Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.22954 del 16/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22393-2019 proposto da:

B.A.O., rappresentato e difeso dall’avvocato CARLO BENINI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO PROTEZIONE INTERNAZIONALE BOLOGNA SEZIONE DISTACCATA FORLI’ CESENA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 284/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 23/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO ORICCHIO.

RILEVATO

che:

e’ stata impugnata da B.A.O., cittadino della *****, la sentenza n. 284/2019 della Corte di Appello di Bologna.

Il ricorso è fondato su tre motivi e non è resistito con controricorso.

Per una migliore comprensione della fattispecie in giudizio va riepilogato, in breve e tenuto conto del tipo di decisione da adottare, quanto segue.

L’odierna parte ricorrente formulava istanza, di cui in atti, alla competente Commissione territoriale per il riconoscimento dello stato di rifugiato e della protezione internazionale.

La Commissione rigettava l’istanza.

L’odierno ricorrente impugnava, quindi, detto rigetto con ricorso innanzi al Tribunale di Bologna.

Quest’ultimo respingeva il ricorso.

Avverso la decisione del Tribunale di prima istanza l’odierno ricorrente interponeva appello a sua volta rigettato con la decisione oggetto del ricorso in esame.

Il ricorso viene deciso ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. con ordinanza in camera di consiglio non ricorrendo l’ipotesi di particolare rilevanza delle questioni in ordine alle quali la Corte deve pronunciare.

CONSIDERATO

che:

1.- Con il primo motivo del ricorso si censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 5.

Parte ricorrente assume che la Corte territoriale non avrebbe applicato il principio dell’onere della prova attenuato secondo i dettami di cui alla pronuncia delle S.U. di questa Corte n. 27310/2008 e non avrebbe valutato la credibilità del ricorrente.

Quanto, innanzitutto, alla censura relativa alla pretesa non valutazione della credibilità del ricorrente deve osservarsi quanto segue.

Il Giudice del merito ha, attentamente, valutato (e non omesso di valutare) l’anzidetta credibilità.

In particolare è stato dato ampio spazio alla “narrazione frammentaria e vaga” del ricorrente (nella fattispecie erano stati riferiti vari e susseguenti episodi e vicende di relazioni omosessuali intrattenute dal richiedente, che – tuttavia – aveva poi pure sposato una cugina dalla quale aveva anche avuto un figlio).

La censura svolta appare, quindi, finalizzata inammissibilmente ad una revisione – in punto di fatto – della vicenda e della narrazione, già valutata nella sede propria dal Giudice del merito con proprio motivato ragionamento decisorio non suscettibile di revisione in questa sede (ex plurimis: Cass. 14 novembre 2013, n. 25608), specie quanto, come in ipotesi, dallo stesso compiuto ragionamento non “emerga una totale obliterazione di elementi” (Cass. civ., S.U., Sent. 25 ottobre 2013, n. 24148).

Quanto, poi, alla pretesa mancata attivazione dell’onere della prova attenuato va rilevato – in primis – quanto segue.

Parte ricorrente si appella, fra l’altro, alla nota pronuncia Cass. S.U., 17 novembre 2008, n. 27310.

Orbene, con quella pronuncia fu affermato che:

“in tema di riconoscimento dello “status” di rifugiato, anche nel vigore del D.L. n. 416 del 1989, art. 1 convertito nella L. n. 39 del 1990, i principi che regolano l’onere della prova, incombente sul richiedente, devono essere interpretati secondo le norme di diritto comunitario contenute nella Direttiva 2004/83/CE, recepita con il D.Lgs. n. 251 del 2007, nonostante l’inapplicabilità diretta “ratione temporis” delle disposizioni comunitarie, in quanto non ancora scaduto il termine di recepimento al momento della pronuncia della sentenza di secondo grado. Secondo il legislatore comunitario, l’autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria. Pertanto, in considerazione del carattere incondizionato – e della precisione del contenuto di queste disposizioni, ed in virtù del criterio dell’interpretazione conforme elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, tali principi influenzano l’interpretazione di tutto il diritto nazionale anche se non di diretta derivazione comunitaria. Pertanto, seguendo il percorso ermeneutico indicato nella Direttiva anche nell’interpretazione della L. n. 30 del 1990, art. 1, comma 5, applicabile al caso di specie, ai sensi del quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e “per quanto possibile” documentata, deve ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello “status” di rifugiato e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche dall’adozione del rito camerale, applicabile in questi procedimenti anche prima dell’entrata in vigore dell’espressa previsione normativa contenuta nel D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35. (La Corte ha cassato la pronuncia di merito che non aveva ritenuto ammissibile la prova testimoniale richiesta dal ricorrente in quanto non articolata per capitoli separati e reputando insufficienti le dichiarazioni del richiedente in ordine alla professione religiosa sciita e all’appartenenza alla minoranza curda, nonostante l’attestata conoscenza di tale idioma, aveva rigettato la domanda).”

Alla luce di quanto affermato ed innanzi riportato – giova chiarire definitivamente – non risulta affatto conclamato (come da alcuni e dall’odierno ricorrente si postula) uno sconfinato “ruolo attivo (da parte del Giudice) nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria”.

Infatti nella specifica fattispecie che diede corso alla succitata pronuncia delle S.U. del 2008 veniva cassata la pronuncia di merito che non aveva ritenuto – come già ricordato – ammissibile la prova testimoniale comunque formalmente richiesta dal ricorrente ancorché senza regolare articolazione per capitoli separati.

Nella odierna fattispecie di cui al ricorso in esame – viceversa – si è al cospetto di inesistenza di attività prodromica istruttoria da parte del ricorrente e di una sua richiesta di esercizio, da parte del Giudice, di “un ruolo attivo” e di officiosi compiti di cooperazione istruttori a carattere del tutto sussidiario (rispetto al comunque permanente onere istruttorio, anche minimo, della parte interessata) ed esplorativo.

Appare, quindi, del tutto elusiva la censura, svolta in punto dalla parte ricorrente, rispetto alla valutazione ed alla ratio della decisione impugnata ed alla corretta natura dell’allegato principio del cosiddetto onere della prova attenuato e dell’officioso dovere di cooperazione istruttoria.

Il motivo e’, dunque, inammissibile.

2.- Con il secondo motivo del ricorso si eccepisce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, il vizio di violazione di norme di legge (D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c)).

Secondo il ricorrente, per effetto della sua narrazione non congruamente valutata e del conseguente rigetto della domanda di protezione internazionale, egli stesso sarebbe stato privato della possibilità di vivere la propria vita omosessuale cosa che gli sarebbe stata impedita nel paese di provenienza, per di più con la ricorrenza di un grave pericolo che avrebbe imposto quantomeno la concessione della protezione sussidiaria).

Orbene, premesso che dagli stessi atti di causa della parte non emerge con compiutezza in qual ***** (*****, ***** o *****) si sia concretamente e pericolosamente impedito lo svolgimento della “propria vita omosessuale”, va rilevato quanto segue.

Dalla sentenza impugnata risulta che -secondo la narrazione del richiedente – egli “sarebbe andato via dal suo paese (verosimilmente *****) per recarsi in *****”, ma – va evidenziato – le sue ripetute affermate relazioni omosessuali, al di là di un aspetto di dispregio, non risultavano poi essere state ostative anche al detto matrimonio ed al concepimento di figlio.

Al riguardo la Corte territoriale sottolinea l’inverosimiglianza del “fatto che il ricorrente si fosse sposato e avesse avuto un figlio, senza far sorgere il sospetto della sua omosessualità”

Ed, inoltre, la stessa Corte evidenzia ed accerta la “completa inattendibilità del racconto” del richiedente (v. p. 4 sentenza impugnata), rifacendosi, – per il resto – a noti e qui ribaditi principi della giurisprudenza in materia di questa Corte (Cass. Sez. Prima, Sent. 23 dicembre 2019, n. 26056; Sez. Sesta – 1, Ord. 27 giugno 2028 n. 16925).

Infine deve evidenziarsi che la sussistenza dei necessari requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato o per il riconoscimento della protezione sussidiaria non vengono neppure addotti (al di là della mera enunciazione della impossibilità “di vivere la propria vita omosessuale”) con l’allegazione – anche minima – di coerenti ed idonei elementi e riferimenti fattuali.

Il motivo e’, pertanto, inammissibile.

3.- Con il terzo motivo del ricorso si prospetta la violazione di legge (D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32 e D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5) quanto alla protezione umanitaria.

Anche tale motivo non può superare il vaglio di ammissibilità.

Parte ricorrente adduce la ricorrenza di seri motivi che avrebbero dovuto indurre alla concessione della suddetta protezione, ma non specifica dettagliatamente né indica compiutamente quali concreti pericoli vi sarebbero stati (lasciando, come notato innanzi, al Giudice un indefinito compito istruttorio esplorativo e, quindi, l’onere officioso di cooperare).

Per di più la pretesa serietà dei motivi meramente enunciati si scontra con l’accertamento del Giudice del merito che ha accertato come la unilaterale narrazione del richiedente “non supera la minima soglia di credibilità”.

La ratio del motivo qui esaminato emerge, quindi, del tutto nel suo preciso scopo di ottenere inammissibilmente (come già innanzi rilevato) una revisione del ragionamento decisorio svolto nella propria competente sede dal Giudice del merito in assenza di obliterazione totale di elementi.

Il motivo e’, quindi, inammissibile.

4.- Il ricorso va, quindi e nel suo complesso, dichiarato inammissibile.

5.- Nulla va statuito per le spese stante il mancato svolgimento di attività difensiva ad opera della parte intimata.

6.- Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, se dovuto, non risultando il ricorrente ammesso in via definitiva al beneficio del gratuito patrocinio a spese dello Stato.

PQM

LA CORTE dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2021

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