LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20918-2015 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
M.S.;
– intimata –
avverso l’ordinanza definitiva della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE, depositata il 30/06/2015 R.G.N. 341/2014;
– avverso la sentenza definitiva n. 701/2013 del TRIBUNALE di LIVORNO, depositata il 14/10/2013 R.G.N. 629/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/12/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MUCCI ROBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. M.S., dipendente di Poste Italiane s.p.a., ha adito il giudice del lavoro chiedendo accertarsi la illegittimità della trattenuta corrispondente alla quota parte contributiva a carico del lavoratore, operata da Poste Italiane s.p.a. all’atto del pagamento delle retribuzioni arretrate, pagamento al quale la società datrice di lavoro era stata condannata in conseguenza della declaratoria di illegittimità del termine al contratto stipulato con la M..
2. Il giudice di primo grado ha accolto la domanda condannando Poste Italiane s.p.a. alla restituzione in favore della ricorrente delle somme trattenute a titolo di quota contributiva a carico della lavoratrice per un importo pari a Euro 11.640,81, oltre accessori come per legge.
2.1. La statuizione di condanna è stata fondata sulla esclusiva responsabilità datoriale, ai sensi del L. n. 218 del 1952, art. 23, per l’ipotesi di omesso pagamento o pagamento tardivo dei contributi da parte del datore di lavoro, con esclusione del diritto di rivalsa per la quota a carico del lavoratore; l’accordo del 10.7.2008 intervenuto tra le parti contenente la espressa generale rinunzia della lavoratrice ad ogni altro diritto, credito e/o pretesa nei confronti della società Poste Italiane non privava di fondamento la pretesa azionata.
3. Con ordinanza ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. la Corte di appello di Firenze ha dichiarato inammissibile l’impugnazione della società avverso la decisione di primo grado.
4. Per la cassazione della sentenza di primo grado nonché dell’ordinanza di inammissibilità della Corte di appello ha proposto ricorso Poste Italiane s.p.a. sulla base di due motivi; la parte intimata non ha svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso Poste Italiane s.p.a. deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e degli artt. 1965, 1969 e 1976 c.p.c. censurando la sentenza di primo grado per avere respinto la eccezione di difetto di interesse ad agire della originaria ricorrente determinato dall’intercorso accordo conciliativo con Poste; secondo quanto dedotto con la memoria di primo grado tale accordo conteneva la espressa rinunzia agli effetti giuridici ed economici della sentenza di riammissione in servizio e ad ogni altro diritto, credito e/o pretesa anche di carattere risarcitorio derivante e/o comunque connesso alle modalità e termini di riammissione; tanto precludeva alla lavoratrice la possibilità di rivendicare le somme poi pretese. La dipendente si era obbligata alla restituzione di un determinato importo nelle modalità definite dal piano di rateizzazione nell’ambito di un accordo generale transattivo e novativo; inoltre, al momento della riammissione in servizio l’azienda aveva provveduto a versare all’istituto previdenziale anche la quota parte trattenuta al lavoratore (come desumibile dal CUD).
2. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 11 preleggi nonché della L. n. 218 del 1952, artt. 19 e 23 censurando la interpretazione da parte del giudice di appello del combinato disposto delle previsioni della L. n. 218 del 1952. Osserva che tale normativa era destinata a trovare applicazione ai soli lavoratori iscritti al sistema AGO gestito dall’INPS laddove, a seguito della trasformazione dell’ex Amministrazione P.T. in ente pubblico economico con la L. n. 71 del 1994 le posizioni previdenziali di tutti i dipendenti erano transitate all’IPOST ad eccezione di quelle relative alle risorse a tempo determinate gestite dall’INPS. Dall’anno 2000 anche i contributi previdenziali dei CTD erano passati all’IPOST ad eccezione di quelli relativi alla contribuzione minore/assistenziale;
solo nel maggio 2010 vi era stata, infine,, soppressione dell’IPOST con decorrenza da 1.1.2011. Da tanto derivava che le disposizioni richiamate non erano applicabili ratione temporis alla decisione in esame.
2.1. Il Tribunale aveva inoltre errato nell’escludere l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al datore di lavoro in contrasto con le pronunzie di legittimità che avevano ritenuto non assoggettabile a sanzione contributiva il mancato versamento di contributi riferito a licenziamento poi dichiarato illegittimo.
3. Preliminarmente si rileva che parte ricorrente ha dichiarato di voler impugnare la ordinanza di inammissibilità della Corte di appello laddove questa si era espressa sulla circostanza – ulteriore-sottopostale da Poste Italiane rappresentata dal contenuto del verbale di accordo conciliativo inter partes e dalla previsione ivi contenuta di una somma di esatto importo che la lavoratrice avrebbe dovuto restituire alla società; in tal modo la Corte aveva svolto una motivazione aggiuntiva rispetto a quella formulata in relazione a precedenti controversie richiamate a sostegno della affermata inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. per non avere l’appello una ragionevole probabilità di accoglimento.
3.1. L’affermazione è condivisibile siccome coerente alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in materia di appello, quando il giudice – nel provvedere a norma dell’art. 348 bis c.p.c. – non si limiti a dichiarare l’appello inammissibile, perché lo stesso non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, ma compia anche uno scrutinio sul merito del gravame, assume una decisione che, sebbene rivesta forma di ordinanza, presenta natura di sentenza, sicché è ricorribile per cassazione (Cass. 06/07/2015, n. 13923). Tale situazione si riscontra nel caso specifico posto che la Corte di merito, nel motivare la statuizione di inammissibilità, non si è limitata a richiamare i propri precedenti giurisprudenziali a sostegno della valutazione di non ragionevole probabilità di accoglimento del gravame della società ma si è espressa nel merito di un puntuale rilievo formulato dall’appellante Poste Italiane, relativo alla previsione di restituzione, nell’accordo conciliativo intervenuto tra le parti, di una somma specificamente indicata. In altri termini, la Corte di merito, discostandosi dalla valutazione prognostica di accoglimento o meno del gravame della società si è pronunziata direttamente sulla questione osservando che il riferimento ad una somma determinata quale oggetto della restituzione negoziata nell’ambito dell’accordo conciliativo non era dirimente al fine del rigetto della pretesa della lavoratrice. Accanto alla valutazione complessiva dei motivi di gravame compiuta in funzione della pronuncia di manifesta infondatezza la Corte territoriale ha quindi inteso aggiungere una ulteriore valutazione connessa ad uno specifico rilievo formulato da Poste Italiane s.p.a. e tanto determina, limitatamente alla statuizione sorretta da tale valutazione, la astratta possibilità di un’impugnazione con il ricorso per cassazione.
3.2. Tale impugnazione tuttavia, per il profilo di interesse, pur formalmente enunziata dall’odierna ricorrente non risulta in concreto articolata in termini idonei ad investire le ragioni del decisum di secondo grado posto che dalla illustrazione del primo motivo di ricorso (l’unico incentrato sulla questione del contenuto dell’accordo conciliativo) si evince che le ragioni di critica sono svolte esclusivamente nei confronti della sentenza del Tribunale, l’unica ad essere effettivamente richiamata (v. ricorso, pag. 11, penultimo capoverso e pag. 12, secondo capoverso).
3.3. Tanto determina la inammissibilità del motivo in esame in quanto in ragione della efficacia sostitutiva propria della sentenza di appello le censure formulate con il primo motivo di ricorso dovevano investire le ragioni del decisum del giudice di appello e non quelle alla base della sentenza del Tribunale. In ogni caso, il motivo presenta un ulteriore e più generale profilo di inammissibilità scaturente dalla considerazione che la deduzione di carenza di interesse ad agire della lavoratrice è frutto di una ricostruzione del contenuto dell’accordo conciliativo e dell’ambito della previsione di rinuncia da parte della lavoratrice in esso contenuta, che non corrisponde a quella fatta propria dal giudice di appello e tantomeno dal giudice di primo grado; il relativo accertamento circa il reale significato negoziale dell’accordo in questione, poteva essere incrinato solo dalla deduzione di violazione delle regole legali di interpretazione o dalla deduzione del vizio di motivazione, neppure astrattamente prospettati dalla odierna ricorrente.
4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
4.1. Si premette che è consolidata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, ai sensi della L. n. 218 del 1952, artt. 19 e 23 solo se il datore di lavoro corrisponde tempestivamente all’ente previdenziale la quota retributiva a carico del lavoratore può legittimamente operare la ritenuta, non consentita, invece, in caso di pagamento non tempestivo, con la conseguenza che in detta ipotesi “il credito retributivo si estende automaticamente alla quota contributiva a carico del lavoratore, che diviene perciò parte della retribuzione a lui spettante” (così, in motivazione, Cass. 25956/2017 che richiama Cass. 23426/2016, Cass. 18044/2015 e Cass. 19790/2011).
4.2. In relazione alla specifica questione posta dal motivo in esame, incentrata sull’applicabilità dell’art. 23 cit. ai soli dipendenti iscritti all’AGO, si ritiene di dare continuità all’affermazione di questa Corte secondo la quale il principio sancito dalla L. n. 218 del 1952, art. 23 secondo il quale, in caso di omissione od adempimento tardivo dell’obbligo contributivo da parte del datore di lavoro, quest’ultimo resta tenuto per l’intero, senza diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore per la sua quota, ha carattere generale nell’ordinamento previdenziale in quanto espressione del principio di buona fede e correttezza nell’attuazione del contratto di lavoro (Cass. 18232/201525956/2017Cass. 14317/2016, in motivazione, Cass. 18027/2014 e Cass. 6448/2009 in tema di obbligo contributivo di Poste in relazione a fattispecie relativa a contratto a termine dichiarato illegittimo).
4.3. La censura intesa a contestare la affermazione del Tribunale relativa alla inconfigurabilità di un’impossibilità della prestazione derivante da causa oggettiva non imputabile al datore di lavoro risulta infondata alla luce del condivisibile orientamento di questa Corte secondo la quale in tema di contributi previdenziali, il datore di lavoro che non abbia provveduto ai versamenti dovuti nei termini di legge resta obbligato, ai sensi della L. 4 aprile 1952, n. 218, art. 23 in via esclusiva per l’adempimento, con esclusione del diritto di rivalsa nei confronti del lavoratore per la quota a carico di quest’ultimo e ciò anche nell’ipotesi in cui l’inadempimento sia conseguenza della nullità del termine di durata apposto al contratto di lavoro, non potendosi ravvisare, in tale situazione, una impossibilità della prestazione derivante da causa oggettiva non imputabile allo stesso datore di lavoro (Cass. 18027/2014, Cass. 7934/2009); a diverse conclusioni non può pervenirsi sulla base del precedente di questa Corte rappresentato dalla sentenza n. 6448/2009, che risulta superato da giurisprudenza successiva (ex plurimis Cass. 23181/2013) alle cui condivisibili argomentazioni, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. ci si riporta.
5. Non si fa luogo al regolamento delle spese di lite non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte delitricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 20/09/2019 n. 23535).
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2021