Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.22548 del 10/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21456 del ruolo generale dell’anno 2019 proposto da:

Stanleybet Malta Limited, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’Avv. Daniela Agnello per procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliata in Roma, via Crescenzio, n. 69, presso lo studio dell’Avv. Roberta Feliziani;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, n. 31/2/2019, depositata in data 14 gennaio 2019;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

RITENUTO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane e dei monopoli aveva notificato a Stanleybet Malta Limited un avviso di accertamento con il quale era stato contestato il mancato versamento dell’imposta unica sulle scommesse per l’anno 2009, quale soggetto obbligato in solido con la ditta Lavanderia Casolani di T.R., titolare di un’agenzia di scommesse e trasmissione dati; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: la società ricorrente era da considerarsi soggetto passivo dell’imposta unica sulle scommesse; erano infondati gli ulteriori motivi di appello che riguardavano: la nullità dell’atto impositivo in quanto non redatto in lingua inglese, la non sussistenza del presupposto della territorialità dell’imposta, la violazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione, la violazione del divieto unionale di introdurre imposte sul volume di affari diverse dall’Iva, la sussistenza dell’obiettiva incertezza normativa che giustifica la non applicabilità delle sanzioni, la non correttezza della condanna alle spese di lite e della scelta di compensare le stesse;

la società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza, illustrato con successiva memoria, affidato a undici motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane e dei monopoli depositando controricorso, illustrato con successiva memoria;

la società ha altresì depositato istanza con la quale ha chiesto la trattazione della causa alla pubblica udienza.

CONSIDERATO

che:

preliminarmente, va disattesa l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza;

in adesione all’indirizzo espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass. Sez. Un., 5 giugno 2018, n. 14437), e non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass. Sez. Un., 23 aprile 2020, n. 8093);

in particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo;

nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti, da un lato, dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e, dall’altro, da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa alla Stanleybet Malta Limited); e i principi stabiliti da quelle Corti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito;

così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480);

né può condurre a diversa considerazione la giurisprudenza penale di questa Corte cui la ricorrente fa riferimento con la memoria, secondo quanto si avrà modo di specificare in seguito;

va altresì disattesa l’ulteriore richiesta, formulata in ricorso, della sospensione del presente giudizio in attesa della decisione della Corte di Giustizia sull’ordinanza della Commissione tributaria provinciale di Parma, posto che, invero, la Corte di giustizia si è pronunciata con la sentenza 26 febbraio 2020 in causa C-788/18;

1. con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per omessa e contraddittoria motivazione, in quanto, da un lato, ha preso atto della pronuncia di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 27/2008 della disciplina normativa sulla imposta unica sulle scommesse per le annualità precedenti al 2011, d’altro lato, ha comunque ritenuto, senza alcuna motivazione, che la ricorrente sarebbe comunque tenuta al pagamento;

1.1. Il motivo è inammissibile;

invero, pur postulando un error in procedendo, con il motivo, in realtà, si prospetta un vizio che attiene alla motivazione, ritenendola contraddittoria, dunque, eventualmente, avrebbe dovuto essere proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), seppure entro i limiti propri della denunciabilità del vizio motivazionale, a seguito dell’intervento normativo di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b);

d’altro lato, neppure può seguirsi la linea difensiva della ricorrente secondo cui vi sarebbe stata una omessa pronuncia, dunque un error in procedendo, non essendo state esplicitate le ragioni per cui il giudice del gravame ha ritenuto sussistente la soggettività passiva della medesima;

in realtà, sotto tale profilo, non solo va evidenziato che la stessa parte ricorrente, con il terzo motivo, dà atto, pur contestandolo in diritto, del ragionamento logico seguito dal giudice del gravame, ma va, d’altro lato, osservato che la sentenza ha chiaramente pronunciato sul punto della sussistenza della legittimazione passiva della ricorrente, avendo fatto riferimento al contenuto della sentenza della Corte Cost. n. 27/2018 ed avendo, inoltre, fatto da essa discendere la considerazione che, per gli anni precedenti all’intervento normativo del 2010, la norma interpretativa trovava comunque applicazione “anche per i rapporti negoziali già perfezionati”, sicché, di conseguenza, ha ritenuto che per l’annualità 2009 permaneva comunque “il debito tributario del bookmaker”, in tal modo rendendo evidente il ragionamento logico giuridico posto a base della considerazione conclusiva della soggettività passiva della ricorrente;

2. con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza per “Illegittimità dell’avviso di accertamento a seguito della sentenza della Corte costituzionale”, in quanto, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 27/2018, che ha ritenuto fondata la questione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), con riferimento alle annualità d’imposta precedenti al 2011, dovrebbe farsi discendere l’illegittimità dell’avviso di accertamento oggetto di controversia, avendo lo stesso riguardo al periodo di imposta 2009;

2.1. il motivo è inammissibile;

la pronuncia della Corte costituzionale, come si avrà modo di ribadire in prosieguo, ha ritenuto che, tenuto conto dell’impossibilità per le ricevitorie di traslare l’imposta per gli esercizi anteriori al 2011, l’applicazione di essa nei loro confronti viola l’art. 53, Cost., sicché ha dichiarato incostituzionale il D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3 e la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella parte in cui prevedono che, anche per le annualità di imposta precedenti al 2011, siano da considerarsi soggetti passivi di imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse siano le ricevitorie operanti per conto di bookmakers privi di concessione;

la pronuncia sopra indicata, dunque, ha limitato la dichiarazione di incostituzionalità solo per la parte della normativa interpretativa che ha interessato i CTD nel periodo antecedente alla sua entrata in vigore, ma non ha in alcun modo escluso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità riguardassero anche i bookmaker esteri;

parte ricorrente, sul punto, si limita a richiedere l’applicabilità in proprio favore della pronuncia della Corte costituzionale, ma il motivo difetta di autosufficienza, non avendo la stessa precisato ed esposto sotto quale profilo il contenuto della suddetta pronuncia produrrebbe gli effetti favorevoli auspicati;

3. con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, per avere ritenuto che la legge interpretativa del 2011 potesse essere applicata retroattivamente e, dunque, potesse consentire di configurare la soggettività passiva della ricorrente;

3.1. il motivo è infondato;

lo stesso, invero, si fonda su di una non corretta lettura delle previsioni normative di riferimento e della sentenza della Corte costituzionale n. 27/2018;

la Corte costituzionale, in particolare, ha evidenziato che, con la disposizione interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), il legislatore ha esplicitato una possibile variante di senso della disposizione interpretata (cioè del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3), ribadendo, da un lato, che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio, stabilendo, altresì, che il generale concetto di gestione include anche l’attività svolta per conto terzi, compresi i bookmakers con sede all’estero e privi di concessione;

in tal modo, dunque, la Corte costituzionale ha dato atto della circostanza che la norma interpretativa ha avuto la finalità di chiarire l’incertezza in ordine alla applicabilità dell’imposta anche per il bookmaker estero privo di concessione, risolvendola positivamente;

sicché, la Corte costituzionale, dopo avere dato atto dell’applicabilità dell’imposta anche con riferimento alla fattispecie in esame, ha precisato che la norma interpretativa non potesse avere effetti per gli anni precedenti al 2011 nei confronti del CTD, posto che la stessa si poneva in contrasto con l’art. 53 Cost., attesa la impossibilità degli stessi di traslare l’imposta;

e’ dunque solo con riferimento ai CTD che la pronuncia della Corte costituzionale ha avuto effetto, non ponendosi in discussione, proprio a seguito della evidenziata opzione interpretativa esercitata dal legislatore interno, la circostanza che la previsione normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, avesse riguardo anche ai bookmaker esteri che operano senza concessione;

sicché nei confronti degli stessi è stata affermata, senza che la pronuncia della Corte costituzionale avesse alcun effetto, la soggettività passiva per il pagamento dell’imposta anche per gli anni precedenti all’entrata in vigore della norma interpretativa;

non sussiste, pertanto, la prospettata violazione di legge;

4. con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, per avere ritenuto che la ricorrente fosse soggetto passivo in qualità di obbligato in via principale, mentre la disciplina normativa di cui alla legge interpretativa del 2011 avrebbe configurato una responsabilità in via principale del CTD ed una responsabilità solidale del bookmaker estero, con la conseguenza che l’annullamento dell’avviso di accertamento nei confronti dell’obbligato principale comporterebbe l’automatico venire meno della medesima pretesa nei confronti del coobbligato in via solidale; inoltre, evidenzia parte ricorrente che l’attribuzione nei confronti della ricorrente della qualità di obbligato principale, compiuta dal giudice del gravame, comporterebbe una modifica, di fatto, della pretesa impositiva contenuta nell’avviso di accertamento;

4.1. il motivo è infondato;

a tal proposito, va evidenziato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 27/2018, ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole, poiché entrambi i soggetti partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, ha rimarcato, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker;

ciò comporta che, differentemente da quanto ritenuto con il presente motivo di ricorso, sussistono autonomi rapporti obbligatori che, ai fini tributari, sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente, profilo di cui non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. 27 luglio 2015, n. 15731);

sotto tale profilo, dunque, è priva di rilievo sia la tesi difensiva secondo cui, una volta venuta meno la responsabilità del CTD, per effetto della pronuncia della Corte costituzionale, correlativamente mancherebbe il presupposto della responsabilità del bookmaker estero, sia quella secondo cui vi sarebbe stato un inquadramento della fattispecie, operato dal giudice del gravame, diverso da quello compiuto in sede di accertamento, in ordine alla qualificazione della responsabilità della ricorrente;

5. con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, per non avere il giudice del gravame dichiarato illegittimo l’avviso di accertamento in quanto non tradotto nella lingua del destinatario, non mettendo la stessa in condizioni di avere una piena ed effettiva conoscenza del contenuto dell’atto impositivo, con conseguente lesione del diritto di difesa;

5.1. il motivo è infondato;

va precisato, in primo luogo, che nessuna specifica previsione normativa, né la L. n. 212 del 2000, cit. art. 7, dispone che l’atto impositivo deve essere redatto nella lingua del soggetto destinatario, dovendosi, invero, presumere che lo stesso, in quanto soggetto passivo nel territorio nazionale, sia in grado di comprendere il contenuto dell’atto;

la questione, dunque, si sposta sul piano probatorio, essendo onere della contribuente provare di non essere stata nelle condizioni di avere potuto avere conoscenza del contenuto dell’atto, il che postula che la stessa versi in condizioni tali, nonostante il comportamento dalla stessa esigibile, da non potere in alcun modo avere potuto ovviare alla circostanza che l’atto impositivo non era stato tradotto nella propria lingua di origine, profilo in alcun modo coltivato dalla ricorrente, che si è limitata ad una contestazione generica sul punto; identica questione è già stata esaminata da questa Corte (Cass. civ., 19 gennaio 2021, n. 9144) che ha escluso che la mancata traduzione nella lingua del destinatario possa comportare una lesione del diritto di difesa della ricorrente, in quanto la stessa, anche se soggetto non residente privo di stabile organizzazione in Italia, ha dimostrato, avendo in concreto fatto valere, nei gradi del merito, le proprie ed articolate difese, contestando la pretesa tributaria azionata con l’atto impugnato, di avere avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto impositivo ad essa notificato;

peraltro, questa Corte, in argomento, ha già ritenuto in fattispecie analoga, il cui principio trova applicazione anche nel caso per cui è processo (Cass. civ., 19 ottobre 2018, n. 26407), che il vizio dell’atto impositivo emesso in lingua italiana nei confronti di soggetto appartenente alla minoranza linguistica tedesca privo dell’informazione sul diritto di sollevare eccezione di nullità per la mancata traduzione ai sensi del D.P.R. n. 574 del 1988, art. 8, è in concreto sanato ove il destinatario abbia comunque promosso, in sede amministrativa o giurisdizionale, un procedimento volto alla difesa dei propri diritti;

6. con il sesto motivo di ricorso (rubricato nel ricorso come primo motivo), si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere omesso di motivare sulla questione della violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), con riferimento alla sussistenza del presupposto soggettivo dell’imposta;

in particolare, parte ricorrente deduce che il dettato normativo subordina la debenza dell’imposta allo svolgimento di una attività di gestione, sicché non correttamente il giudice del gravame avrebbe ritenuto che la sussistenza dell’elemento soggettivo, ai fini dell’applicabilità dell’imposta, sia collegato alla mancanza del rilascio dell’autorizzazione;

6.1. il motivo è inammissibile;

diversamente da quanto rappresentato nel ricorso, il giudice del gravame si è pronunciato sulla questione della soggettività passiva della ricorrente, non potendosi, quindi, configurare alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c.;

invero, nella sentenza è riportato, in sede di svolgimento del processo, che il secondo motivo di appello aveva a riguardo la sussistenza del presupposto impositivo in capo sia al CTD che al bookmaker, ancorché privo di concessione;

inoltre, risulta altresì che, a tale specifico motivo, il giudice del gravame ha dato risposta, laddove, in sede di motivi della decisione, ha argomentato in ordine alla responsabilità della ricorrente, facendo riferimento sia al contenuto del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, che attiene alla individuazione dei soggetti passivi dell’imposta, sia all’intervento normativo interpretativo di cui alla L. n. 220 del 2010 relativo alla suddetta previsione normativa, sia, infine, alla pronuncia della Corte costituzionale n. 27/2018;

e’ dall’esame delle suddette disposizioni normative e della pronuncia della Corte costituzionale che il giudice del gravame ha fatto discendere la considerazione della sussistenza della soggettività passiva della ricorrente, riportando quanto affermato dalla pronuncia costituzionale in ordine alla scelta del legislatore di assoggettare applicare l’imposta unica anche le ricevitorie di soggetti operanti per conto di soggetti privi di concessione, e, peraltro, affrontando la questione della limitazione della pronuncia di incostituzionalità ai soli CTD, permanendo il debito tributario nei confronti dei bookmakers; non può dunque, ragionarsi nel senso voluto dalla ricorrente di omessa pronuncia sulla questione della sussistenza del presupposto soggettivo per l’applicabilità dell’imposta, avendo il giudice del gravame specificamente considerato e definita la questione, sicché non può ritenersi sussistenza la violazione dell’art. 112 c.p.c.;

7. con il settimo motivo di ricorso (rubricato nel ricorso come secondo motivo) si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 288 del 1998, art. 1, comma 2, lett. b), per avere erroneamente ritenuto integrato il presupposto territoriale dell’imposta;

8. con l’ottavo motivo di ricorso (rubricato come terzo motivo di ricorso) si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 49 e 56 ss. TFUE, e dei principi del Diritto dell’Unione di parità di trattamento e non discriminazione, nonché per violazione del principio di legittimo affidamento con riferimento alla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, per non avere il giudice del gravame disapplicato il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3. In subordine, è stato chiesto rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, comma 2;

8.1. i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono infondati;

va precisato che le questioni sono già state oggetto di ripetuta e articolata disamina da parte di questa Corte a partire dalla sentenza n. 8757 del 30 marzo 2021, seguita da numerose altre (tra le tante Cass. civ. nn. 8907-8911/2021, 9079-9081/2021, 9144-9153/2021, 9160/2021, 9162/2021, 9168/2021, 9176/2021, 9178/2021, 9182/2021, 9184/2021, 9160/2021, 9516/2021, 9528-9537/2021, 9728-9735/2021), le cui motivazioni sono qui espressamente condivise e richiamate ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.;

merita di essere specificamente sottolineato, peraltro, che il quadro normativo pertinente è stato sottoposto all’esame della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso, fornendo chiari elementi per la soluzione degli ulteriori dubbi prospettati con il ricorso;

la Corte costituzionale, con riferimento all’ambito soggettivo dell’imposta, ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio ed ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti, come nel caso in esame, per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni, svolgendo anch’esse una attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione;

a questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole. L’attività consiste, infatti, nella raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale: entrambi i soggetti partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker;

della sussistenza di autonomi rapporti obbligatori che, ai fini tributari, sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente, non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte (v. anche Cass. 27 luglio 2015, n. 15731), neppure attagliandosi al rapporto tra il bookmaker e ricevitore lo schema della solidarietà dipendente, che ricorre, invece, quando uno dei coobbligati, pur non avendo realizzato un fatto indice di capacità contributiva, si trova in una posizione collegata con il fatto imponibile o con il contribuente, sulla base di un rapporto a cui il fisco resta estraneo (da ultimo Cass. n. 26489/2020);

8.2. né viola il principio della capacità contributiva la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato. Ciò in quanto, attraverso la regolazione negoziale delle commissioni, il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera, assolvendo la rivalsa funzione applicativa del principio di capacità contributiva;

in forza di tale articolato percorso la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione, restando esclusa la possibilità, per la già cristallizzata determinazione in quel periodo dell’entità delle commissioni tra ricevitorie e bookmaker, di poter procedere alla traslazione dell’imposta. Per le annualità d’imposta antecedenti al 2011, dunque, non rispondono le ricevitorie ma solamente i bookmaker, con o senza concessione, in base alla combinazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. a), usciti indenni dal vaglio di legittimità costituzionale;

8.3. va rilevato, inoltre, ai fini della territorialità dell’imposizione, che non rileva la conclusione del contratto di scommessa poiché il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.), attività, queste, tutte svolte in Italia;

8.4. una attenzione specifica, inoltre, va rivolta agli argomenti difensivi prospettati in ricorso ed ulteriormente approfonditi in sede di memoria, relativi alle ritenute frizioni con il diritto unionale;

in particolare, la ricorrente ha prospettato la violazione del diritto di non discriminazione, di parità di trattamento e del principio di non affidamento;

in memoria, inoltre, il profilo centrale della linea difensiva seguita si fonda, in sostanza sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella quale la ricorrente si sarebbe venuta a trovare basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale; la linea difensiva seguita dalla ricorrente, più in particolare, si fonda sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla L. n. 220 del 2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco ilVecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento, determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione;

le considerazioni difensive in esame non possono trovare accoglimento;

va premesso che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata, sicché rileva l’art. 56 TFUE, e, sul punto, la Corte di Giustizia, 26 febbraio 2020, causa C-788/18, ha preso diretta e specifica cognizione proprio delle medesime questioni sollevate con il ricorso, ed ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perché l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato”;

va osservato, in generale, che, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza unionale, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale, costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: di conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07);

il legislatore nazionale ha proceduto a questa valutazione, dichiarando, nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 64, i propri obiettivi, tra i quali si colloca “…l’azione per la tutela dei consumatori, in particolare dei minori di età, dell’ordine pubblico, della lotta contro il gioco minorile e le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione e di evasione fiscale nel medesimo settore”;

la prevalenza dell’ordine di valori di ciascuno Stato membro comporta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte giust. in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte giust. 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83);

la Corte di Giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmaker nazionali e bookmaker esteri, anzi, come ha pure sottolineato la Corte costituzionale (ancora con la sentenza n. 27/18), a seguire la tesi prospettata in ricorso si giungerebbe ad una discriminazione al contrario: la scelta legislativa “risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non aver ottenuto la necessaria concessione…”;

va evidenziato, a tal proposito, che la Corte di giustizia, se, col punto 17, in relazione al bookmaker, oltre che stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, col punto 24 specifica, in concreto, che, “…la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri”; sicché, conclude col punto 24, “…rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni di tale società, la Stanleybet Malta non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa delrapplicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale”. Quanto al centro trasmissione dati, il punto 26 si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), ma ciò non toglie (punto 28) che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione che li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro;

la diversità della situazione, pertanto, è in re ipsa, per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero: nel settore dei giochi d’azzardo, difatti, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte giust. 19 dicembre 2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C-788/18, cit.); e ciò in conformità agli obiettivi esplicitamente perseguiti dal legislatore italiano (art. 1, comma 644, I, n. 220 del 2010), come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia. Di qui l’esclusione, anche con riguardo alla posizione del centro trasmissione dati, di qualsiasi restrizione discriminatoria;

le suddette considerazioni rendono dunque priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione;

la ricorrente, infatti, è considerata soggetto passivo d’imposta proprio per avere realizzato, per il tramite di propri centri di trasmissione dati operanti in Italia, il presupposto impositivo dell’imposta in esame;

la giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. pen., 10 settembre 2020, n. 25439), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4bis, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che la ricorrente era stata “illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni…e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4 bis, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea”;

il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dalla ricorrente, tuttavia, non implica la sottrazione della stessa dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, che ha, come visto, disposto che: “Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi pronostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”;

l’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica situazione” nella quale la ricorrente ha dovuto operare;

a parte il rilievo che la effettiva lesione del pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva, come detto, è il fatto che la ricorrente, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di gestione della raccolta delle scommesse per il tramite di propri centri di trasmissione dati, ha realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, è da considerarsi soggetto passivo del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati;

9. con il nono motivo di ricorso (rubricato come quarto motivo) si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della Dir. 2006/112/Ce, art. 401, per non avere il giudice del gravame disapplicato la disciplina normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998 in ragione della sua contrarietà al divieto di mantenere o introdurre imposte sul volume di affari diverse dall’Iva;

9.1. il motivo è infondato;

il tributo che qui rileva è differente da una imposta sulla cifra di affari per plurime ragioni: riguarda unicamente operazioni relative all’esercizio delle scommesse, irrilevanti a fini Iva; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione Iva e applicandosi il tributo all’importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa. Non rilevano quindi i soli fatti consistenti nella proporzionalità, nell’esser riscossa a ogni fase e nella sua traslazione in capo al consumatore, evidenziati in ricorso, anche perché (come con evidente contraddizione logica e giuridica si ammette proprio in ricorso per cassazione) proprio la disciplina Iva che si cita da parte del ricorrente, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 2, proclama esenti dal tributo armonizzato le operazioni in parola, con ciò evitando il concorrere di due imposte sul medesimo volume d’affari. Effetto del tutto risolutivo e dirimente ha sul punto, il chiaro dictum del Giudice Unionale (CGUE, sent. n. 24 ottobre 2013 in causa n. C-440/2012), Metropol Spielstatten Unternehmergesellschaft (haftungsbeschrankt) secondo il quale “in forza della direttiva IVA, art. 401 “le disposizioni di (tale) direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte (…) sui giochi e sulle scommesse, (…) e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari (…)”. La formulazione di tale articolo non osta, pertanto, a che gli Stati membri assoggettino un’operazione all’IVA, nonché, in modo cumulativo, a un tributo speciale non avente il carattere d’imposta sul volume d’affari (v., in tal senso, la sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt, 73/85, Racc. pag. 2219, punto 22)”. Secondo la ridetta pronuncia, quindi, la Dir. 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, art. 401, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con l’art. 135, paragrafo 1, lett. i) della stessa, deve essere interpretato nel senso che l’imposta sul valore aggiunto e un tributo speciale nazionale sui giochi d’azzardo possono essere riscossi in modo cumulativo, a condizione che siffatto ultimo tributo non abbia il carattere di un’imposta sul volume d’affari; inoltre, sempre secondo tal sentenza, la Dir. n. 112 del 2006, art. 1, paragrafo 2, prima frase, e art. 73, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione o a una prassi nazionale secondo cui, per la gestione di apparecchi per giochi d’azzardo con possibilità di vincita, l’importo dei proventi di cassa di tali apparecchi dopo che è trascorso un determinato periodo di tempo viene considerato come base imponibile;

10. con il decimo motivo di ricorso (rubricato come motivo quinto) si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, dell’art. 5, comma 1 e della L. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, per non avere pronunciato sulla questione della non sussistenza delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria;

10.1. il motivo è inammissibile;

parte ricorrente non riproduce né allega in alcun modo che la questione relativa alla non applicabilità della sanzione per la sussistenza di condizioni di obiettiva incertezza normativa era stata prospettata dinanzi al giudice di primo e secondo grado, sicché il motivo è privo di autosufficienza;

va a tal proposito osservato che la stessa ricorrente (vd, pag. 16, ricorso) indica quali motivi di appello erano stati proposti e nessuno di quelli indicati hanno riguardo alla questione ora prospettata; 11.con l’undicesimo motivo di ricorso (rubricato in ricorso come sesto motivo) si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 12 e 15, e dell’art. 91 c.p.c., per avere il giudice del gravame illegittimamente disposto la condanna della contribuente al pagamento delle spese processuali in favore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, sebbene rappresentata in giudizio da un proprio funzionario, nonché per non avere disposto la compensazione delle spese di lite;

11.1. il motivo è infondato;

questa Corte intende dare continuità all’orientamento già espresso (Cass. civ., 19 febbraio 2021, n. 4473) secondo cui, poiché il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 2 bis, vigente ratione temporis (in forza delle modifiche apportate dal D.L. 24 gennaio 2012, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), dispone che, nel caso in cui la parte pubblica, risultata vittoriosa, sia stata assistita da un proprio funzionario o da un proprio dipendente, si applica per la liquidazione il “compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo, ivi previsto”, la stessa prevede espressamente, pertanto, la liquidazione dei compensi per l’attività difensiva svolta in giudizio. (In tal senso da ultimo Cass. n. 23055/19);

con riferimento, poi, al profilo relativo alla compensazione delle spese di lite, il motivo è infondato;

questa Corte ha più volte precisato che la soccombenza, ai fini della regolazione delle spese, si rapporta all’esito concreto della lite e non a quello sperato o ritenuto più corretto da chi vi appare univocamente ed incontestabilmente soccombente; e, ad ogni buon conto, in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. civ., 26 aprile 2019, n. 11329; Cass. Sez. U. 15/07/2005, n. 14989; Cass. 31/03/2006, n. 7607);

in conclusione, i motivi di ricorso sono infondati, con conseguente rigetto;

con riferimento alle spese di lite del presente giudizio, sussistono giusti motivi per la compensazione, atteso che l’intervento risolutore delle questioni, in epoca successiva alla proposizione del ricorso, ad opera della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia giustifica la compensazione delle spese di giudizio;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il rlcorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e compensa le spese di lite.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2021

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