LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –
Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23676-2018 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA PINETA SACCHETTI, 482, presso lo studio dell’avvocato EMANUELA VERGINE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA ROSARIA SAVOIA;
– ricorrente –
contro
C.G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIVIA DRUSILLA, 59, presso lo studio dell’avvocato CARLA D’AGOSTINO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANACLETO DOLCE e VINCENZO SARNICOLA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4612/2018 della COMM.TRIB.REG.CAMPANIA SEZ.DIST. di SALERNO, depositata il 15/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/05/2021 dal Consigliere Dott. DE MASI ORONZO.
RITENUTO
CHE:
Agenzia delle Entrate – Riscossione propone ricorso, affidato ad un motivo, illustrato con memoria, per la cassazione della sentenza, indicata in epigrafe, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania, che ha respinto l’appello avverso la decisione di primo grado, di accoglimento del ricorso di C.G.M. avente ad oggetto l’impugnazione degli avvisi di iscrizione ipotecaria e di fermo amministrativo, in tesi, mai comunicati al contribuente, il quale assumeva essere stati eseguiti sulla base di cartelle di pagamento mai notificate dall’Agente della riscossione e della cui esistenza era venuto a conoscenza soltanto a seguito di richiesta degli estratti di ruolo.
Il Giudice di appello osservava, in particolare, come la tardività del deposito della documentazione attestante la notifica degli atti prodromici delle misure cautelari, effettuato solo nel giudizio di secondo grado, nonostante l’invito al riguardo all’Agente della riscossione dal giudice di primo grado, impedisse di valutarne la valenza probatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, in quanto la disposizione non consente alle parti di produrre in sede di gravame documenti preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado, e pur trattandosi, nel caso di specie, delle relate di notifica, evidenziava come la lettura restrittiva del comma 2 della norma richiamata trovasse alimento nei principi di lealtà processuale e nella esigenza di garantire l’ordinato svolgimento del processo.
Il contribuente resiste con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
Con unico ed articolato motivo d’impugnazione la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, commi 1 e 2, art. 22, punto 4, art. 32, punto 1, art. 24 Cost., per avere la CTR negato l’ammissibilità della produzione in grado di appello di documenti nuovi, senza considerare che nel processo tributario non vige, per le prove documentali in appello, alcuna ipotesi sanzionatoria di decadenza, com’e’ anche ricavabile dalla sentenza n. 199/2017 della Corte Costituzionale, con riferimento al divieto previsto dall’art. 345 c.p.c., essendo la materia specificamente regolata dalla sopra richiamata disposizione che fa “salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.
La suesposta censura è fondata e merita accoglimento.
La decisione impugnata non ha fatto corretta applicazione del consolidato principio – dal quale si è consapevolmente discostata – secondo cui “In materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima – non trova applicazione la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3, (nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009), essendo la materia regolata dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado.” (Cass. n. 27774/2017).
L’accoglimento del motivo d’impugnazione riposa sulla chiara lettera del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, che abilità alla produzione di qualsivoglia documento in appello, senza restrizione alcuna e con disposizione autonoma rispetto a quella che, nel comma 1, sottopone invece a restrizione l’accoglimento dell’istanza di ammissione di altre fonti di prova (Cass. n. 22776/2015).
Ciò è confermato, avuto riguardo al diverso tenore delle corrispondenti disposizioni, dal fatto che, nel rito del lavoro, l’acquisizione di nuovi documenti o l’ammissione di nuove prove da parte del giudice di appello rientra tra i poteri discrezionali allo stesso riconosciuti dagli artt. 421 e 437 c.p.c. (Cass. n. 26117/2016, 23652/2016), mentre, nel rito ordinario, l’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, attribuiva rilevanza rindispensabilità” dei nuovi mezzi di prova in appello (Cass. S.U. n. 10790/2017), e nella sua nuova formulazione pone il divieto assoluto di ammissione degli stessi, ferma per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (Cass. n. 26522/2017); che la produzione in appello, come nel caso di specie, dell’originale dell’atto impositivo notificato, del quale in prime cure era appunto contestata dalla contribuente l’avvenuta ricezione, costituisce una mera difesa – consentita anche alla parte rimasta contumace in prime cure – in quanto il divieto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, concerne solo le eccezioni in senso stretto (Cass. n. 12008/2011, n. 13144/2010, n. 14020/2007).
Non appare corretto il riferimento, contenuto nella decisione di secondo grado, al regime della decadenza, trattandosi di “sanzione” processuale non prevista e neppure funzionale alle speciali esigenze che informano il rito tributario, considerato che, viceversa, la previsione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, intende chiaramente porre rimedio alla rigidità della prevista preclusione probatoria derivante dall’omesso adempimento in primo grado (citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, comma 1).
I comportamenti processuali tenuti dalla parte per negligenza professionale, per mero calcolo di convenienza, o per violazione dell’ordine del giudice, posso piuttosto assumere rilevo, sul piano delle spese del giudizio, ove abbiano comportato un inutile dispendio di attività processuali.
In questo senso si è espressa la Corte affermando che, “In tema di contenzioso tributario, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, le parti possono produrre in appello nuovi documenti, anche ove preesistenti al giudizio di primo grado, ferma la possibilità di considerare tale condotta ai fini della regolamentazione delle spese di lite, nella quale sono ricomprese, ex art. 15 del detto decreto, quelle determinate dalla violazione del dovere processuale di lealtà e probità.” (Cass. n. 8927/2018).
In conclusione, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Campania, in diversa composizione, per nuovo esame della controversia, e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio con collegamento da remoto, il 20 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021
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