LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18999-2017 proposto da:
P.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMILIO DE’
CAVALIERI 11, presso lo studio dell’avvocato PIERFRANCESCO ZECCA, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
contro
CURATELA DEL FALLIMENTO ***** S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona dei curatori pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GHERA, rappresentata e difesa dagli avvocati ANTONIO DE FEO, DOMENICO GAROFALO;
– controricorrente –
***** S.R.L. IN CONCORDATO PREVENTIVO, in persona dei Commissari Liquidatori pro tempore, ***** S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GHERA, rappresentate e difese dagli avvocati ANTONIO DE FEO, DOMENICO GAROFALO;
– controricorrenti – ricorrente incidentale –
contro
P.D.;
– ricorrente principale – controricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2903/2016 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 27/01/2017 R.G.N. 890/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/02/2021 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento del ricorso incidentale;
udito l’Avvocato PIERFRANCESCO ZECCA;
udito l’Avvocato FRANCESCO GHERA per delega verbale Avvocato DOMENICO GAROFALO.
1. Con sentenza del 27 gennaio 2017, la Corte d’appello di Bari condannava ***** s.r.l. in liquidazione in concordato preventivo al pagamento, in favore di P.D., della somma di Euro 300.000,00 a titolo di fee d’ingresso, oltre accessori e rigettava la domanda del secondo di condanna della prima al pagamento di Euro 21.597,63 per indennità di ferie non godute: così riformando, in accoglimento dell’appello principale di P. e incidentale della società, la sentenza di primo grado, di condanna di questa (opponente avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dal suo direttore generale, per il periodo dal 1 dicembre 2007 – 28 maggio 2010, data di dimissioni) al pagamento della somma di Euro 21.597,63 per ferie non godute (previa revoca del decreto opposto, recante anche ingiunzione alla corresponsione del compenso di amministratore delegato e di fee di ingresso), nonché di reiezione della domanda (proposta con giudizio ordinario riunito a quello di opposizione a decreto ingiuntivo) di condanna della società al pagamento della somma di Euro 3.200.000,00 per indennità sostitutiva di mancato preavviso, cui invece condannava il lavoratore dimissionario, in accoglimento della domanda riconvenzionale di ***** s.r.l. per mancanza di giusta causa, in misura di Euro 108.846,15.
2. Quanto al compenso (aggiuntivo) di amministratore delegato, remunerante un rapporto di immedesimazione organica nella società e non di lavoro, la Corte territoriale ribadiva la competenza del giudice ordinario nella cognizione specializzata in materia di impresa e non del lavoro adito (pure in via monitoria, che aveva limitato la propria cognizione alla sola revoca del decreto ingiuntivo, neppure potendo convertire il rito in ordinario).
3. Essa parimenti escludeva che l’inadempimento datoriale di mancata corresponsione del fee d’ingresso integrasse giusta causa di recesso del dirigente: avendone questo richiesto il pagamento, a fronte della maturazione dal novembre 2007, soltanto il 13 maggio 2010 (nell’immediata prossimità delle dimissioni rassegnate il 28 maggio 2010), rendendo evidente come la circostanza non rendesse improseguibile il rapporto tra le parti. La Corte d’appello ne riteneva invece, contrariamente al Tribunale, la competenza del giudice adito e, anche interpretando il contratto tra le parti, lo qualificava elemento retributivo (una tantum) collegato al rapporto di lavoro e non a quello di amministrazione: così liquidandolo nella misura stabilita tra le stesse.
4. La Corte capitolina negava poi la compensabilità, sia pure impropria, delle reciproche partite creditorie e debitorie (fee d’ingresso del dirigente, indennità sostitutiva di mancato preavviso della società), non già per la mancanza di autonomia (radicandosi entrambe nel rapporto di lavoro), ma per la diversa esigibilità.
5. Infine, essa rigettava la domanda di indennità sostitutiva delle ferie non godute, in difetto di prova del dirigente apicale di non averne fruito per esigenze aziendali pregiudicanti il suo potere di autoregolamentazione.
4. Con atto notificato il 25 luglio 2017, P.D. ricorreva per cassazione con due motivi, cui la società in concordato preventivo resisteva con controricorso, contenente ricorso incidentale con unico motivo, cui il primo replicava con controricorso. La curatela del Fallimento ***** s.r.l. in liquidazione, in persona dei due professionisti già commissari liquidatori del concordato preventivo, interveniva con atto a ministero dei medesimi difensori di identico tenore al controricorso della precedente procedura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 112,115 c.p.c., 1322, 1632, 1363, 1370 c.c. e vizio motivo, per erroneo frazionamento dell’unica prestazione concordata tra le parti, con la lettera di “Assunzione in servizio” del 12 novembre 2007, di dirigente e di amministratore: la seconda essendo derivata dalla prima e a questa connessa; sicché, doveva ritenersi arbitraria la sua interpretazione di “estrinsecità”, in luogo della convenuta “intrinsecità”, nell’alveo di una unitarietà nella “negoziata condizione di subordinazione”, remunerata da una retribuzione secondo l’accezione ampia dell’art. 2099 c.c., “senza diversificazioni di qualificazione legate alle modalità di commisurazione”, con omesso esame del testo della lettera quale fatto decisivo.
2. Esso è inammissibile.
3. La doglianza consiste nella contestazione di un’interpretazione, riservata esclusivamente al giudice di merito, neppure censurata con indicazione dei canoni interpretativi violati né tanto meno di specificazione delle ragioni né del modo in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione (Cass. 14 giugno 2006, n. 13717; Cass. 21 giugno 2017, n. 15350), assolutamente plausibile (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 3 settembre 2010, n. 19044), in esito ad un’attenta e critica lettura del testo contrattuale sottoscritto tra le parti ed in particolare delle clausole sub lett. e) (compensi di amministratore) e lett. d) (trattamento economico individuale annuo), rispettosa del “chiaro tenore letterale” e pertanto del criterio ermeneutico, che deve prevalere, quando riveli con chiarezza e univocità la volontà comune delle parti, sicché non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti (Cass. 28 agosto 2007, n. 18180; Cass. 21 agosto 2013, n. 19357; Cass. 4 maggio 2017, n. 10850): e ciò con argomentazione congrua (per le ragioni esposte al secondo capoverso di pg. 3 della sentenza), cui il ricorrente ha opposto un’interpretazione propria a quella della Corte territoriale (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254), così censurando il risultato interpretativo in sé (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891), insindacabile in sede di legittimità:
3.1. Non si configura poi il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, dovendo esso (pure compiuto, come illustrato) avere ad oggetto esclusivamente un fatto storico e non un documento, come la lettera di assunzione in questione, posto che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415).
4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 112,115 c.p.c., artt. 1322,1632,1363,1370,2119 c.c. e vizio motivo, per erronea esclusione della giusta causa di recesso del dirigente nell’artificiosa disaggregazione di “una medesima realtà (un rapporto subordinato, un contratto solo, una pluralità di mansioni nell’ambito di quel rapporto… un unico e classico paradigma di prestazione lavorativa contro denaro)”, con espunzione dalla domanda di compensi per lavoro subordinato della richiesta di fee non pagato, con “uno svuotamento del principio di gravità dell’inadempimento datoriale” tale da indurre il dirigente alle dimissioni da un rapporto “rivelatosi ormai insostenibile”.
5. Anch’esso è inammissibile.
6. In via di premessa, occorre ribadire l’inconfigurabilità della violazione dell’art. 2119 c.c., nella quale la censura si sostanzia, non essendo qui posta una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale di giusta causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 2 settembre 2016, n. 17539): potendo la Corte di cassazione sindacare soltanto l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 10 luglio 2018, n. 18170).
6.1. La Corte territoriale ha esattamente applicato il principio di diritto di corrispondenza della giusta causa di recesso all’improseguibilità del rapporto di lavoro, in dipendenza di un inadempimento di gravità tale da comportare (neppure, tra l’altro, essendo stata ben compresa la riconduzione dalla Corte barese del “preteso Fee di ingresso” nella “tipicità del sinallagma contrattuale costituito in forza del rapporto di lavoro dipendente”, dal quale invece il Tribunale ha operato una “ingiustificata estromissione”: così dal settimo al nono alinea del terzo capoverso di pg. 4 della sentenza).
6.2. In ipotesi di dimissioni del lavoratore per giusta causa, giova infine ribadire che la valutazione della gravità dell’inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi contrattuali sia rimessa al sindacato del giudice del merito, censurabile in sede di legittimità unicamente per vizi di motivazione (Cass. 11 febbraio 2000, n. 1542; Cass. 18 ottobre 2002, n. 14829; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2293): tanto più circoscritto nel regime del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, preclusivo nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439). Sicché, il vizio qui non ricorre, per la congruità del ragionamento argomentativo (agli ultimi due capoversi di pg. 4 della sentenza).
7. Con unico motivo, a propria volta la controricorrente deduce, in via di ricorso incidentale, violazione degli artt. 1241,1242,1246,1753 e 1751 c.c., per la mancata applicazione della compensazione cd. atecnica, in quanto relativa al medesimo rapporto di lavoro (ancorché uno di natura retributiva, quale il fee d’ingresso ed uno di natura risarcitoria, quale l’indennità sostituiva di mancato preavviso), in quanto entrambi liquidi o comunque di pronta liquidazione, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale.
8. Esso è infondato.
9. La cd. compensazione impropria o atecnica è ammissibile, a condizione che il controcredito sia certo e liquido secondo la valutazione dei giudici di merito, che la possono disporre solo se il credito illiquido opposto in compensazione sia di pronta e facile liquidazione; peraltro ribadito che la verifica della sussistenza di tale requisito si risolve in una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata (Cass. 26 settembre 2005, n. 18775; Cass. 15 ottobre 2009, n. 21923; Cass. 3 novembre 2020, n. 24325, con specifico riferimento al credito dell’agricoltore a titolo di contributi dell’Unione Europea conseguenti alla Politica agricola comune e i debiti dello stesso per prelievo supplementare relativo alle quote latte): e pertanto, nei limiti più circoscritti del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rispettati nel caso di specie dalla Corte territoriale (per le ragioni esposte al primo periodo di pg. 7 della sentenza). Sicché, il suo accertamento è insindacabile.
7. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’inammissibilità del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale, con la compensazione delle spese del giudizio tra le parti e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535), per entrambe le parti.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; compensa interamente le spese del giudizio tra le parti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2021
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