Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.22480 del 06/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.K., elettivamente domiciliato presso l’avvocato Simona Maggiolini dalla quale è rappresentato e difeso, con procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., elett.te domic.

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappres. e difende;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2934/2019 della CORTE D’APPELLO di Bologna, depositata il 21/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/03/2021 dal Cons., Dott. CAIAZZO ROSARIO.

RILEVATO IN FATTO

CHE:

Il Tribunale di Bologna rigettò il ricorso proposto da A.K., cittadino del Pakistan, avverso il provvedimento della Commissione territoriale che aveva negato la protezione internazionale ed umanitaria, ritenendo non attendibile il racconto dell’istante e che i motivi del suo espatrio erano riconducibili a ragioni di carattere economico.

Con sentenza emessa il 21.0.19, la Corte d’appello ha respinto il gravame avverso l’ordinanza emessa da Tribunale osservando che: era da confermare il giudizio di non credibilità delle dichiarazioni del ricorrente poiché piene di incongruenze e contraddizioni (il ricorrente aveva narrato di essere fuggito dal paese a seguito delle aggressioni subite da esponenti di un gruppo partitico, alcuni membri del quale erano stati uccisi da padre, militante in altro partito); pertanto, non erano riconoscibili la protezione internazionale e sussidiaria, né quella umanitaria, non essendo provata l’integrazione sociale in Italia essendo a ciò insufficiente lo svolgimento di attività lavorativa.

A.K. ricorre in cassazione con due motivi.

Il Ministero si è costituito al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

RITENUTO IN DIRITTO

CHE:

Il primo motivo deduce l’omessa pronuncia sui motivi di gravame o l’apparenza della motivazione per violazione del L. n. 241 del 1990, art. 3, e dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, D.Lgs. n. 251, art. 3, artt. 24 e 111 Cost., artt. 6 e 13 Cedu, 47 Carta diritti fondamentali UE, 46 dir. n. 32/13, non avendo la Corte d’appello esplicitato le ragioni della non credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, omettendo di chiedere i dovuti chiarimenti all’istante, specie riguardo alla sua condizione di omosessuale, considerato che l’omosessualità è qualificata come reato in Pakistan. Il secondo motivo denunzia violazione del D.Lgs. n. 25, artt. 8 e 27, D.Lgs. n. 251, art. 14, art. 1 Convenzione di Ginevra del 1951, nonché omesso esame di un fatto decisivo circa l’analisi delle fonti individuate dal ricorrente nell’atto di appello, con particolare riguardo alla condizione delle persone omosessuali, soggiungendo che la Corte aveva ritenuto non credibile il racconto del ricorrente il quale aveva avuto paura di esporsi innanzi ad un connazionale membro della Commissione territoriale, a causa del timore appunto che fosse rivelata tale sua condizione.

Preliminarmente, va rilevato che il ricorso, notificato il 23 giugno 2020, è tempestivo, in quanto alla scadenza del semestre (art. 327) del 21 aprile 2020 dalla pubblicazione della sentenza impugnata, vanno aggiunti infatti i 2 mesi e 3 giorni della sospensione di cui ai D.L. n. 11, e 23/2020 (dal 9 marzo compreso all’11 maggio), per cui la scadenza del termine dell’impugnazione cadeva il 24 giugno 2020, ultimo giorno utile.

Il primo motivo è fondato sotto il profilo della violazione di norme di diritto. Il ricorrente censura la statuizione della Corte d’appello di inattendibilità della deduzione del richiedente di essere omosessuale, motivata con la considerazione che era “poco plausibile e apparendo strumentale il fatto che sia stato dichiarato solo successivamente”.

Ora, va osservato che la Corte di giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza 2 dicembre 2014, emessa nelle cause da C-148/13 a C150/13 Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, ha statuito che, considerata la delicatezza delle informazioni relative alla sfera personale di un individuo e, segnatamente, alla sua sessualità, non si può concludere che quest’ultimo manchi di credibilità per il solo fatto che, a causa della sua reticenza a rivelare aspetti intimi della propria vita, egli non abbia dichiarato immediatamente la propria omosessualità.

Al riguardo, nel caso concreto il ricorrente, nell’atto di appello, ha chiarito di aver taciuto la sua condizione di omosessuale innanzi alla Commissione territoriale poiché non sapeva chi fosse l’interprete e, dunque, non si fidava dello stesso temendo che potesse rivelare la sua condizione ai membri della comunità pakistana di *****, circostanza che avrebbe potuto compromettere il suo inserimento sociale, oltre a esporlo alle possibili reazioni dei connazionali, qualora informati del suo orientamento sessuale.

Va altresì osservato che, in tema di protezione internazionale, qualora vi sia incertezza sull’effettivo orientamento omosessuale dichiarato dal richiedente la protezione, ovvero sull’autenticità dei documenti dallo stesso prodotti a sostegno della domanda, il giudice di merito deve disporre, anche in via ufficiosa, gli approfondimenti istruttori ritenuti opportuni al fine di verificare l’attendibilità del racconto e della documentazione a corredo, non potendosi ritenere inattendibile il racconto sulla base dell’assunto aprioristico secondo cui la deduzione dell’omosessualità da parte del richiedente sarebbe frutto di una scelta difensiva finalizzata soltanto ad ottenere la protezione invocata (Cass., n. 7778/2021). Ne’ può trascurarsi che, in tema protezione internazionale, la condizione di omosessualità dichiarata dal richiedente costituisce fattore di individuazione del “particolare gruppo sociale”, la cui appartenenza, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, lett. d), integra una situazione oggettiva di persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello “status” di rifugiato; tale situazione sussiste non solo quando le persone di orientamento omosessuale, per poter vivere liberamente la propria sessualità, sono costrette a violare la legge penale del loro Paese e ad esporsi a gravi sanzioni, ciò che costituisce una grave ingerenza nella vita privata che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo che deve essere verificata, anche d’ufficio, dal giudice di merito, ma anche se nello Stato di provenienza l’omosessualità non sia considerata reato, e tuttavia manchi l’accettazione sociale di tale condizione e tale Stato non garantisca all’interessato adeguata protezione a fronte di gravissime minacce provenienti da soggetti privati (Cass., n. 5829/2021).

Nel caso concreto, emergendo dalle dichiarazioni del ricorrente che la condizione di omosessualità configuri una fattispecie di reato nel paese di provenienza, la pronuncia impugnata è dunque viziata nella parte in cui ha escluso tale condizione solo perché dichiarata innanzi al Tribunale e non anche nel corso dell’audizione del ricorrente da parte della Commissione territoriale, senza considerare, come detto, la reticenza che può certo condizionare le rivelazioni in materia di sessualità.

Il secondo motivo è da considerare assorbito dall’accoglimento del primo.

Per quanto esposto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche perché provveda alle spese del grado di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2021

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