LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17512/2019 R.G. proposto da:
E.K., rappresentato e difeso dall’Avv. Anna Lombardi Baiardini, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia n. 833/18, depositata il 29 novembre 2018;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30 marzo 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 29 novembre 2018, la Corte d’appello di Perugia ha rigettato il gravame interposto da E.K., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza emessa il 27 aprile 2017, con cui il Tribunale di Perugia aveva rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante.
Premesso che, a sostegno della domanda, l’appellante aveva riferito di essersi allontanato dal proprio Paese di origine per sottrarsi a dispute e conflitti in atto all’interno del suo nucleo familiare e culminanti in violente liti, la Corte ha escluso la configurabilità delle fattispecie di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), aggiungendo che la situazione socio-politica della regione da cui proveniva l’appellante non era di gravita tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della lett. e) del medesimo articolo, non sussistendo uno stato di violenza indiscriminata e conflitto armato. Ha confermato che i fatti narrati dall’appellante, oltre a non essere suffragati da elementi di prova, risultavano generici e poco credibili, nonché circoscritti all’ambito familiare, e quindi non qualificabili come atti persecutori legati al credo religioso, all’appartenenza politica o a quella etnica. Ha escluso infine la configurabilità dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, ribadendo che nell’area di origine dell’appellante non era in atto una situazione di conflitto armato, e ritenendo pertanto insussistenti i gravi motivi richiesti per l’applicazione della misura in questione.
3. Avverso la predetta sentenza l’ E. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. Il Ministero dello interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, anziché mediante controricorso: nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3 e 5 e art. 14, lett. e), e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, artt. 3 ed 8, rilevando che, nell’escludere la credibilità delle dichiarazioni da lui rese a sostegno della domanda, la Corte territoriale ha omesso di valutarne la coerenza e la plausibilità, non avendo tenuto conto dello sforzo da lui compiuto per circostanziarle e non avendo provveduto ad approfondire la situazione in atto nel suo Paese di origine, con particolare riguardo all’incapacità delle forze di polizia di offrire un’adeguata tutela ed alla prassi, seguita dalle autorità statali, di non ingerirsi nelle liti tra familiari.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In tema di protezione internazionale, questa Corte ha infatti affermato ripetutamente che le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (cfr. Cass., Sez. I, 4/11/2020, n. 24575; 7/08/2019, n. 21142). Il predetto apprezzamento integra un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per inesistenza materiale, mera apparenza, perplessità o grave contraddittorietà della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 2/07/2020, n. 13578; 11/03/2020, n. 6897; Cass., Sez. III, 19/06/2020, n. 11925). Tali vizi nella specie non sono stati in alcun modo dedotti, essendosi il ricorrente limitato a far valere la violazione di legge, in relazione all’omesso compimento di approfondimenti istruttori officiosi in ordine alla situazione generale del suo Paese di origine, senza considerare che l’esito negativo del controllo in ordine alla credibilità soggettiva del richiedente risulta di per sé sufficiente a dispensare il giudice dalla predetta indagine, non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove, come nella specie, sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925).
3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, e 5, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1 e comma 1, n. 1, del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 28, e dell’art. 8 della CEDU, ribadendo che la Corte territoriale ha omesso di approfondire la situazione in atto nel suo Paese di origine, anche ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. Premesso che la sentenza impugnata ha confuso i relativi presupposti con quelli richiesti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. e), per il riconoscimento della protezione sussidiaria, richiama la giurisprudenza più recente, secondo cui l’applicazione della misura in questione postula un incolmabile sproporzione, sotto il profilo del godimento dei diritti fondamentali, tra la situazione attuale del richiedente e quella in cui versava prima dell’espatrio. Sostiene che, nel negare il riconoscimento della protezione umanitaria, la Corte territoriale ha omesso di valutare le informazioni da lui prodotte, attestanti l’esistenza di una situazione di violenza diffusa in Nigeria, e le sofferenze da lui patite nel periodo di soggiorno in Libia, nonché la sua giovane età, le violenze da lui subite, la condotta irreprensibile tenuta in Italia ed il percorso d’integrazione quivi avviato.
3.1. Il motivo è inammissibile.
E’ pur vero che, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata si è limitata a ribadire le considerazioni già svolte in riferimento alla protezione sussidiaria, secondo cui nel Paese di origine del ricorrente non era in atto una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato, senza tener conto della diversità dei presupposti che legittimano l’applicazione delle due misure, e della conseguente necessità di procedere ad un’autonoma valutazione, avente ad oggetto la sussistenza dei requisiti prescritti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19. E’ noto infatti che il riconoscimento della protezione umanitaria richiede una valutazione comparativa, da svolgersi caso per caso, attraverso il confronto tra la vita privata e familiare condotta dal richiedente, in Italia e la situazione personale in cui versava prima dell’abbandono del paese di origine, ed alla quale si troverebbe nuovamente esposto in caso di rimpatrio, in modo tale da verificare se quest’ultimo possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass., Sez. I, 14/08/2020, n. 17130; 23/02/2018, n. 4455). Tale privazione non deve necessariamente costituire l’effetto di un conflitto armato, quale quello richiesto dall’art. 14, lett. e) ai fini dell’applicazione della protezione sussidiaria, ovverosia di un contrasto tra le forze governative dello Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati che si contendono il controllo del territorio, d’intensità tale da produrre una situazione di violenza generalizzata, fonte di pericolo per la vita o l’incolumità personale di chiunque risieda nell’area interessata (cfr. Cass., Sez. II, 17/07/2020, n. 15317; Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090). Essa può dipendere anche da altri fattori, correlati alla situazione politica, economica o sociale del paese di origine, la cui allegazione non può tuttavia ritenersi sufficiente a legittimare il riconoscimento della protezione umanitaria, in difetto dell’attendibile deduzione di fatti specifici dai quali emerga la personale esposizione del richiedente alle conseguenze della violazione dei predetti diritti, in relazione alla vita privata e familiare da lui condotta in patria: diversamente, si prenderebbe infatti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il paradigma normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13079; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304). Tali fatti sono rimasti nella specie assolutamente imprecisati, essendosi il ricorrente limitato, nel censurare l’apprezzamento compiuto dalla sentenza impugnata, ad insistere sulla situazione d’instabilità ed insicurezza esistente in Nigeria, la cui valutazione non potrebbe tuttavia giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, in considerazione della ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda, e della mancata deduzione di altri fatti specifici idonei a far emergere il rischio individuale di una grave violazione dei diritti fondamentali.
Quanto poi alle sofferenze patite dal richiedente durante il soggiorno in Libia, è appena il caso di richiamare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’allegazione delle gravi violazioni dei diritti umani in atto in un paese di transito, non accompagnata dalla precisazione del collegamento esistente tra il soggiorno in quel paese ed il contenuto della domanda, non può assumere alcun rilievo ai fini del riconoscimento della protezione, dal momento che, dovendo il rimpatrio essere disposto verso il Paese di origine (o verso quello di dimora abituale, ove si tratti di un apolide), è in riferimento a quest’ultimo che occorre accertare l’esposizione del richiedente al rischio di persecuzioni o danni gravi (cfr. Cass., Sez. III, 5/06/2020, n. 10835; Cass., Sez. I, 6/12/2018, n. 31676; Cass., Sez. VI, 20/11/2018, n. 29875). La protezione umanitaria non può essere d’altronde accordata automaticamente per il solo fatto che il richiedente abbia subito violenze o maltrattamenti nel paese di transito, occorrendo invece che tali violenze, per la loro gravita o per la durevolezza dei loro effetti, si siano tradotte in una condizione di vulnerabilità personale, nel senso inteso dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 (cfr. Cass., Sez. I, 16/12/2020, n. 28781; 3/07/2020, n. 13758), nella specie, come si è detto, neppure allegata.
In difetto dell’allegazione di una condizione di vulnerabilità personale o dell’esposizione al rischio di gravi violazioni dei diritti umani, deve ritenersi infine irrilevante anche la prova dell’avvenuto inserimento del richiedente nel tessuto economico-sociale italiano, la cui isolata considerazione non potrebbe in alcun modo condurre al riconoscimento della protezione umanitaria, ai fini della quale si richiede, come già detto, un raffronto tra il livello d’integrazione da lui raggiunto nel paese di accoglienza e la situazione soggettiva e oggettiva in cui egli versava prima dell’espatrio (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. II, 17/07/2020, n. 15319; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304).
4. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 30 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021