Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.22673 del 11/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17212-2015 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA N. 121, presso lo studio dell’avvocato CARMEN RODA’, rappresentate e difeso dall’avvocato FILIPPO GARAFFA;

– ricorrente –

contro

REGIONE CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MADIA TOSCANO, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO FERRARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2028/2014 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 29/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/02/2021 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI.

RITENUTO

1. Che la Corte d’Appello di Reggio Calabria, con la sentenza n. 2028 del 2014, ha rigettato l’impugnazione proposta da C.G., nei confronti della Regione Calabria, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Reggio Calabria.

2. Il C. aveva adito il Tribunale premettendo di aver lavorato alle dipendenze della Regione Calabria con ultime funzioni di dirigente e segretario presso il Co.Re.Co. di Reggio Calabria, e di aver presentato domanda anticipata di cessazione dal servizio, protocollo n. *****, con la quale aveva manifestato di volersi avvalere della previsione della L.R. 11 gennaio 2001, n. 7, art. 2. Il lavoratore aveva chiesto di essere collocato a riposo non oltre il 1 maggio 2002, in modo da potersi avvalere del requisito minimo temporale (un anno) previsto dall’art. 2, comma 3 suddetta L.R., per godere dell’indennità straordinaria pari al 40% della retribuzione annuale.

La Regione aveva respinto l’istanza, e il lavoratore, anche in ragione dell’interpretazione autentica della suddetta disciplina regionale contenuta nella L.R. 13 novembre 2002, n. 46, aveva chiesto al Tribunale la condanna della Regione al pagamento della suddetta indennità.

3. Il Tribunale aveva rigettato la domanda.

4. La Corte d’Appello nel confermare la statuizione del giudice di primo grado ha statuito, in particolare, che correttamente quest’ultimo aveva affermato che l’attribuzione dell’indennità era incompatibile con la permanenza in servizio del lavoratore, e che non era stata proposta domanda di risarcimento del danno con riguardo al l ” agire dell’Amministrazione.

5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, prospettando due motivi di impugnazione.

6. Resiste la Regione Calabria con controricorso.

CONSIDERATO

1. Che occorre premettere che il lavoratore si era avvalso della facoltà prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, art. 16 che conteneva la disciplina generale dell’istituto del trattenimento in servizio, oltre il 65 anno di età, per un biennio, dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Il lavoratore, nato il *****, in data 11 marzo 2002, aveva presentato l’istanza in questione, chiedendo di essere collocato a riposo da subito, e comunque non oltre il 1 maggio 2002 per non vedersi privato del requisito minimo temporale (equivalente ad un’annualità), di cui alla L.R. n. 7 del 2002, art. 2, comma 3 dell’art. 2 secondo cui, in relazione all’indennità di cui al comma 2: “ai fini del predetto calcolo, frazioni di mesi superiori a sei, sono considerate equivalenti ad una annualità”.

La L.R. n. 7 del 2002, art. 2, comma 1, aveva stabilito che la Regione doveva favorire l’esodo volontario dei dirigenti e dipendenti che entro il 31 dicembre 2003 avessero maturato o maturassero il diritto al collocamento a riposo.

L’esodo volontario (art. 2, comma 2 L.R. ult. cit) era incentivato mediante l’erogazione di una indennità straordinaria pari al 40 per cento della retribuzione annuale lorda in godimento alla data della domanda di cui all’art. 3, moltiplicato per gli anni mancanti al raggiungimento del termine per il definitivo collocamento a riposo e, comunque. non superiore a 36 mesi.

La Regione, rigettava l’istanza del lavoratore in data 5 giugno 2002. Il lavoratore veniva collocato a riposo il 1 gennaio 2003.

2. Con la legge di interpretazione autentica 13 novembre 2002, n. 46, il legislatore regionale stabiliva che: “alla L.R. 11 gennaio 2002, n. 7, art. 2, comma 2 per “termine per il definitivo collocamento a riposo” si intende: il compimento del 65 anno di età ovvero del 67 anno di età per i dipendenti che alla data di entrata in vigore della L.R. 11 gennaio 2002, n. 7 beneficiano della proroga biennale ai sensi del D.Lgs. n. 30 dicembre 1992, n. 503, art. 16".

3. In ragione di tale quadro normativo, la Corte d’Appello ha ritenuto che al lavoratore non potesse essere corrisposta l’indennità in questione, atteso che, anche dando rilievo alla norma di interpretazione autentica, non si era verificata la cessazione dal servizio con almeno un anno di anticipo e nel periodo in questione il lavoratore aveva percepito la retribuzione.

Di talché la Corte d’Appello ha affermato che la fattispecie avrebbe potuto dar luogo ad un’obbligazione risarcitoria della Regione, ma tale domanda non era stata formulata dal lavoratore con il ricorso introduttivo. ma in sede di mutati libelli, come confermato dalle note autorizzate depositate in primo grado.

Comunque, anche a voler considerare che si vertesse in ipotesi di emendatio libelli, andava escluso che quest’ultima potesse essere autorizzata dal Tribunale.

4. Tanto premesso, può passarsi ad esaminare i motivi di ricorso.

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto.

Nel corpo del motivo sono richiamati la L.R. n. 7 del 2002, art. 2, commi 2 e art. 3, e la L.R. n. 46 del 2002.

Assume il ricorrente che erroneamente la Corte d’Appello non gli aveva riconosciuto il diritto a percepire l’indennità in questione, atteso che se il presupposto per l’attribuzione dell’indennità era il prepensionamento, la stessa gli andava necessariamente accordata, come confermato dalla legge interpretativa.

5.1. Il motivo non è fondato.

Come affermato dalla Corte d’Appello la L.R. n. 46 del 2002 ha natura interpretativa e dunque efficacia retroattiva.

A ciò consegue che per “termine per il definitivo collocamento a riposo”, allorché il lavoratore formulava la richiesta, doveva intendersi non solo il compimento del 65 anno di età, ma anche del 67 anno di età per i dipendenti che, alla data di entrata in vigore della L.R. 11 gennaio 2002, n. 7, beneficiavano della proroga biennale, ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, art. 16.

Tuttavia, allorché il lavoratore aveva agito in giudizio dinanzi al Tribunale, con ricorso depositato l’11 giugno 2010, per chiedere la condanna della Regione alla corresponsione della suddetta indennità incentivante, quest’ultima in quanto imprescindibilmente connessa dal legislatore all’effettivo anticipato volontario collocamento a riposo, che nella specie non si era perfezionato, non poteva essere attribuita, come affermato dalla Corte d’Appello, non rispondendo, alla ratio della legge la corresponsione sia della retribuzione sia dell’indennità.

Correttamente, quindi, il giudice di appello non ha riconosciuto il diritto del lavoratore a percepire l’indennità per lo stesso periodo durante il quale, permanendo egli in servizio, aveva avuto la corresponsione della retribuzione.

La Corte d’Appello ha affermato che, semmai, il titolo azionabile era di natura risarcitoria. Tuttavia, ha escluso che tale domanda fosse stata proposta con l’atto introduttivo del giudizio, nel quale il lavoratore aveva rivendicato il diritto ai benefici di cui alla L.R. n. 7 del 2002, e precisando di essere ormai a riposo, aveva dedotto di avere comunque mantenuto il diritto al pagamento, oltre che degli interessi di legge e rivalutazione monetaria, dell’indennità straordinaria pari al 40% della retribuzione annuale in godimento, e concludeva chiedendo al Tribunale di riconoscere il diritto alla liquidazione e al pagamento dell’indennità straordinaria in questione, con la condanna al pagamento delle somme dovute per tale indennità.

6. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione falsa applicazione di norme di diritto e contraddittoria motivazione sulla interpretazione della domanda.

E’ censurata la statuizione che ha ritenuto non compresa nella domanda proposta con il ricorso introduttivo la richiesta di risarcimento del danno.

Il lavoratore deduce che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia, era compito del giudice interpretare la domanda non solo nella formulazione letterale, ma anche sotto un profilo sostanziale, con riguardo alle finalità perseguite.

Ricorda, quindi, che nella lettera di richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione vi era espresso riferimento alle istanze risarcitorie. L’indennità straordinaria costituiva il bene oggetto del danno cagionato dal comportamento illegittimo dell’Amministrazione, venendo a costituire risarcimento per equivalente monetario.

Pertanto, il giudice di merito doveva ritenere inclusa nella domanda proposta con il ricorso introduttivo, quella di risarcimento dei danni, e la sentenza di appello andava modificata nella parte in cui aveva statuito che la domanda di risarcimento non era dunque affatto contenuta nel ricorso introduttivo (si.v., pag. 19 del ricorso), ritenendo, invece, che il ricorrente aveva introdotto il giudizio chiedendo l’importo dovutogli per l’indennità in questione anche a titolo di risarcimento danni.

8. Il motivo è inammissibile.

8.1. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, ove vengano in rilievo atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, c.p.c., n. 3, di carenze motivazionali, ai sensi dell’art. 360, c.p.c., n. 5, o anche di un error in procedendo, è necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indicata l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità, senza che possa attribuirsi rilievo al fatto che nell’indice si indicano come allegati i fascicoli di parte di primo e secondo grado (Cass., S.U., n. 22726 del 2011, Cass., S.U., n. 8077 del 2012).

I requisiti imposti dall’art. 366, comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo, perché solo l’esposizione chiara e completa dei fatti di causa e la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori e degli atti processuali rilevanti consentono al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle censure.

Gli oneri sopra richiamati sono altresì funzionali a permettere il pronto reperimento degli atti e dei documenti il cui esame risulti indispensabile ai fini della decisione sicché, se da un lato può essere sufficiente per escludere la sanzione della improcedibilità il deposito del fascicolo del giudizio di merito, ove si tratti di documenti prodotti dal ricorrente, oppure il richiamo al contenuto delle produzioni avversarie, dall’altro non si può mai prescindere dalla specificazione della sede in cui il documento o l’atto sia rinvenibile e dalla sintetica trascrizione nel ricorso del contenuto essenziale del documento asseritamente trascurato od erroneamente interpretato dal giudice del merito (Cass., S.U, n. 5698 del 2012; Cass. S.U., n. 25038 del 2013, Cass., S.U., n. 34469 del 2019).

Nella specie, il ricorrente non trascrive il contenuto dell’atto con cui veniva esperito il tentativo di conciliazione, né la domanda introduttiva del giudizio, le note autorizzate di cui è menzione nella sentenza di appello, e la statuizione del giudice di primo grado, in violazione dei suddetti oneri, la cui osservanza è altresì funzionale all’apprezzamento della rilevanza delle censure da parte di questa Corte.

Pertanto, la statuizione e le argomentazioni della Corte d’Appello sulla introduzione della domanda risarcitoria in sede di mutatio libelli, in ragione dell’indicazione di una diversa causa petendi rispetto a quella illustrata con il ricorso introduttivo, non sono adeguatamente censurate dal ricorrente.

8.2. Ne’, peraltro, è censurata l’ulteriore statuizione con cui il giudice di appello ha affermato che, anche a voler considerare che si vertesse in ipotesi di emendatio libelli, andava escluso che quest’ultima potesse essere autorizzata dal Tribunale, atteso che non sussisteva alcun grave motivo, specie considerando che il lavoratore aveva atteso sette anni prima di agire in giudizio, e le difese dell’Amministrazione non erano tali da indurre una rimeditazione della posizione difensiva dello stesso.

In proposito, si può ricordare che, come affermato da questa Corte, la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea configura una pronuncia basata su due distinte – rationes decidendi -, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione (Cass. 17182 del 2020).

9. Il ricorso deve essere rigettato.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

11. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15 per cento, e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2021

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