 26 luglio 2013, ha precisato che l’obbligo di consentire al richiedente di sostenere un colloquio personale, prima di decidere sulla domanda di protezione internazionale, grava esclusivamente sull’autorità incaricata di procedere all’esame della stessa e non si applica, pertanto, nei procedimenti d’impugnazione, in quanto l’obbligo di procedere all’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, imposto al giudice competente dall’art. 46, par. 3, della direttiva dev’essere interpretato tenendo conto della stretta connessione esistente tra la procedura d’impugnazione e quella di primo grado che la precede, nel corso della quale dev’essere consentito al richiedente di sostenere il colloquio personale, con la conseguenza che il giudice può decidere di non procedere all’audizione nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame siffatto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale svoltosi in occasione del procedimento di primo grado (cfr. Corte di Giustizia UE, 26/07/2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko). Non merita, pertanto, alcuna censura il decreto impugnato se il tribunale, dopo aver fissato l’udienza di comparizione, ha ritenuto di non procedere all’audizione del richiedente. Il ricorrente, dal suo canto, non ha chiarito quali fatti aveva intenzione di narrare innanzi al tribunale per chiarire o integrare le dichiarazioni rese innanzi alla commissione territoriale, né risulta che, con il ricorso al tribunale, avesse introdotto temi di indagine ulteriori rispetto a quelli a suo tempo narrati. Il tribunale, dunque, in mancanza di deduzione di fatti nuovi e diversi, aveva, evidentemente, a disposizione tutti gli elementi necessari ai fini della decisione ed ha, pertanto, legittimamente provveduto sulla domanda di protezione internazionale non essendo a tal fine necessario sentire nuovamente la parte richiedente.

3. Con il secondo ed il terzo motivo, il ricorrente, lamentando, rispettivamente, la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3, e D.Lgs. n. 286 del 1990, artt. 5, 20 e 20 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’omesso esame circa un fatto decisivo Ric. 2019 n. 26891 – Sez. 2 – c.c. 16 febbraio 2021 per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ha censurato il decreto impugnato: – innanzitutto, nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria senza considerare le minacce alla sua incolumità personale provenienti dai familiari della sua ex fidanzata e la condizione di grave instabilità politica e sociale nella quale notoriamente versa la ***** ed il clima di violenza diffusa e generalizzata che esiste nel suo Paese d’origine; – in secondo luogo, nella parte in cui il tribunale ha negato la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria senza, tuttavia, considerare gli elementi di sopravvenuta e attuale vulnerabilità in cui versa il richiedente in ragione del tempo trascorso dalla fuga dalla *****, dei contrasti familiari in cui è stato coinvolto e della necessità di abbandonare il proprio paese per evitare l’aggressione da parte dei suoi stessi familiari, nonché, infine, della situazione di indigenza nella quale si verrebbe a trovare in caso di rientro nel suo Paese d’origine, caratterizzato, peraltro, da gravi violazioni dei diritti umani da parte delle autorità di governo: specie a fronte della dichiarazione di omosessualità resa dal richiedente e del conseguente rischio, in caso di rientro in Patria, di essere perseguito penalmente.

4.1. Il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono infondati.

4.2. In effetti, ai fini della protezione internazionale, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva previsti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente circa la sua personale esposizione a rischio grave per la vita o la persona, essendo solo in tal caso possibile considerare “veritieri”, se pur sforniti di prova (perché non reperibile o non richiedibile), i fatti che lo stesso ha narrato (cfr. Cass. n. 16925 del 2018). La valutazione d’inattendibilità del richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto che può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. n. 33858 del 2019).

4.3. Nel caso di specie, il tribunale, in ragione delle “gravi discrasie logiche e storiche” che hanno connotato la sua narrazione, ha ritenuto che il racconto svolto dal richiedenti in ordine ai motivi che lo avevano indotto a lasciare il proprio Paese non fosse credibile ed ha, pertanto, legittimamente escluso, in conformità ai predetti indicatori normativi (tra cui quello, previsto dalla lett. c), secondo il quale i fatti narrati dal richiedente sono considerati “veritieri” solo se le dichiarazioni dello stesso siano ritenute, appunto, “coerenti e plausibili”), che lo stesso fosse soggettivamente credibile.

4.4. Si tratta, per il resto, di un apprezzamento in fatto (del quale il tribunale ha esposto le ragioni in modo nient’affatto apparente o contraddittorio) che il ricorrente non ha specificamente censurato con la precisa indicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, dei fatti, principali o secondari, che il giudice di merito, nell’accertamento svolto circa l’intrinseca attendibilità della sua narrazione, avrebbe del tutto omesso di esaminare, ancorché dedotti nel corso del giudizio di merito e decisivi nel senso che la loro valutazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto diversa rispetto a quella affermata dalla decisione impugnata.

4.5. Ed è noto che l’inattendibilità del racconto del richiedente, così come (oramai incontestabilmente) accertata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare tanto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, quanto la domanda di concessione della protezione sussidiaria dallo stesso invocata ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), senza che sia a tal fine necessario procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità (nella specie neppure specificamente invocata né comunque accertata nel giudizio di merito) di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 33858 del 2019; Cass. n. 8367 del 2020; Cass. n. 11924 del 2020).

4.6. Per ciò che riguarda, invece, la protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) – escluso ogni rilievo all’inattendibilità delle dichiarazioni svolte dallo straniero poiché, a quest’ultimo fine, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione non credibile dei fatti attinenti alla vicenda personale del richiedente, purché egli abbia assolto il proprio dovere di allegazione: Cass. n. 10286 del 2020) – osserva la Corte che la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: il grado di violenza indiscriminata, pertanto, deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019).

4.7. La sussistenza di tale presupposto dev’essere, tuttavia, accertata dal giudice di merito mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone, ove pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione (cfr. Cass. 9230 del 2020).

4.8. Il giudice, peraltro, a norma del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, ha il dovere di indicare la fonte a tal fine utilizzata nonché il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti a verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (Cass. n. 13449 del 2019, Cass. n. 13450 del 2019, Cass. n. 13451 del 2019, Cass. n. 13452 del 2019).

4.9. La decisione impugnata, indicando le fonti in concreto utilizzate ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, ha (legittimamente) ritenuto che nella zona di provenienza del richiedente, pur esistendo tensioni e conflitti, la violenza non raggiunge un livello così elevato da comportare per i civili, in ragione della loro mera presenza sul posto, il concreto rischio della vita o di un grave danno alla persona.

4.10. Tale apprezzamento, del quale il giudice di merito ha indicato le ragioni in modo nient’affatto apparente o contraddittorio, non è stato, peraltro, censurato dal ricorrente per avere il giudice distrettuale del tutto omesso l’esame di uno o più fatti specificamente dedotti in giudizio e decisivi ai fini di una ricostruzione della fattispecie diversa e allo stesso più favorevole. Ed e’, invece, noto che, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui all’art. 14 lett. c) D.Lgs. n. 251 cit., che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito che può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 23942 del 2020).

4.11. D’altra parte, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere – che, però, nel caso di specie è rimasto inadempiuto – di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019) e sempre che siano tali da far ritenere, in termini di certezza e non di mera probabilità, che, nella zona di provenienza del richiedente, per effetto di un conflitto armato interno tra le forze governative e uno o più gruppi armati ovvero tra due o più gruppi armati, sussista un grado di violenza indiscriminata di livello talmente elevato che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio effettivo di subirne la conseguente minaccia.

4.12. Quanto, infine, alla protezione umanitaria, si tratta, com’e’ noto, di una misura atipica e residuale che copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017). I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

4.13. Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente sul rilievo, in sostanza, che il richiedente non presenta, per il caso di rimpatrio, una situazione di effettiva vulnerabilità personale che possa giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta, com’e’ evidente, di un accertamento in fatto che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata. Il ricorrente, invece, pur avendone l’onere (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, ancorché dedotti in giudizio, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, né, infine, la loro decisività ai fini di una differente pronuncia a luì favorevole: a partire dalla dedotta omosessualità, della quale, in effetti, il decreto impugnato non tratta.

4.14. D’altra parte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018). Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, però, il tribunale, con apprezzamento che il richiedente non ha censurato per omesso esame di fatti specificamente dedotti in giudizio e decisivi ai fini di una differente ricognizione della fattispecie concreta, ha, in sostanza, escluso, lì dove ha evidenziato che il richiedente non aveva documentato alcuna attività formativa e/o lavorativa, non potendo, comunque, derivare dallo svolgimento di un’attività lavorativa (Cass. n. 8367 del 2020). Pertanto, in difetto di qualsiasi altro elemento di valutazione – che il ricorrente non dimostra, con la riproduzione dei relativi passi, di aver dedotto con il ricorso contenente la domanda di protezione umanitaria il decreto impugnato ha legittimamente escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria.

5. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poiché il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

6. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

7. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al ministero dell’interno le spese di lite, che liquida in Euro 2.100,00, per compenso, oltre alle spese prenotate a debito; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472