Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.21928 del 30/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11408-2016 proposto da:

P.A. DI P.A. E M. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO MESSICO n. 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE GRANARA;

– ricorrente –

contro

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI n. 268-A, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO PETRETTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA NICATORE;

avverso il provvedimento n. 1360/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 02/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/03/2021 dal Consigliere Dott. OLIVA STEFANO.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 16.2.2005 B.G. evocava in giudizio la società P.A. di P.A. e M. S.n.c. innanzi il Tribunale di Chiavari, esponendo di essere proprietaria di un immobile frontistante la fabbrica eretta dalla convenuta a distanza inferiore al limite di dieci metri dalla parete finestrata ed invocando la condanna della convenuta stessa ad arretrare il suo immobile sino al rispetto della detta distanza minima. Si costituiva in giudizio la Prandini S.n.c. contestando la domanda ed allegando che l’intervento realizzato non costituiva nuova edificazione, ma semplice ristrutturazione di un precedente edificio.

Con sentenza n. 290/2009 il Tribunale accoglieva la domanda, ordinando l’arretramento del fabbricato eretto dalla convenuta sino al rispetto della distanza minima di dieci metri dalla parete finestrata frontistante. Il giudice di prima istanza configurava in particolare come nuova costruzione l’intervento di demolizione e ricostruzione di preesistente fabbricato realizzato dalla società convenuta, sul presupposto che esso come accertato dal CTU- avesse comportato la modifica della superficie di ingombro del manufatto.

Interponeva appello Prandini S.n.c. e si costituiva in seconde cure la B., resistendo al gravame.

Con la sentenza impugnata, n. 1360/2015, la Corte di Appello di Genova rigettava l’impugnazione.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione P.A. di P.A. e M. S.n.c., affidandosi a quattro motivi.

Resiste con controricorso B.G..

Ambo le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello non avrebbe considerato l’eccezione di carenza della prova della legittimazione attiva della B., che la società ricorrente aveva sollevato in sede di discussione orale della causa innanzi il Tribunale. Ad avviso della ricorrente, infatti, la B. non avrebbe fornito idonea prova di essere la proprietaria di un immobile posto nell’edificio prospiciente a quello eretto da Prandini S.n.c..

La censura è infondata.

La Corte di Appello dà atto che la società ricorrente aveva definito l’attrice “condomina” del fabbricato prospiciente quello di cui è causa (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata) ed aveva sollevato l’eccezione non in prima difesa, ma solo in fase di discussione orale della causa in prime cure (cfr. pag. 3 della sentenza).

Secondo quanto affermato da questa Corte “La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14468 del 30/05/2008, Rv. 603170; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24791 del 08/10/2008, Rv. 605178). Ne consegue che quando, come nel caso di specie, la parti contesti la titolarità della condizione soggettiva – nelle specie, costituita della titolarità del diritto di proprietà- che costituisce il presupposto della domanda proposta, “… l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo… al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, per farla valere proficuamente, deve essere tempestivamente formulata” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11284 del 10/05/2010, Rv. 613149; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14177 del 27/06/2011, Rv. 618438).

Da quanto precede deriva che la Prandini S.n.c., aveva l’onere di sollevare tempestivamente l’eccezione di mancata dimostrazione, da parte della B., del diritto di proprietà dell’immobile frontistante quello demolito e ricostruito dalla società odierna ricorrente. Nel caso di specie, non soltanto detto onere non risulta osservato, ma -anzi- vi è prova del fatto che l’originaria convenuta aveva, nelle sue difese in prime cure, espressamente riconosciuto che la B. fosse “condomina” dell’edificio frontistante il proprio. Poiché la condizione di con-dominio implica un diritto di proprietà sulle parti comuni dell’edificio, la titolarità del diritto costituente il presupposto della domanda proposta dalla B. era stata esplicitamente riconosciuta dalla società odierna ricorrente.

Con il secondo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto prevalente detta disposizione rispetto allo strumento urbanistico locale (che invece, nello specifico, ammetteva la realizzazione di interventi di demolizione e ricostruzione senza onere di rispetto della distanza minima di cui al D.M. n. 1444). Ad avviso della ricorrente, infatti, tanto la normativa locale, che il D.M. n. 1444, costituiscono fonti secondarie, integrative della disciplina legale in tema di distanze prevista dal codice civile, e non si applicano direttamente ai rapporti tra i privati; pertanto, in nessun caso avrebbe dovuto essere riconosciuto il diritto della B. di pretendere ed ottenere l’arretramento del fabbricato eretto da Prandini S.n.c..

La censura è infondata.

Questa Corte ha ritenuto che le norme dettate dal D.M. n. 1444 del 1968 stabiliscono criteri generali sulla densità, altezza e distanza tra i fabbricati, che non sono derogabili dai regolamenti locali. In applicazione di detto principio, è stata ritenuta “… illegittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi; il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, detta, infatti, disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5017 del 02/03/2018, Rv. 647646).

Va dunque ribadito il principio, cui il collegio ritiene di dare continuità, secondo cui “In tema di distanze tra costruzioni, del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies (c. d. legge urbanistica), aggiunto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949, la quale ha disapplicato la norma delle disposizioni di attuazione al P.R.G. del Comune di Viareggio, che imponeva il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi).

La deroga è ammessa solo qualora il regolamento locale “… faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di determinate zone, poiché la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27638 del 30/10/2018, Rv. 651174; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 26518 del 19/10/2018, Rv. 650785).

Detta ipotesi, tuttavia, non ricorre nel caso di specie, non avendo il ricorrente allegato o dedotto che la demolizione e ricostruzione oggetto di causa rientrava nell’ambito di un più ampio intervento di sistemazione del territorio comunale, oggetto di specifica pianificazione.

Con il terzo motivo, la società ricorrente lamenta l’ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto applicabile detta disposizione all’intervento edilizio oggetto di causa, che -ad avviso della Prandini S.n.c.- non costituiva nuova costruzione, ma semplice intervento di ristrutturazione sostitutiva di precedente edificio.

La censura è infondata.

La Corte di Appello ha ritenuto, all’esito di accertamento di fatto, in sé insindacabile in questa sede, che l’intervento realizzato dalla Prandini S.n.c. costituisse nuova costruzione, posto che esso, come accertato anche dalla C.T.U. esperita in prime cure “… non solo ha comportato… la realizzazione di un edificio con maggiore volumetria ed altezza rispetto a quello demolito, ma pure una sua parzialmente diversa collocazione più avanzata verso il fabbricato dell’attrice” (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). La conferma di quanto asserito dalla Corte di merito, del resto, emerge dalla stessa lettura del ricorso, che a pag. 4 dà atto delle risultanze della C.T.U. esperita nel primo grado del giudizio di merito, “… da/la quale emergeva che le distanze tra i fabbricati in questione, precedentemente all’intervento di demolizione erano “pari ad un minimo di circa ml. 6,57 ed un massimo di circa ml. 8,24”, e che “allo stato attuale le distanze tra i due fabbricati in esame vanno da un minimo pari a circa ml. 5,30 ad un massimo pari a circa ml. 7,62” (p. 13 della C.T.U. in data 16.03.2007, a firma del geom. Riccardo Pigna, contenuta nel fascicolo di primo grado”(cfr. pag. 4 del ricorso).

In argomento, il collegio ritiene di dare continuità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “Nell’ambito delle opere edilizie -anche alla luce dei criteri di cui alla L. 5 agosto 1978, n. 457, art. 31, comma 1, lett. d), la semplice “ristrutturazione” si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la “ricostruzione” allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima” (Cass. Sez. U, Ordinanza n. 21578 del 19/10/2011, Rv. 619608; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15041 del 11/06/2018, Rv. 649068 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 28612 del 15/12/2020, Rv. 659841).

Nel caso specifico, poiché l’edificio ricostruito da Prandini S.n.c. era solo in parte corrispondente a quello preesistente, ma era più ampio ed aveva una diversa collocazione, la sua qualificazione in termini di nuova costruzione appare corretta.

Con il quarto ed ultimo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 2 bis e la L.R. Liguria n. 36 del 1997, art. 29 quinquies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte genovese avrebbe dovuto applicare alla fattispecie lo ius superveniens che ha previsto la possibilità di derogare alla normativa in tema di distanze minime non soltanto in relazione agli interventi di sostituzione e ristrutturazione edilizia, ma anche in caso di ampliamento di preesistenti edifici che implichi una nuova costruzione.

La censura è infondata.

Va premesso che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 2 bis, comma 1, ha previsto che “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. In attuazione di detta disposizione, la Regione Liguria ha emanato la L.R. 2 aprile 2015, n. 11, il cui art. 34 ha introdotto la L.R. 4 settembre 1997, n. 36, art. 29 quinquies. Detta norma prevede che “In attuazione del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 2 bis (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e successive modificazioni e integrazioni ed in attesa dell’emanazione del regolamento regionale di cui all’art. 34, comma 3, il PUC, per promuovere la riqualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente nelle aree urbane mediante interventi di sostituzione edilizia, di ristrutturazione urbanistica e di ampliamento di edifici concretanti nuova costruzione, può prevedere:

a) premialità costituite da quote percentuali di incremento del volume geometrico di edifici o complessi di edifici, utilizzabili senza applicazione dell’indice di utilizzazione insediativa previsto dal PUC, ma con osservanza degli altri parametri urbanistici, da individuare e quantificare nel rispetto dei caratteri storico-culturali e paesaggistici degli immobili, che siano oggetto di interventi di riqualificazione edilizia, urbanistica ed ambientale. Tali premialità sono stabilite dal PUC in misura percentuale rispetto al volume geometrico degli edifici o del complesso di edifici esistenti oggetto di riqualificazione;

b) distanze tra fabbricati inferiori alla distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti che siano idonee ad assicurare un equilibrato assetto urbanistico e paesaggistico in relazione alle tipologie degli interventi consentiti e tenuto conto degli specifici caratteri dei luoghi e dell’allineamento degli immobili già esistenti, fermo restando comunque il rispetto delle norme del codice civile e dei vincoli di interesse culturale e paesaggistico”.

Detta normativa costituisce certamente ius superveniens, astrattamente applicabile al caso di specie. Tuttavia l’astratta configurabilità di uno ius superveniens non dimostra l’erroneità automatica della decisione adottata dal giudice di merito sulla base del previgente assetto normativo, in mancanza della specifica deduzione dell’applicabilità, in concreto, della norma sopravvenuta (cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19286 del 16/09/2020, Rv. 658994; Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 29046 del 11/11/2019, Rv. 656117, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20141 del 07/10/2016, Rv. 641301 e Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9129 del 19/04/2006, Rv. 588847, tutte relative alla successione di norme in tema di sanzioni tributarie).

Nel caso di specie, occorre considerare che il D.P.R. n. 380 del 2011, art. 2 bis, comma 1 ter, aggiunto dalla L. n. 55 del 2019, art. 5, comma 1, e successivamente sostituito dalla L. n. 120 del 2020, art. 10, comma 1, lett. a), prevede che “In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione è comunque consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Nelle zone zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela”. Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 2 bis, pertanto, non prevede affatto una derogabilità generale, e indiscriminata, delle disposizioni, a contenuto generale, di cui al D.M. n. 1444 del 1968; al contrario, la norma prevede espressamente che debbano essere rispettate, nella ricostruzione dell’edificio demolito, le “distanze legittimamente preesistenti” e che i nuovi volumi eventualmente previsti nell’ambito dell’intervento di sostituzione edilizia, ancorché eseguiti “con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito” debbano comunque rientrare “… sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti”. Dette distanze, nel caso di specie, non sono state rispettate, come dimostrato dal richiamo delle conclusioni del C.T.U. contenuto a pag. 4 del ricorso, già in precedenza richiamato: l’ausiliario, infatti, ha evidenziato che l’edificio è stato ricostruito da Prandini S.n.c. ad una distanza dall’immobile della B. diversa, ed inferiore, rispetto a quella preesistente alla demolizione del vecchio manufatto.

Del resto, anche la L.R. Liguria n. 37 del 1997, art. 29 quinquies, come modificata per effetto della successiva L.R. n. 11 del 2015, nel prevedere la possibilità, in astratto, di derogare alle norme in materia di distanze di cui al D. M. n. 1444 del 1968, subordina detta eventualità, in concreto, alla ricorrenza di specifiche condizioni: in particolare, al fatto che (cfr. lettera b) le distanze tra fabbricati inferiori a quella di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti “… siano idonee ad assicurare un equilibrato assetto urbanistico e paesaggistico in relazione alle tipologie degli interventi consentiti e tenuto conto degli specifici caratteri dei luoghi e dell’allineamento degli immobili già esistenti, fermo restando comunque il rispetto delle norme del codice civile e dei vincoli di interesse culturale e paesaggistico”.

Era dunque onere della società ricorrente dimostrare che, in concreto, sussistessero tutti i requisiti previsti, tanto dalla normativa statale, che da quella regionale, per l’applicabilità in concreto, al caso di specie, di una normativa diversa, e più favorevole, da quella prevista, in termini generali, dal D.M. n. 1444 del 1968. In difetto di tale specifica dimostrazione, non è possibile configurare alcun profilo di automatica applicazione dello ius superveniens, non avendo -appunto- la parte che vi aveva interesse assolto all’onere di dimostrare l’applicabilità in concreto della normativa di maggior favore.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità, regolate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in misura del 15h, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2021

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