Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.21758 del 29/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

M.G., rappresentata e difesa dall’avvocato Gualtiero Gennari del foro di Milano ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– intimato –

avverso il Decreto n. 6512/2019 del Tribunale di Milano, depositato il 10/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2020 dal Consigliere Dott.ssa FALASCHI Milena.

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 09.05.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano rigettava la domanda della ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione M.G., che veniva respinta dal Tribunale di Milano con Decreto n. 6512 pubblicato il 10.08.2019;

– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, rilevando preliminarmente una valutazione di non credibilità della richiedente asilo, proveniente dalla Nigeria – Edo State, nata a Benin City, la quale aveva riferito di avere lasciato il suo Paese nel luglio 2015 a seguito degli abusi subiti dal secondo marito della madre, iniziati nel 2012, quando aveva diciassette anni, e l’anno seguente, nel 2013, il fratello, che aveva scoperto tali abusi e minacciato l’uomo di denunciarlo, veniva trovato morto nella sua stanza in circostanze misteriose; aggiungeva di non avere mai raccontato a nessuno degli abusi, salvo poi trovare il coraggio di lasciare la Nigeria dopo aver subito un aborto. In particolare, la narrazione veniva ritenuta generica ed incoerente, oltre ad essere scarno il racconto degli abusi da parte del patrigno, come vaghe apparivano le dichiarazioni relative al timore prospettato in caso di rimpatrio, difettando qualsiasi dettaglio sulle modalità con cui ella avrebbe vissuto la relazione abusiva con il patrigno, soprattutto con riferimento alla sua relazione con gli altri membri della famiglia, in particolare con la madre. Appariva, altresì, poco plausibile anche il racconto della donna incontrata nel suo passaggio in Libia, che ivi l’aveva costretta a prostituirsi e poi l’aveva lasciata partire per l’Italia. Difficilmente credibile era anche il riferimento al juju, asseritamente praticatole al fine di indurla a prostituirsi in quanto ella, pur avendo dichiarato che lo stesso fratello era stato ucciso con tale rito e di temerlo, aveva affermato di essere riuscita a non prostituirsi in Italia. Osservava, altresì, che quanto alla documentazione prodotta dalla parte ricorrente con memoria integrativa del 18.02.2019 in riferimento alla relazione medico legale del Policlinico di Milano, dalla quale risultava che la ricorrente aveva subito una infibulazione di tipo II, osservava che tale documentazione non era indicativa delle circostanze in cui si sarebbero perpetrate le violenze attestate, né era stato fornito un chiarimento dall’interessata in tal senso. Aggiungeva, inoltre, che non sussistevano i presupposti per ritenere esistente un conflitto armato generalizzato alla luce delle fonti esaminate (Easo Country of Origin Information Report Nigeria Security Situation del novembre 2017 e le pubblicazioni UNHCR, oltre ai World Report del 2018 e del 2019). Del pari veniva negata la ricorrenza dei presupposti per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari in difetto di prova di una effettiva integrazione sociale, avendo la richiedente dichiarato solo di frequentare un corso di italiano, ma non di lavorare, per cui non aveva alcuna forma di indipendenza economica e di vivere in un appartamento a Romano di Lombardia (BG) pur manifestando l’intenzione di voler andare a convivere con il suo compagno; aggiungeva che lo stato di gravidanza documentato comportava esclusivamente la inespellibilità della ricorrente;

– propone ricorso per la cassazione di tale decisione – notificato in data 12.09.2019 – M.G., affidato a tre motivi, di cui il terzo in subordine;

– il Ministero dell’interno è rimasto intimato.

Atteso che:

– con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità del decreto per omessa motivazione e omesso esame circa un punto decisivo della controversia circa la condizione socio-politica del Paese di provenienza e la correlazione di questa con la sua specifica condizione, quanto a libertà personali e libertà sessuale.

Con secondo motivo la ricorrente, nell’insistere nel dedurre la nullità del decreto, lamenta che il Tribunale non abbia tenuto conto che lei era stata vittima dello sfruttamento legato al traffico di essere umani e che in Nigeria perdurano i fenomeni di violenza contro le donne e lo sfruttamento della prostituzione, oltre a forme di coercizione fisica e di mutilazione genitale femminile.

Il primo ed il secondo motivo possono esaminarsi congiuntamente essendo fondati nei termini di cui appresso si dirà.

Il Tribunale ha rigettato l’impugnazione avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale affermando che la sola relazione medico legale del Policlinico di Milano, dalla quale risulta che la ricorrente ha subito una infibulazione di tipo II, non è indicativa delle circostanze in cui si sarebbero perpetrate le violenze attestate, né era stato fornito un chiarimento dall’interessata in tal senso.

Il giudice del merito ha così commesso due errori.

Il primo consiste nella enunciazione di una regola che non trova riscontro nel disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, avendo affermato che la sola documentazione medica non costituisce prova delle violenze subite, peraltro senza specificare quale altra prova il soggetto avrebbe dovuto offrire.

Al contrario, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, dispone che, qualora gli elementi acquisiti non siano suffragati da prove, sono comunque considerati veritieri se l’autorità giudiziaria ritiene che: “a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente e’, in generale, attendibile”. La norma riproduce il testo dell’art. 4, comma 5 della Direttiva 2004/83/CE, sulla quale la CGUE così si è espressa: “quando taluni aspetti delle dichiarazioni di un richiedente asilo non sono suffragati da prove documentali o di altro tipo, tali aspetti non necessitano di una conferma purché siano soddisfatte le condizioni cumulative stabilite dall’art. 4, paragrafo 5, lettere da a) a c) della medesima direttiva” (CGUE, grande sezione, 2.12.2014, cause riunite C-148/13 a C-150/13).

Ciò significa che il giudice è tenuto ad operare un accurato esame delle dichiarazioni del richiedente asilo e della documentazione dallo stesso allegata, al fine di valutarne la completezza, la tempestività e la attendibilità secondo i criteri procedimentali posti dall’art. 3 e quindi assumere informazioni sul paese di origine (in acronimo COI) aggiornate e pertinenti, alla luce della quali valutare le dichiarazioni rese e della documentazione prodotta.

Le stesse dichiarazioni possono anche -di per sé sole- costituire prova dei fatti in deroga all’ordinario principio dispositivo (Cass. 29056/2019; Cass. 29056/2019; Cass. 28990/2018; Cass. 26921/2017; Cass. n. 16201/2015).

Tanto chiarito, risponde a massima di comune esperienza (per la cui dignità probatoria v. Cass., Sez. Un., n. 26792 del 2008) il drammatico impatto di simili, ripetute, violenze sull’equilibrio psico-fisico di una giovane donna quale la ricorrente, tali da integrare una evidente fragilità da sottoporre ad una attenta valutazione, avendo riguardo, in particolare, alla condizione di rischio di essere sottoposta ad atti persecutori o a trattamenti inumani e degradati a causa del suo genere essendo stata già sottoposta ad infibulazione che in caso di rimpatrio dovrebbe affrontare nel proprio paese d’origine (cfr. rapporto EASO di giugno 2017, da cui emerge che la violenza domestica in Nigeria è “molto diffusa ed endemica” e può consistere in abusi fisici, morali, psicologici, sessuali, economici, ovvero in costrizioni e minacce, intimidazioni, isolamento ecc.); e, prima ancora, alla inevitabile percezione della ricorrente di subire una ulteriore violenza nell’essere costretta a tornare proprio nel luogo da cui era riuscita a fuggire a così elevato prezzo personale.

Per completezza argomentativa va, altresì, segnalato come in fattispecie del tutto analoghe (anche quanto a paese di transito e provenienza) questa Corte abbia conferito particolare rilievo, ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, proprio alle violenze sessuali o alla induzione alla prostituzione subite nel paese di transito e di temporanea permanenza, perché potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (Cass. n. 1104/2020; Cass. n. 13096/2019; Cass. n. 14005/2018; Cass. n. 23604/2017).

Ne consegue che le dichiarazioni della richiedente asilo sulle violenze sessuali devono essere raccolte da un intervistatore competente e valutate dal giudice secondo i criteri procedimentali di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comparate con COI aggiornate e pertinenti, e possono essere sufficienti da sole a dimostrare il particolare rischio persecutorio, ovvero la circostanza che nel paese d’origine il soggetto è stato percepito come fragile. Il giudicante, evitando indebite invasioni nella vita privata e non lasciandosi condizionare da stereotipi, dovrà accertare la concreta situazione psicologica della richiedente e valutare la sua particolare condizione personale nel valutarne la credibilità, tenendo conto anche della violenza subita a causa dell’infibulazione e se sia nell’impossibilità di vivere nel proprio paese d’origine senza rischi effettivi per la propria incolumità psico-fisica (Cass. n. 11176/2019). Ha errato quindi il Tribunale a fondare la propria decisione sul rilievo che le dichiarazioni della richiedente sono state ritenute non credibili dalla Commissione.

Pertanto in accoglimento del primo e del secondo motivo nei limiti di cui in motivazione, assorbito il terzo mezzo condizionato, il decreto impugnato deve essere cassato, con rinvio al giudice del merito perché proceda ad un nuovo ed appropriato esame delle dichiarazioni rese dalla richiedente asilo e dalla documentazione dalla stessa allegata al fine di valutare, secondo le regole e i principi sopra richiamati, se può ritenersi provata una condizione individuale di esposizione a rischio di atti persecutori del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 8, lett. d) ovvero di trattamento inumano e degradante il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b).

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e secondo motivo del ricorso nei limiti di cui in motivazione, assorbito il restante;

cassa il decreto impugnato e rinvia per un nuovo esame al Tribunale di Milano in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile, il 3 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021

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