Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.22661 del 11/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12295/2016 proposto da:

A.M.I., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria civile della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Francesco Tagliabue, per procura speciale estesa in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Curatela del fallimento della ***** s.a.s. *****, curatela del fallimento di A.M.I.” domiciliate in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria civile della Corte di cassazione, rappresentate e difese dall’avvocato Enzo Gerosa, per procura speciale estesa in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

F. & C. s.n.c.

– intimata –

avverso la sentenza n. 1376/2016 della Corte di appello di Milano, pubblicata il 8 aprile 2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15 aprile 2021 dal consigliere Dott. Marco Vannucci.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza emessa il 18 settembre 2015 il Tribunale di Lecco, in accoglimento della istanza proposta dalla curatela del fallimento della ***** s.a.s. ***** (di seguito indicata come “*****”), dichiarò il fallimento di A.M.I. in quanto socia accomandataria “occulta” di tale società di persone, non risultante come tale dai depositi di atti eseguiti, per la relativa iscrizione, nel registro delle imprese (L.Fall., art. 147, comma 4).

2. Con sentenza emessa il 8 aprile 2016 la Corte di appello di Milano rigettò il reclamo proposto da A. per la riforma di detta decisione di primo grado.

2.1 La motivazione di tale sentenza può così sintetizzarsi: non sussiste violazione dell’obbligo di non dichiarare il fallimento di tale socia, sancito dalla L.Fall., art. 147, comma 2, dal momento che tale disposizione di legge si riferisce ai soli soci regolari di società di persone regolare (in quanto iscritta nel registro delle imprese) come tali risultanti dai depositi di atti risultanti dal registro delle imprese (secondo l’interpretazione di tale disposizione di legge offerta da Cass. n. 15488 del 2013); la cessione da A. a G.M. della proprietà della propria quota di partecipazione alla società *****, avvenuta il 31 luglio 2012, non determinò la cessazione del rapporto sociale fra detta società e la Signora A., avendo costei continuato a gestire la società nonostante tale accadimento e la, meramente apparente, instaurazione (il 8 agosto 2012) con ***** di rapporto di lavoro subordinato con mansioni di direzione della attività dell’azienda alberghiera gestita dalla società; il fatto che G., socio accomandatario risultante dalle iscrizioni nel registro delle imprese dopo il deposito dell’atto di cessione, abbia posto in essere condotte conformi all’acquisito potere gestorio non è rilevante per negare il perdurare del rapporto sociale fra A. e *****, in quanto “ciò che rileva è il fatto che, a dispetto della cessione delle quote, la medesima abbia comunque continuato ad ingerirsi nella gestione della società esercitando poteri propri del socio accomandatario, addirittura sino al momento in cui la fallita ***** s.a.s. è stata costretta a restituire il ramo d’azienda affittato, ed anzi ancora rivendicando, in quella sede, l’esclusiva e personale proprietà di alcuni beni strumentali”; tali fatti si desumono dagli indizi, unitariamente considerati, specificamente menzionati nelle pagg. 6 e 7 della sentenza, evidenzianti che A. si occupò dell’amministrazione della società “in tutti i suoi profili (tenuta dei rapporti con il personale, con i fornitori, con il consulente del lavoro e con il commercialista)”.

3. Per la cassazione di tale sentenza A. propose ricorso contenente cinque motivi di impugnazione.

4. La curatela del fallimento della società ***** e quella del fallimento di A. resistono con controricorso.

5. L’intimata F. & C. s.n.c. (parte del giudizio di reclamo) non ha svolto difese.

6. Le controricorrenti hanno anche depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce che la sentenza è caratterizzata da violazione della L.Fall., art. 147, comma 2, “con riferimento alla ritenuta inapplicabilità del termine annuale di decadenza per la dichiarazione di fallimento i estensione del socio occulto illimitatamente responsabile”, in quanto: il principio della certezza delle situazioni giuridiche (affermato in materia da Corte Cost., sent. n. 319 del 2000) impone che la decorrenza del termine annuale dalla cessazione del rapporto sociale fra società fallita e relativo socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali sia individuata nel momento in cui tale cessazione abbia avuto pubblicità ovvero in quello in cui i creditori sociali abbaino avuto conoscenza di tale evento o lo abbiano colpevolmente ignorato; il termine annuale di cui alla L.Fall., art. 147, comma 2, decorre, anche nel caso del socio accomandatario occulto, dal giorno in cui lo scioglimento del rapporto sociale sia portato a conoscenza dei creditori sociali con idonee forme di pubblicità; nel caso di specie la cessazione del rapporto fra essa ricorrente e ***** si verificò il 7 agosto 2013, giorno in cui, a seguito del rilascio dell’azienda da parte della società, “era di fatto e di diritto venuta a cessare ogni attività di impresa e conseguentemente ogni attività societaria”.

2. Il motivo è manifestamente infondato.

E’ opportuno al riguardo rammentare che il fallimento di società in nome collettivo, avente quale effetto lo scioglimento della società (art. 2308 c.c.) ma non la relativa estinzione (che si verifica quale conseguenza della cancellazione della società dal registro delle imprese dopo l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, alla luce del precetto di cui all’art. 2495 c.c., applicabile anche alle società di persone per ragioni di ordine sistematico, desunte dal disposto del vigente L.Fall., art. 10, nonostante sia per esse in vigore il precetto recato dall’art. 2312 c.c., integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324: in questo senso, cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 6072 del 2013) non è dal vigente ordinamento previsto quale fatto determinante lo scioglimento del rapporto sociale fra la società e i relativi soci; tanto che tale evento determina ex lege il fallimento dei suoi soci, come tali personalmente e illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali (art. 2291 c.c.; L.Fall., art. 147, comma 1).

E’ invece solo il fallimento del socio che determina la sua esclusione di diritto dalla società (art. 2288 c.c., comma 1, applicabile alle società in nome collettivo per effetto del rinvio operato dall’art. 2293 c.c.).

La disciplina così riassunta è applicabile alla società in accomandita semplice (art. 2315 c.c.) in quanto compatibile con le disposizioni contenute negli artt. 2316-2324 c.c.

L’unica differenza è data dal fatto che in tale società solo i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali (art. 2313 c.c., comma 1), hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo (art. 2318 c.c., comma 1); sì che solo per essi il relativo fallimento si determina quale effetto legale del fallimento della società (L.Fall., art. 147, comma 1).

Contrariamente a quanto dalla ricorrente dedotto, pertanto, il rapporto sociale fra la società e il suo socio accomandatario, anche di fatto (id est, non risultante come tale dalle iscrizioni eseguite nel registro delle imprese ex artt. 2296 e 2300 c.c. e, dunque, con situazione riferibile anche alla violazione da parte del socio accomandante dell’obbligo non ingerenza nell’amministrazione della società sancito dall’art. 2320 c.c.; nel senso che la violazione di tale obbligo comporta una situazione equiparabile a quella del socio accomandatario occulto cfr.: Cass. n. 5069 del 2017; Cass. n. 24112 del 2015), non si estingue: per la mera cessazione dell’attività d’impresa della società non avente riscontro nella sua cancellazione dal registro delle imprese in conseguenza dell’approvazione del bilancio finale di liquidazione (art. 2312 c.c.), determinante la sua estinzione (come sopra evidenziato); per lo scioglimento della società (che continua ad esistere, sia pure sostituendo lo scopo liquidatorio a quello lucrativo); per il fallimento della società, non costituente accadimento che ne determina l’estinzione (in questo senso, cfr., in motivazione: Cass. n. 5069 del 2017, cit.; Cass. n. 24112 del 2015, cit.; Cass. n. 23651 del 2014).

La giurisprudenza di legittimità è invece costante nell’interpretare il precetto recato dalla L.Fall., art. 147, comma 2, (secondo cui, per quanto qui specificamente interessa, il fallimento del socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali di una delle società indicate dal precedente comma 1 “non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale”) nel senso che la vicenda personale nella citata disposizione descritta (scioglimento del rapporto sociale fra società e suo socio illimitatamente responsabile) deve necessariamente risultare, per il principio di certezza delle situazioni giuridiche in funzione della decorrenza del termine annuale di decadenza dall’esercizio del potere giudiziale di dichiarare il fallimento di tale socio, dalla iscrizione nel registro delle imprese del fatto (recesso, esclusione, cessione della partecipazione) determinante la cessazione del rapporto sociale fra società e suo socio e, dunque, della di lui responsabilità personale e illimitata per le obbligazioni sociali esistenti in tale momento (in questo senso, cfr.: Cass. n. 5069 del 2017, cit.; Cass. n. 24112 del 2015, cit.; Cass. n. 15488 del 2013). Tale interpretazione è stata fatta dichiaratamente propria dalla sentenza impugnata (il cui contenuto sul punto è dunque è conforme a diritto) che ha, conseguentemente, ritenuto irrilevante, in funzione dell’applicazione del termine annuale in discorso, la cessazione di fatto sia dell’attività commerciale della società che di quella di amministrazione della società da parte della ricorrente in tempo anteriore (in tesi, il 7 agosto 2013) alla dichiarazione di fallimento di ***** (1 dicembre 2014), non risultando tali fatti dalle iscrizioni nel registro delle imprese (ammesso, in ipotesi, che ciò potesse legittimamente avvenire, atteso il regime di tassatività degli atti da iscrivere, da depositare per l’iscrizione ovvero da depositare nel registro delle imprese).

3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce che la sentenza è caratterizzata da violazione dell’art. 2320 c.c. e L.Fall., art. 147, comma 1, nella parte in cui si qualificano gli atti di direzione dell’ordinaria gestione alberghiera da essa ricorrente posti in essere (come tali rientranti nella mansioni proprie del rapporto di lavoro subordinato instaurato con la società nel mese di agosto 2012) come atti di amministrazione della società, in quanto: l’organizzazione e la gestione dell’attività dei lavoratori dipendenti della società e della relativa clientela non sono atti di amministrazione di *****, attenendo essi “al momento esecutivo dell’operatività aziendale e non già alla fase prettamente decisionale”; lo stesso è a dirsi per i pochi assegni (per pagamento di rata di canone d’affitto d’azienda e di stipendi già maturati dai dipendenti) emessi da essa ricorrente nel breve periodo (dal 1 agosto al 27 agosto 2012) intercorso fra l’atto di cessione delle quote e l’intestazione del conto corrente bancario di cui la società era titolare al nuovo socio accomandatario ( G.M.), mentre i due pagamenti effettuati in favore della Miki Autoservizi (ditta di cui essa ricorrente era titolare) sono estranei all’attività di impresa e costituiscono, al più, isolate condotte distrattive di parte del patrimonio di *****.

4. Con il terzo motivo la ricorrente imputa alla sentenza l’omesso esame di fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)) in ragione della non ammissione della prova per testimoni, nell’atto di reclamo dedotta, volta a provare che gli atti posti in essere da essa ricorrente (nella sentenza descritti) furono occasionati dall’attività di amministrazione della società in concreto svolta dal relativo socio accomandatario G., in quanto: la decisione di non ammettere tale mezzo di prova (nel ricorso sono specificamente indicati i capitoli relativi ai fatti da provare dalla ricorrente formulati con il reclamo alla Corte di appello) è meramente apparente e, dunque, sostanzialmente omessa su di un punto decisivo della controversia, essendo i fatti oggetto della prova non ammessa idonei ad invalidare le altre risultanze istruttorie, costituite da indizi.

5. Il quarto motivo di censura e’, ancora, di omesso esame di fatto decisivo “in relazione alle deduzioni della ricorrente riguardanti il carattere simulato dell’inquadramento lavorativo” ad essa ricorrente attribuito “dal mese di gennaio al mese di maggio 2013”: e ciò, per le ragioni nel motivo illustrate.

6. Infine, la ricorrente imputa, ancora una volta, alla sentenza l’omesso esame di fatto decisivo, per le ragioni nell’atto evidenziate, “con riferimento agli elementi idonei a ricondurre in via esclusiva al Signor G. il controllo dei conti economici della società, la gestione contabile e finanziaria della stessa e le scelte di indirizzo dell’attività sociale”.

7. L’esame del terzo motivo (omesso esame di fatto decisivo costituito dalla mancata ammissione di prova per testimoni dalla ricorrente dedotta con l’atto di reclamo sulla base di motivazione meramente apparente) ha carattere logicamente prioritario su quello degli altri motivi, in quanto: la sentenza impugnata ritiene provato lo svolgimento da parte della ricorrente di attività gestoria della, fallita, società in accomandita semplice (e dunque lo svolgimento di fatto di attività dall’art. 2318 c.c., comma 2, riservata al solo socio accomandatario) sulla base di unitaria valutazione di una pluralità di fatti costituenti indizi della sussistenza del rapporto sociale irregolare (o di fatto) fra ricorrente e Hotel. Panini per la gestione di tale società; l’eventuale accoglimento di tale motivo determinerebbe l’assorbimento delle altre censure, in buona sostanza relative alla non univoca interpretazione degli indizi nel senso affermato dalla sentenza impugnata.

8. Le controricorrenti deducono che la sentenza impugnata ha confermato in ogni sua parte la sentenza dichiarativa del fallimento della ricorrente, con la conseguenza che il ricorso per la cassazione di tale sentenza non può essere proposto per il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti) secondo il precetto recato dall’art. 348-ter c.p.c., commi 4 e 5.

L’affermazione, non argomentata, dà per scontato che al procedimento di reclamo contro sentenza dichiarativa di fallimento (L. Fall., art. 18) trovi applicazione la disciplina dell’appello, contro sentenza del tribunale definitiva di processo trattato secondo le forme del rito ordinario di cognizione ovvero contro ordinanza definitiva di procedimento trattato nelle forme del rito sommario di cognizione (art. 702-quater c.p.c.), recata dagli artt. 339 – 359 c.p.c.: ciò però non e’.

Invero, a seguito dell’acquisto di efficacia del vigente testo della L.Fall., art. 18 risultante dalla sua integrale riformulazione ad opera del D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 2, comma 7, la disciplina del procedimento camerale di impugnazione di sentenza dichiarativa di fallimento, signifocativamente denominato “reclamo” (e non più “appello”, come nel testo dello stesso articolo risultante dalla sostituzione in precedenza operata dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 16), è solo quella contenuta in tale articolo di legge; con la conseguenza che rispetto a tale procedimento non trovano applicazione le disposizioni del codice di rito relative all’appello.

Nella relazione illustrativa del Governo dedicata al citato D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 2, comma 7, si legge, infatti, quanto segue: “La sostituzione dell'”appello” con il “reclamo” è coerente con il rito camerale, adottato non solo per la decisione di primo grado, ma anche per la fase di gravame: il reclamo e’, infatti, il mezzo tipico di impugnazione dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, quale che ne sia la forma. La modifica vale ad escludere l’applicabilità della disciplina dell’appello dettata dal codice di rito e ad assicurare l’effetto pienamente devolutivo dell’impugnazione, com’e’ necessario attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito. Considerata per tali ragioni corretta la modifica in esame, non è stata accolta l’osservazione del Senato che invitata il Governo a ripristinare l’appello quale mezzo di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento”.

Alla luce di tale, quanto mai chiara, indicazione della volontà del legislatore delegato (in attuazione della delega recata dalla L. n. 80 del 2005, art. 1, commi 5 e 5-bis, di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 35 del 2005, nel testo risultante dal contenuto della L. n. 5 del 2006, art. 1, comma 3), la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che nel procedimento camerale di impugnazione in discorso non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c., con la conseguenza che il debitore, anche se non costituito nel procedimento camerale svoltosi avanti il tribunale, può indicare per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova di cui intende avvalersi, al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui alla L.Fall., art. 1, comma 2 (in questo senso, cfr., e multis: Cass. n. 4893 del 2019; Cass. n. 8226 del 2015; Cass. n. 9174 del 2012; Cass., n. 22546 del 2010).

In buona sostanza: la disciplina del procedimento camerale di reclamo contro sentenza che dichiara il fallimento è contenuta esclusivamente nella L.Fall., art. 18; in tale articolo non si rinviene una disposizione espressamente escludente che il ricorso per la cassazione della sentenza, emessa a definizione di tale procedimento, di conferma della sentenza dichiarativa di fallimento possa essere proposto per il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); la limitazione al ricorso per cassazione di sentenza di appello emessa a definizione di processo svoltosi nelle forme di quello ordinario, ovvero sommario, di cognizione sancita dall’art. 348-bis c.p.c., commi 4 e 5 non è applicabile quanto al ricorso contro la sentenza resa a definizione del procedimento previsto dalla L.Fall., art. 18.

9. Il terzo motivo di censura è fondato.

Autorizzata dall’autosufficienza del motivo sul punto, la Corte ha riscontrato che nel ricorso introduttivo del procedimento di reclamo contro la sentenza dichiarativa del fallimento della ricorrente (in estensione del dichiarato fallimento di *****) costei ebbe specificamente a richiedere alla Corte di appello l’ammissione di prova per testimoni sulle circostanze di fatto esplicitate nei sei capitoli all’uopo formulati.

Il contenuto di tali capitoli di prova (con particolare riferimento a quelli riprodotti nelle pag. 22 e 23 del ricorso: id est, capitoli nn. 1), 2), 3) e 4)) tende con chiarezza a dimostrare che gli atti dalla ricorrente compiuti nel periodo in essi indicato, dalla sentenza di appello valorizzati in funzione dell’affermazione della sussistenza in capo alla ricorrente del potere di amministrazione della società nel periodo compreso fra il mese di agosto 2012 e il mese di agosto 2013, sarebbero stati in buona sostanza eterodiretti dal socio accomandatario G. (i capitoli 3) e 4)) e che la ricorrente avrebbe tenuto rapporti con l’allora dottore commercialista della società fino al mese di settembre 2012 e che a partire da tale mese i rapporti con il professionista incaricato dell’assistenza contabile e tributaria della società sarebbero stati esclusivamente tenuti da detto accomandatario (i capitoli 1) e 3)).

Nella sentenza non si rinviene alcuna motivazione di una qualche consistenza alla base della (implicita) decisione di non ammettere la prova per testimoni in discorso; essendosi la Corte di appello limitata ad affermare che la sentenza appellata “merita conferma senza che risultino necessari approfondimenti istruttori ulteriori”: una motivazione, questa, meramente apparente.

Il giudice di merito ha un potere discrezionale di valutare la rilevanza in concreto dei mezzi di prova dedotti dalle parti tanto quanto alla loro “idoneità dimostrativa” che alla loro “non superfluità; sì che diniego di ammissione della prova relativamente a tali profili non è censurabile in sede di legittimità, ove il giudice di merito abbia motivato la sua decisione in modo esente da vizi logici e giuridici (cfr.: Cass. n. 1754 del 2012; Cass. n. 9551 del 2009).

La giurisprudenza di legittimità è poi costante nell’affermare che il vizio di motivazione per omessa ammissione di prova testimoniale ovvero di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa, ovvero non esaminata in concreto, sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (in questo senso, cfr.: Cass. n. 16214 del 2019; Cass. n. 5654 del 2017; Cass. n. 24754 del 2015; Cass. n. 11457 del 2007).

Tenuto pertanto presente tale ordine di concetti, non può che rilevarsi che: i fatti indicati nei capitoli della dedotta prova per testimoni sono idonei a dimostrare che gli atti descritti nella sentenza impugnata non costituirono atti di gestione aventi influenza quanto meno rilevante sull’amministrazione della società perché posti in essere sotto la direzione del socio accomandatario G. ovvero perché limitati al mese di agosto 2012 (quanto ai rapporti con il dottore commercialista); la motivazione caratterizzante la sentenza impugnata quanto all’affermata “superfluità” di ulteriori accertamenti istruttori è meramente apparente; sussiste dunque il denunciato vizio di omesso esame di fatti decisivi.

10. L’accoglimento del terzo motivo di ricorso determina l’assorbimento del secondo, quarto e quinto motivo in quanto dal compimento dell’ulteriore attività istruttoria possono derivare valutazioni diverse da quelle caratterizzanti la sentenza impugnata quanto alla conducenza dei fatti da essa accertati in termini di svolgimento da parte della ricorrente di atti di amministrazione della società evidenzianti l’esistenza di rapporto sociale, irregolare, fra la ricorrente è *****, con conseguente dichiarazione del fallimento del socio accomandatario irregolare, come tale illimitatamente responsabile per l’obbligazioni sociali esistenti prima del fallimento della società.

11. In conclusione, la sentenza impugnata: è confermata nella parte in cui interpretò, in riferimento al caso di specie, la L.Fall., art. 147, comma 2, in conformità ai principi di diritto ribaditi nel precedente punto 2.; è cassata nella parte in cui non ammise la prova per testimoni sui fatti indicati nei capitoli dalla ricorrente formulati nell’atto di reclamo contro la sentenza dichiarativa del proprio fallimento emessa dal Tribunale di Lecco il 18 settembre 2015, con rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, dovrà pronunciarsi sull’ammissione di tale mezzo orale di prova.

Al giudice di rinvio è demandata la decisione sulla regolamentazione delle spese processuali relative al giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte: rigetta il primo motivo; accoglie il terzo motivo; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolamentazione tra le parti delle spese relative al giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 15 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2021

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