LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14835/2017 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliato in Roma, Viale B.
Buozzi n. 99, presso lo studio dell’avvocato D’Alessio Antonio, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
R.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via G.b. Morgagni n. 2/a, presso lo studio dell’avvocato Segarelli Umberto, rappresentata e difesa dall’avvocato Zingarelli Luigi, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
F.C., P.G. presso la Corte di Appello di Perugia;
– intimati –
avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di PERUGIA n. 124/2017, depositata il 04/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/03/2021 dal cons. Dott. VALITUTTI ANTONIO.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso in data 11 luglio 2016, R.F. adiva il Tribunale di Terni, chiedendo la modifica, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9 delle condizioni di divorzio – già modificate dallo stesso Tribunale nell’anno 2009 – mediante revoca dell’assegno di Euro 875,00 mensili corrisposto alla ex moglie F.C. per il mantenimento della figlia C., nonché delle spese di assistenza sanitaria, poste a suo carico nella misura di 2/3. A sostegno della domanda, il ricorrente allegava la circostanza dell’intervenuta celebrazione del matrimonio – in data ***** – della figlia con il signor V.D., da cui sarebbe conseguito il venire meno dell’obbligo, per il padre, di corrispondere alla medesima l’assegno di mantenimento.
1.1. Instauratosi il contraddittorio, la F. si costituiva, opponendosi alla domanda e chiedendone il rigetto. Interveniva, altresì, nel giudizio R.C., aderendo alla posizione processuale della madre, e chiedendo il versamento diretto dell’assegno in proprio favore.
1.2. L’adito Tribunale di Terni, con provvedimento in data *****, a parziale modifica delle condizioni di divorzio, disponeva che l’assegno di mantenimento – che confermava nella misura di Euro 875,00 – venisse corrisposto direttamente alla figlia R.C., intervenuta nel giudizio.
2. La Corte d’appello di Perugia, con ordinanza n. 124/2017, depositata il 4 aprile 2017 e notificata il 6 aprile 2017, rigettava il reclamo proposto da R.F., confermando in toto l’impugnato provvedimento, e condannando il reclamante alle spese del secondo grado. La Corte rilevava che, nel caso di specie, doveva trovare applicazione l’art. 337-septies c.c., che equipara, ai fini del mantenimento e degli altri obblighi a carico dei genitori, i figli portatori di handicap – come, nel caso concreto, R.C. – ai figli minori di età. Il giudice del gravame riteneva, altresì, che neppure il celebrato matrimonio potesse indurre la Corte a revocare l’assegno di mantenimento in favore della figlia, essendo – a sua volta – il di lei marito portatore di handicap.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso R.F. nei confronti di F.C. e di R.C., affidato a due motivi. La resistente ha replicato con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, Francesco R. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 105, 323 e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.
1.1. Osserva il ricorrente che l’intervento del figlio maggiorenne nei giudizi di separazione e di divorzio sarebbe da ritenersi inammissibile, stante il “carattere personalissimo dei diritti in gioco” e la considerazione del fatto che il versamento diretto dell’assegno rappresenta una mera “modalità esecutiva” di contribuzione, che il giudice valuta “tenendo conto dell’assetto patrimoniale complessivo delle parti”. Il Tribunale prima, la Corte d’appello poi, avrebbero dovuto, pertanto, emettere una statuizione in tal senso, preclusiva dell’intervento spiegato dalla figlia in giudizio.
1.2. In ogni caso, la Corte d’appello avrebbe erroneamente considerato corretta la statuizione del Tribunale, nella parte in cui, non soltanto aveva ritenuto ammissibile l’intervento spiegato dalla figlia R.C. nel giudizio di modifica delle condizioni di divorzio dei genitori, ma aveva confermato il contributo del padre al suo mantenimento, disponendo il pagamento diretto dell’assegno alla stessa figlia che, con l’intervento in giudizio, ne aveva fatto richiesta. Il giudice di appello avrebbe, invero, qualificato come “autonomo” l’intervento di R.C. in giudizio, ad onta del fatto che il Tribunale avesse considerato come “adesivo” – rispetto alla posizione della madre – detto intervento, e che siffatta statuizione, non essendo stata mai impugnata, fosse passata in cosa in giudicata. Del resto la stessa interveniente avrebbe – nel proprio atto difensivo del giudizio di appello – “insistito perché il proprio atto di intervento dovesse qualificarsi come “adesivo dipendente” finalizzato a sostenere le ragioni della madre”.
Ebbene, dalla qualificazione dell’intervento in questione come adesivo dipendente, discenderebbe che l’interveniente non avrebbe potuto far valere, a differenza di quanto accade per l'”intervento autonomo, un proprio diritto nei confronti del padre ricorrente, essendo portatrice di un mero “interesse” alla decisione della controversia in suo favore, avendo la medesima semplicemente aderito – come avrebbe accertato il Tribunale con sentenza passata in giudicato – alla posizione processuale della madre resistente in giudizio. Ma su tale questione, proposta dal R. nel reclamo, la Corte non si sarebbe neppure pronunciata.
1.3. Il motivo è infondato.
1.3.1. Non può revocarsi in dubbio, infatti, che nel giudizio di separazione o di divorzio, in cui sia in discussione la determinazione del contributo per il mantenimento di un figlio, sia ammissibile l’intervento anche del predetto figlio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, o eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente connesse, che comportano la legittimazione ad agire, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa. Inoltre, detto intervento assolve, altresì, ad un’opportuna funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità del versamento, anche in forma ripartita, del contributo al mantenimento (Cass., 19/03/2012, n. 4296).
1.3.2. Ed è del tutto evidente che l’intervento sarà qualificato dal giudice come adesivo, qualora – in concreto – il figlio interventore si limiti ad aderire alla posizione del genitore che chieda la determinazione del contributo in favore del figlio all’altro genitore, ovvero che resista alla pretesa di quest’ultimo di non corrispondere detto contributo. Per converso, l’intervento sarà qualificato dal giudicante come autonomo, laddove il figlio faccia valere un proprio diritto in giudizio, come quello – fondato sul disposto dell’art. 337-septies c.c., comma 1, – al versamento diretto dell’assegno di mantenimento in suo favore.
Ed invero – anche a seguito dell’introduzione dell’art. 155-quinquies c.c. ad opera della L. 8 febbraio 2006, n. 54, e dell’art. 337-septies c.c., da parte del D.Lgs. n. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55 – sia il figlio, in quanto titolare del diritto al mantenimento, sia il genitore con lui convivente, in quanto titolare del diritto a ricevere il contributo dell’altro genitore alle spese necessarie per tale mantenimento, cui materialmente provvede, sono titolari di diritti autonomi, ancorché concorrenti, sicché sono entrambi legittimati a percepire l’assegno dall’obbligato (Cass., 11/11/2013, n. 25300).
1.3.3. Ebbene, nel caso di specie, la figlia C. – a seguito della cessazione della convivenza con la madre, susseguente al matrimonio contratto – ha spiegato intervento volontario in giudizio al fine di ottenere – non solo la conferma dell’assegno di mantenimento, nonostante l’intervenuto matrimonio – ma anche la corresponsione diretta di detto assegno in suo favore, ai sensi dell’art. 337-septies c.c. Ne consegue che – anche a prescindere dal difetto di autosufficienza della censura, nella parte in cui non riproduce nel ricorso il passaggio della decisione di primo grado, nel quale il Tribunale avrebbe qualificato l’intervento in parola come adesivo dipendente – la qualificazione operata dalla Corte d’appello di tale intervento come “autonomo”, in quanto diretto a far valere un diritto proprio dell’interventore, fondato sulla disposizione succitata, deve ritenersi del tutto corretta.
Ne’ può dubitarsi del fatto che a tale qualificazione dell’intervento spiegato da R.C. non osti l’eventuale tenore formale di segno contrario dell’atto di costituzione della medesima nel giudizio di appello – anch’esso neppure trascritto sul punto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza – spettando certamente al giudice procedere alla qualificazione dell’atto, in base all’oggettiva situazione sostanziale dedotta dalla parte, senza essere vincolato alla denominazione da questa indicata (Cass., 08/07/1995, n. 7508).
1.4. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, la censura non può trovare accoglimento.
2. Con il secondo motivo di ricorso, R.F. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 337-septies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2.1. Deduce il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto di confermare l’assegno di mantenimento a favore della figlia C., benché la stessa – non soltanto fosse ampiamente maggiorenne, avendo compiuto i trentaquattro anni ma avesse, altresì, contratto matrimonio, e fosse – in quanto in possesso di un diploma come segretaria di azienda – perfettamente in grado di prestare un’attività lavorativa retribuita. Il giudice del gravame avrebbe tenuto conto, al riguardo, di documenti risalenti nel tempo, senza alcuna verifica – se del caso mediante c.t.u. – in ordine alle capacità attuali della figlia C., il miglioramento delle cui condizioni avrebbe, d’altro canto, consentito alla medesima la scelta matrimoniale.
La decisione assunta dalla Corte violerebbe, a parere dell’istante, il “principio dell’autoresponsabilità economica”, conseguente alle scelte di vita effettuate dai figli, che, raggiunta una certa età ed una loro autonomia, potrebbero contare esclusivamente – ove ne ricorrano le relative condizioni, diverse da quelle richieste per l’assegno di mantenimento – sul più ristretto obbligo degli alimenti gravante sui genitori, ai sensi degli artt. 433 c.c. e ss..
2.2. La censura è fondata.
2.2.1. Va osservato che, ai sensi dell’art. 337-septies c.c., comma 2, “Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori”. La disposizione riproduce l’art. 155-quinquies c.c., comma 2 previgente (introdotto dalla L. n. 54 del 2006), con una sola modifica, costituita dall’eliminazione del rinvio, contenuto nella disposizione precedente, alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 3, ai fini della definizione di “handicap grave”, rinvio che è ora effettuato dall’art. 37-bis, disp. att., introdotto dal D.Lgs. n. 154 del 2013. La norma dell’art. 37bis disp. att. dispone, invero, che “”i figli maggiorenni portatori di handicap grave, previsti dall’art. 337-septies c.c., comma 2, sono coloro i quali siano portatori di handicap ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 3”.
Orbene, l’art. 3, comma 1 Legge succitata stabilisce che “1. E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. La nozione di portatore di handicap grave è fornita, poi, dal comma 3 della medesima disposizione, laddove prevede che “3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità”.
2.2.2. Tale essendo il quadro normativo di riferimento, va rilevato che questa Corte ha chiarito, al riguardo, che – al di là della lettera della norma, che fa riferimento ad un’applicazione “integrale” ai figli maggiorenni portatori di handicap delle norme in favore dei figli minori – trovano applicazione, ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, ai sensi della L. n. 104 del 1992, le sole disposizioni in tema di visite, di cura e di mantenimento (compreso, quindi, il disposto dell’art. 155-quinquies c.c., ora art. 337septies c.c.) da parte dei genitori non conviventi e di assegnazione della casa coniugale, previste in favore dei figli minori, ma non anche quelle sull’affidamento, condiviso od esclusivo. In caso contrario, si dovrebbe, invero, concludere che il figlio portatore di handicap, ancorché maggiorenne, sia da considerarsi automaticamente privo della capacità di agire, mentre ciò potrà essere accertato eventualmente, in via parziale o totale, nei giudizi specifici di interdizione, inabilitazione o amministrazione di sostegno (Cass., 24/07/2012, n. 12977).
2.2.3. Orbene – una volta assodato che il contributo a favore del figlio maggiorenne portatore di handicap grave sia dovuto dal genitore, al pari di quello dovuto al figlio minore – va osservato che, ai fini del riconoscimento di detto contributo, non è sufficiente che il figlio da mantenere sia portatore di handicap, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 1, occorrendo – stante l’inequivoca previsione dell’art. 337-septies c.c., comma 2, – che il medesimo sia portatore di “handicap grave”, a norma del comma 3 medesima disposizione. Ne discende che il giudice di merito è tenuto ad accertare in fatto, ai fini di decidere circa la spettanza, o meno, di tale contributo, se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi della norma succitata, ossia se “la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3,. In caso contrario, la condizione giuridica del figlio – non assimilabile a quella del minore – sarà rapportabile allo status del figlio maggiorenne.
Quest’ultimo ha, per vero, diritto al mantenimento a carico dei genitori soltanto se, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, dimostri, con conseguente onere probatorio a suo carico laddove sia il medesimo ad agire in giudizio per ottenere il contributo al suo mantenimento – di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni (Cass., 14/08/2020, n. 17183; Cass., 05/03/2018, n. 5088).
2.2.4. Nel caso di specie, la Corte d’appello si è limitata ad una generica asserzione circa il fatto che la figlia C. è “portatrice di handicap, come documentato in atti”, che le impedirebbe lo svolgimento di un’attività lavorativa. Nessun accertamento – in concreto – in ordine alla gravità dell’handicap di cui è portatrice che, a tenore della norma succitata, deve richiedere un’assistenza “permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, risulta essere stato effettuato dal giudice del gravame. Tale accertamento – come dianzi rilevato – e’, per contro, essenziale e doveroso, ai fini di stabilire – al di là della circostanza, di per sé non decisiva, e sulla quale si e’, invece, incentrata la valutazione della Corte territoriale, dell’avvenuto matrimonio con un soggetto, a sua volta, portatore di handicap – se la condizione giuridica della istante sia, o meno, equiparabile a quella del figlio minore, ai fini delle determinazioni conseguenti.
3. L’accoglimento del secondo motivo di ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame del merito della controversia, facendo applicazione del seguente principio di diritto: “Ai fini del riconoscimento di un assegno di mantenimento ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, la cui condizione giuridica è equiparata, sotto tale profilo, a quella dei figli minori dall’art. 337-septies c.c., il giudice di merito è tenuto ad accertare se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3, richiamato dall’art. 37-bis disp. att. c.c., ossia se la minorazione, singola o plurima, della quale il medesimo sia portatore, abbia ridotto la sua autonomia personale, correlata all’età, “in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, essendo, in caso contrario, la condizione giuridica del figlio assimilabile, non a quella a quella dei minori, bensì allo status giuridico dei figli maggiorenni”.
4. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
PQM
Accoglie il secondo motivo di ricorso; rigetta il primo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, il 30 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021