LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 35456-2019 proposto da:
J.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA MAZZINI, 8, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE FACHILE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO VERRASTRO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO PROTZIONE INTERNAZIONALE MILANO;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1655/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.
RILEVATO
che:
1. J.A., cittadino del *****, propone tre motivi di ricorso, notificato il 15 novembre 2019, nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso la sentenza n. 1655/2019 della Corte d’Appello di Milano, pubblicata in data 15.4.2019, non notificata.
2. Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.
3. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.
4. La domanda del ricorrente, volta al riconoscimento, in via gradata, di tutte le forme di protezione internazionale, veniva rigettata in primo grado con sentenza confermata in appello nonostante lo stesso segnalasse la sua storia personale come particolarmente drammatica, avendo dovuto lasciare il paese di origine ancora minorenne, a causa degli abusi sessuali subiti dallo zio, con il quale si era risposata la madre alla morte del padre.
5. Il ricorrente riporta la sua vicenda personale nel ricorso: rimasta vedova, la madre con due figli piccoli sposava il cognato in ossequio alla legge coranica; questi maltrattava sia lei che i due bambini; successivamente, il marito della madre apriva un ristorante dove la madre doveva lavorare tutto il giorno mentre il ricorrente rimaneva a casa, ove lo zio, approfittando dell’assenza della madre, iniziava ad approfittare di lui da quando diventava adolescente. La situazione si protraeva per circa un anno finché un giorno, all’ennesima richiesta, scoppiava un violento alterco a seguito del quale colpiva lo zio con una bottiglia di vetro, rimaneva a sua volta ferito e fuggiva; fuggiva chiedendo aiuto ad un uomo, che invece lo consegnava ai trafficanti che lo conducevano in Libia, ove rimaneva imprigionato finché non riusciva a fuggire, atteso che non ardiva contattare i suoi familiari per chiedere il denaro per il riscatto data la situazione pregressa. Aggiungeva che in patria, oltre agli abusi sessuali subiti in ambito familiare, veniva ripetutamente discriminato per ragioni religiose, sia a scuola che all’interno della comunità, in quanto il padre era cristiano e la madre musulmana, e lui frequentava la Chiesa e al tempo stesso studiava il Corano.
6. Sostiene poi di essersi perfettamente integrato in Italia, fino a fungere da interprete per altri richiedenti asilo in varie lingue della sua zona di provenienza, di aver intrapreso una attività lavorativa regolarmente contrattualizzata presso una società operante nel settore dei servizi, e di essere stato anche selezionato per un progetto della organizzazione internazionale per le migrazioni OIM.
7. Afferma di aver precisato anche in sede di audizione davanti al tribunale la propria particolare vulnerabilità, legata sia al dover far fronte all’accusa di aver ferito lo zio, sia al fatto che l’aver dovuto subire rapporti sessuali con un uomo, benché egli non fosse consenziente, lo esponeva al rischio di essere a sua volta qualificato come omosessuale e di conseguenza perseguitato nel suo paese di provenienza.
8. La sua domanda veniva invece rigettata, sia in primo grado che in appello, non ritenendo la corte d’appello (che ne rinnovava l’audizione) credibile la sua storia personale, ritenendo che l’isolamento al quale dichiarava di essere sottoposto a scuola da parte dei compagni non integrasse la gravità di un fenomeno persecutorio, e non menzionando affatto nella decisione – nella ricostruzione del ricorrente – la gravissima vicenda di abusi sessuali ai quali era stato sottoposto.
RITENUTO
che:
9. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la mancanza assoluta della motivazione perché la corte d’appello avrebbe affermato di condividere l’affermazione in termini di non credibilità della storia personale del ricorrente, formulata dal giudice di primo grado, senza però motivare sul punto, nonostante lui avesse formulato uno specifico ed accuratamente illustrato motivo d’appello in cui si focalizzava l’attenzione sugli abusi sessuali subiti.
La decisione impugnata, nel ritenere il ricorrente non credibile, non avrebbe inoltre tenuto in conto gli indici normativi, dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, che consentono, ove rispettati, nel valutare l’attendibilità complessiva del racconto, di ritenere credibili anche narrazioni che presentino qualche elemento discordante.
10. Con il secondo motivo di ricorso, denuncia la violazione di legge, in riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8.
Afferma che la sentenza debba essere cassata laddove, omesso l’interrogatorio personale del ricorrente sui fatti posti a fondamento della sua domanda, la corte d’appello ha tuttavia ritenuto non credibile il suo racconto.
Il giudizio di non credibilità espresso dalla corte d’appello contrasterebbe in primo luogo con l’onere di cooperazione istruttoria che grava sul giudicante, in quanto i giudici, senza ritenere necessario, a chiarimento dei punti dubbi, l’ascolto diretto del ricorrente, lo avrebbero ritenuto poco credibile, sui motivi che lo avevano determinato all’abbandono del paese, per loro valutazioni preconcette.
Non avrebbero tenuto conto, inoltre, del fatto che nella fattispecie fossero presenti tutti gli indici di credibilità richiamati dalla norma.
11. Con il terzo motivo denunzia la violazione del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, nonché D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, l’omessa valutazione della situazione generale esistente nel paese di origine del ricorrente, e dei rischi ai quali si esporrebbe in caso di rimpatrio in riferimento specifico al rischio di essere esposto ad accuse di omosessualità.
12. Il primo motivo è fondato, ed il suo accoglimento assorbe i successivi.
13. La sentenza è caratterizzata da una motivazione assolutamente superficiale ed incongrua, fino alla sostanziale inesistenza, in riferimento al profilo della rilevanza degli abusi sessuali che il ricorrente allega di aver subito.
14. Il racconto personale del ricorrente, che la sentenza puntualmente riporta, si dipana lungo due diverse direttrici. La prima è quella del timore di rientrare in patria per le vessazioni sessuali subite, dove le molestie sessuali inflittegli dal patrigno rilevano sia come causa scatenante dell’allontanamento, per sottrarsi appunto alle incalzanti insidie sessuali di questa persona, che viveva con lui, avendo sposato la madre rimasta vedova, sia come condizione ostativa al rientro, manifestando il ricorrente il timore che l’essere stato vittima di abusi sessuali potesse, in un paese in cui il diritto alla identità sessuale della persona non è riconosciuto e tutelato, ed in cui, al contrario, l’omosessualità è perseguita come reato, ridondare a suo carico come fonte di un’accusa di omosessualità benché lui fosse la vittima di pratiche sessuali non liberamente scelte.
15. La seconda direttrice è il timore di poter essere sottoposto a persecuzioni per ragioni religiose, provenendo da una famiglia in cui uno dei genitori era di fede cristiana e l’altro di fede musulmana, ed avendo a sua volta frequentato al contempo sia la chiesa che la scuola coranica. Su quest’ultimo punto la motivazione si può ritenere sufficiente a far comprendere la linea decisionale condotta, laddove esamina gli episodi riferiti dal ricorrente e li ridimensiona nella loro rilevanza, osservando che mancano in concreto condotte a suo danno per ragioni religiose.
16. Non altrettanto può ritenersi per quanto concerne il profilo del rischio di essere sottoposto a persecuzioni o a trattamenti inumani o degradanti per ragioni sessuali, in quanto tutta questa parte della vicenda personale del ricorrente viene semplicemente definita priva di verosimiglianza, senza considerare e confutare né i dettagli della narrazione – in particolare, la giovane età del ricorrente, appena adolescente, quando aveva cominciato a subire gli abusi sessuali dello zio, elemento che di per sé potrebbe spiegare la mancanza del coraggio di denunciare i fatti alla polizia, per timore di contrapporsi al capo della sua famiglia con il suo solo racconto.
17. Ne’ è minimamente considerato o approfondito il profilo pubblicistico della vicenda, ovvero la rilevanza penale nel paese di pratiche omosessualli, che avrebbe dovuto essere verificata attivando la necessaria cooperazione istruttoria, al fine di verificare l’attendibilità del racconto sul secondo profilo di rischio evidenziato, ovvero che la denuncia avrebbe potuto esporre il ricorrente, oltre al rischio di non essere creduto, oltre ad inimicarsi il capo della sua famiglia e di riflesso la famiglia intera, anche al rischio di un’azione penale nei suoi confronti ove la semplice denuncia di essere stato seppur contro la sua volontà- coinvolto in condotte omosessuali – potesse esporlo ad essere perseguito come omosessuale, per il ribaltamento sulla vittima della accusa di omosessualità esistente nei paesi ove è più intensa la persecuzione dell’omosessualità.
Il primo motivo va quindi accolto, gli altri rimangono assorbiti, la sentenza è cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
PQM
La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione anche per le spese dell’odierno giudizio.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 2 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2021