Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.22397 del 05/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna R. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

F.L., elettivamente domiciliato in Maglie, Corso Cavour, n. 38, presso lo studio dell’avv. Sergio Santese, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 29/3/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12/2020 dal Cons. Dott. PACILLI GIUSEPPINA ANNA ROSARIA.

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 29 marzo 2019 il Tribunale di Lecce ha respinto la domanda di F.L., nativo del *****, volta al riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria.

Il richiedente ha dichiarato di avere lasciato il suo Paese perché aveva paura di essere picchiato da suo zio, che era diventato il marito di sua madre e che lo aveva costretto a frequentare una scuola coranica, che egli invece non aveva seguito.

In estrema sintesi, il Tribunale pugliese ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato in favore del richiedente, non integralmente credibili le sue dichiarazioni e, comunque, i motivi, addotti a sostegno delle sue richieste, inidonei a consentirne l’accoglimento.

Avverso il descritto decreto F.L. ricorre per cassazione affidandosi a tre motivi, mentre il Ministero dell’Interno non ha spiegato difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, , D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e dell’art. 4, comma 3 direttiva 2004/83/CE. Secondo il ricorrente, il tribunale avrebbe violato l’obbligo di attivare i suoi poteri officiosi, che gli imponevano di cooperare nell’accertamento delle condizioni richieste per l’accoglimento della domanda di protezione internazionale;

II) violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. g), nonché art. 14 e vizi della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria. Il tribunale avrebbe erroneamente ritenuto non attendibile il ricorrente e non avrebbe fatto riferimento concreto alla situazione del suo paese di origine;

III) violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e vizi della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della protezione umanitaria.

Premesso che il requisito della vulnerabilità può ravvisarsi anche laddove si possa presumere che, se costretto a far rientro nel suo paese, lo straniero vedrebbe compromessi la sua dignità e il suo diritto a un’esistenza libera e dignitosa, il ricorrente ha affermato che il tribunale non avrebbe spiegato le ragioni per cui il richiedente, ove fosse rimpatriato, non correrebbe il rischio di subire torture o altre forme di trattamenti inumani o degradanti ovvero di correre un pericolo di vita o incolumità fisica; il medesimo tribunale, poi, non avrebbe addotto alcuna motivazione sull’integrazione raggiunta in Italia e sulle condizioni in cui verrebbe a trovarsi in caso di rientro.

2. Il primo motivo è inammissibile.

Il tribunale pugliese, dopo aver delineato il quadro legislativo regolante il riconoscimento dello status di rifugiato, correttamente richiamando, in proposito, l’art. 10 Cost., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. e) ed I ed art. 11 (attuativo della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. n. 722 del 1954) e le direttive comunitarie in materia (tra cui quella n. 2004/83), ed aver specificamente indicato quali sono, alla stregua dell’art. 5 citato D.Lgs., i soggetti da cui dovrebbero provenire le persecuzioni di cui al menzionato art. 2, ha osservato che “i fatti narrati dal richiedente, pur attenendo in astratto a persecuzioni per motivi di appartenenza ad un gruppo sociale, non possono considerarsi veritieri…e pertanto non sono idonei ad integrare gli estremi per il riconoscimento dello status di rifugiato”.

Quest’ultimo, come innanzi ricordato, ha assunto di avere lasciato il suo Paese perché aveva paura di essere picchiato da suo zio, che era diventato il marito di sua madre e che lo aveva costretto a frequentare una scuola coranica, che egli invece non aveva seguito.

Il tribunale pugliese ha ritenuto poco credibile il racconto del richiedente, in quanto intriso di contraddizioni e di elementi vaghi e generici.

A fronte di siffatte argomentazioni deve ricordarsi che questa Corte ha già affermato che la valutazione del giudice in merito al riconoscimento della protezione internazionale o umanitaria deve prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova (perché non reperibile o non richiedibile), della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perché il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria, addotta nel Paese di origine (Cass. 16925/2018; Cass. 5224/2013). Infatti, le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 7333/2015).

Nella specie, il tribunale pugliese ha espresso un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente in maniera del tutto conforme ai parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5. Si tratta di un accertamento di fatto che, come già puntualizzato da questa Corte (cfr. Cass. n. 387 del 2019, in motivazione; Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 4455 del 2018, parag. 7; Cass. n. 27438 del 2016; Cass. n. 21668 del 2015), non può essere messo in discussione con il ricorso per cassazione, se non denunciando, ove ne ricorrano i presupposti, il vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, che, nella specie, non è stato censurato.

3. Il secondo motivo è inammissibile.

Il giudice di merito ha ritenuto non attendibile il racconto del ricorrente, “intriso di contraddizioni e di elementi vaghi e generici”. Al riguardo deve ribadirsi quanto già esposto al p. 2 in ordine alla ritenuta mancanza di attendibilità delle dichiarazioni del richiedente a proposito dei fatti da lui narrati, con la conseguente inaccoglibilità dell’istanza di protezione, non sussistendo elementi sui quali concretamente basare una decisione in senso positivo.

Quanto al riconoscimento del diritto aula protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c, il tribunale leccese – con indicazione delle fonti di conoscenza – ha rilevato che nel paese del richiedente non si riscontrano conflittualità tali da giustificare la concessione della protezione sussidiaria.

Questo accertamento costituisce un’indagine di fatto che può esser censurata in sede di legittimità nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: il che non è stato fatto, sicché l’odierna doglianza deve reputarsi come semplicemente finalizzata a sovvertirne l’esito.

4. Anche il terzo motivo, relativo al mancato accoglimento dell’istanza di protezione umanitaria, è inammissibile.

Il tribunale leccese, con incensurabile apprezzamento di fatto, ha spiegato le ragioni per le quali non ha riscontrato l’esistenza di condizioni di vulnerabilità idonee a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, avendo rimarcato, conclusivamente, che il richiedente non aveva dedotto alcuna ragione specifica di vulnerabilità a sé riferibile e non aveva avviato un percorso di integrazione in Italia.

E’ evidente, dunque, che il motivo in scrutinio si sostanzia in una mera prospettazione di merito, come tale inammissibile.

5. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, in assenza di costituzione del Ministero.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di legittimità. Sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo, così come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile della Corte Suprema di cassazione, il 18 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2021

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