LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCITO DI NOCERA M.G. – Consigliere –
Dott. D’AURIA Giusep – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18306-2013 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO ***** SRL, ***** SPA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 79/2012 della COMM. TRIB. REG. CALABRIA, depositata il 04/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE D’AURIA.
FATTI DI CAUSA
La vicenda giudiziaria trae origine dall’avviso di accertamento n. *****, notificato alla ***** srl, con cui era individuata una maggiore pretesa fiscale ai fini irpeg, irap, e iva relativamente all’anno 2000.
In particolare l’Agenzia delle Entrate, sulla base del ppv di constatazione redatto dalla G:F., avendo accertato:
che il contribuente aveva illegittimamente contabilizzato costi non documentati ed in parte relativi a operazioni inesistenti, che aveva applicato una aliquota Irpeg agevolata, senza che ne sussistessero i presupposti di legge;
determinava una maggiore imposta ai fini irpeg per Euro 399.350,30, una maggiore irap per Euro 44808,83, ed una maggiore iva per 104351,15.
Tale atto era impugnato dal contribuente.
In pendenza di giudizio, era emessa anche cartella di pagamento in relazione a tale atto di accertamento, che era analogamente impugnata per le stesse ragioni. In tale giudizio si costituiva anche *****. Il giudizio di primo grado avverso l’accertamento si concludeva con accoglimento parziale del ricorso del contribuente, essendo state ritenute illegittime solo le contestazioni di cui ai capi a-d -e-J.
Proponeva appello l’Agenzia delle Entrate, per la parte in cui era rimasta soccombente deducendo che la decisione penale non costituiva giudicato da valere nel giudizio tributario, che erroneamente erano state considerate non rilevanti le presunzioni poste a base dell’accertamento sebbene erano precise, gravi e concordanti, che non era stata considerata l’avvenuta cessione di azienda del punto vendita di *****, sebbene il cedente avesse comunicato al locatore la cessione ai fini del subentro nel contratto locativo.
La società ***** a sua volta proponeva appello incidentale che era accolto dalla CTR della Calabria, annullando quindi l’accertamento in quanto avvenuto oltre i termini di decadenza di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43.
Propone ricorso in Cassazione la Agenzia delle Entrate, che si affidava a 3 motivi così sintetizzabili:
1) Violazione della L. n. 289 del 2002, artt. 9-bis e 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2) Violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
3) Insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Non si costituiva con controricorso l’intimato Fallimento ***** srl, né ***** spa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo l’Agenzia delle Entrate assume che la Ctr della Calabria abbia commesso un errore di diritto, laddove abbia disapplicato la L. n. 289 del 2002, art. 10, che disponeva la proroga dei termini per l’accertamento.
Il motivo è fondato.
La Ctr riteneva, in buona sostanza, che essendo stato il condono IVA dichiarato illegittimo dalla Corte Europea, ne dovesse necessariamente conseguire che la postergazione dei termini era destituita di fondamento giuridico, concludendo che nel caso di specie l’azione di accertamento intrapresa dall’Amministrazione finanziaria dovesse ritenersi tardiva perché esperita oltre l’ordinario termine.
Il ragionamento contenuto nella sentenza impugnata appare in ogni caso claudicante se non illogico, visto che annulla l’intero accertamento e non solo la parte riguardante l’iva, ma anche le parti inerenti ad altre imposte astrattamente condonabili.
Invero, come correttamente argomentato, da Cass. n. 16433 del 05/08/2016 (in motivazione): “la disapplicazione delle norme interne sul condono all’IVA, in forza dei principi statuiti nella menzionata sentenza della Corte di giustizia UE del 17 luglio 2008 (causa C132/06), non spiega effetto sulla distinta questione della proroga dei termini per l’accertamento di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 10, introdotta per consentire all’amministrazione di dedicarsi alla complessa gestione degli adempimenti imposti dalla legge di condono, così da poter compiere le connesse operazioni senza pregiudizio dell’azione di contrasto dell’evasione e di controllo per le annualità ancora (all’epoca) accertabili, anche nei confronti di contribuenti che non avessero ritenuto di fruire della opportunità della definizione premiale”, sicché quel “maggior termine procedimentale, anche se di rilevanza sostanziale… non poteva essere retroattivamente vanificato su base interpretativa, in ragione della illegittimità comunitaria del condono dell’Iva”. In altri termini tale proroga era ispirata proprio dalla “necessità di salvaguardare il potere accertativo, non di deprimerlo” (Cass. n. 2194 del 2015)”.
Invero, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, opera, “in assenza di deroghe contenute nella legge”, sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo. (vedi Ordinanza n. 3782 del 2016).
Ai fini della proroga non è rilevante la distinzione tra chi poteva e non poteva beneficiare del condono sulla base dei principi giurisprudenziali che precedono, e quindi l’accertamento posto in essere dall’Ufficio non poteva risentire della intervenuta declaratoria di inapplicabilità del condono all’IVA (v. Cass. u. 17621 del 2018).
Con il secondo motivo l’Agenzia deduce che erroneamente l’avviso era stato ritenuto carente di motivazione solo perché non sarebbe stato precisato se si trattasse di accertamento analitico o induttivo.
In realtà l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento, imposto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, è soddisfatto ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, e, quindi, di contestarne efficacemente l’an” ed il “quantum debeatur”.
Nel caso dalla lettura della sentenza impugnata si apprende che il ricorso del contribuente era stato in parte accolto in primo grado in ordine alle contestazioni ai punti a-b-e-j dell’avviso di accertamento, e quindi il contribuente aveva ben compreso il contenuto dell’atto impositivo, essendo evidentemente la motivazione esaustiva.
Del resto il giudice di secondo grado non ha minimamente tenuto distinta la questione relativa all’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale requisito formale di validità dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7; D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis), dalla questione, nettamente differente, attinente, invece, alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr. Cass. n. 10052 del 2000; Cass. n. 5544 del 1998; Cass. n. 459 del 1997). Nel caso, dalla lettura dell’atto di accertamento il Fisco ha specificato di aver esaminato le singole voci della dichiarazione dei redditi del contribuente, i conti di mastro, le fatture emesse indicando le poste che intendeva recuperare a tassazione, il reddito occultato, le fatture emesse per operazioni inesistenti. Proprio perché la legge, consente all’ufficio di procedere “sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili “(citato art. 39) potendo utilizzare elementi esterni rispetto alle scritture, nulla vieta che si serva anche dei dati emergenti dalle stesse nella misura in cui risultino singolarmente affidabili. In altri termini l’esistenza dei presupposti per l’applicazione del metodo induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d), non esclude che l’amministrazione finanziaria possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie” (Cassazione civile, sez. trib., 5 agosto 2002, n. 11686).
Pertanto la mancata indicazione del metodo utilizzato di per sé era irrilevante occorrendo valutare in concreto se il recupero delle singole poste era suffragato da corretto ragionamento in concreto tenendo conto eventualmente dell’onere probatorio, come ripartito dal legislatore, e se le presunzioni utilizzate dall’ufficio avessero i requisiti di cui all’art. 2729 c.c..
Pertanto, in accoglimento del i e 2 motivo del ricorso, rimanendo così assorbito il terzo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Ctr della Calabria in diversa composizione che provvederà anche sulle spese di questo grado, riesaminando l’appello originale proposto.
P.Q.M.
La Corte in accoglimento del i e 2 motivo del ricorso, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Calabria in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese di questo grado.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021