LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –
Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –
Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 32477-2018 proposto da:
D.L.C., elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2213/2018 della COMM. TRIB. REG. LAZIO, depositata il 09/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/05/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.
RILEVATO
Che:
1. D.L.C. ricorre, sulla base di un solo motivo, illustrato nelle memorie ex art. 380 c.p.c., per la cassazione della sentenza n. 2213/2018, depositata il 9 aprile 2018, della CTR del Lazio, che aveva respinto l’appello avverso la sentenza della CTP di Roma, la quale aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso per revocazione avverso la sentenza della CTP n. 9488/2015, relativa all’opposizione ad iscrizione ipotecaria.
La CTR del Lazio ha motivato la reiezione del gravame sul rilievo che l’istituto della revocazione ex art. 395 c.p.c. è applicabile avverso le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado.
Con la conseguenza che l’eventuale errore di fatto commesso dai giudici di prime cure ovvero l’eventuale dolo di una parte in danno dell’altro non poteva essere eccepito mediante revocazione, bensì nelle forme dell’appello ai sensi del D.Lgs. n. 564 del 1992, ex artt. 52 e ss.. L’Agenzia delle entrate e l’Agenzia – Riscossione hanno svolto difesa con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
2. Con l’unico motivo di ricorso si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, in combinato disposto con l’art. 395 c.p.c.ex art. 360 c.p.c., n. 3); per avere i giudici regionali respinto erroneamente l’appello, atteso che i giudici di primo grado erano incorso in evidente errore revocatorio, giacché se effettivamente essa ricorrente non avesse depositato la prova della notifica alla società di riscossione, il vizio avrebbe dovuto essere rilevato in via preliminare come prevede il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 27 ed evidenziato a verbale prima della trattazione.
Sostiene al riguardo di aver prodotto la ricevuta di deposito della prova dell’avvenuta di notificazione al momento della costituzione in giudizio, documentazione evidentemente sottratta dal fascicolo da parte di Equitalia sud s.p.a..
In aggiunta assume che l’errore di fatto poteva essere fatto valere solo col rimedio della revocazione non potendo esso costituire un motivo di appello; sostenendo che limitare il rimedio della revocazione alle sentenze di secondo grado o pronunciate in un unico grado costituirebbe una limitazione costituzionale al diritto di difesa ex artt. 3 e 24 Cost..
3. Il ricorso è infondato con riferimento alla censura relativa alle sentenze che ex art. 395 c.p.c. possono essere oggetto di revocazione ed inammissibile con riguardo alle questioni relative all’errore di fatto agitate nel giudizio di revocazione.
Con riferimento a detto ultimo profilo, difatti, la CTR del Lazio non ha affatto scrutinato la sussistenza o meno di un errore revocatorio della sentenza della CTP, limitandosi ad affermare che l’unico rimedio avverso l’errore di fatto commesso dal giudice di primo grado ovvero avverso la sentenza che sia effetto di dolo di una parte in danno dell’altro è l’appello, previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52.
Con riguardo alla impugnabilità delle sentenze di primo grado, si osserva che l’art. 395 c.p.c. prevede che possono essere impugnate per revocazione, oltre alle sentenze pronunciate in unico grado (ipotesi non ricorrente nel caso di specie), quelle emesse in secondo grado e che, in forza dell’art. 398 c.p.c., la domanda di revocazione si propone innanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.
Ne’ può ritenersi applicabile la previsione dell’art. 396 c.p.c. che consente la revocazione anche nei confronti delle sentenze per le quali è scaduto il termine dell’appello “nei casi dell’articolo precedente, nn. 1, 2, 3 e 6, purché la scoperta del dolo o della falsità o il recupero dei documenti o la pronuncia della sentenza di cui all’art. 6 siano avvenuti dopo la scadenza del termine suddetto.” (Cass. n. 19233/2015);
Ciò in quanto, al momento della presentazione del ricorso per revocazione (6 novembre 2015) non era ancora decorso il termine lungo per proporre appello (che spirava il 15 dicembre 2015). Ne consegue che, qualora non sia ancora decorso il termine per proporre appello, la sentenza di primo grado deve essere impugnata con il normale mezzo di gravame, convertendosi i motivi di revocazione in motivi di appello, che è un rimedio impugnatorio a carattere generale.
Tra revocazione ed appello non sussiste difatti un rapporto di concorrenza bensì di subordinazione ovvero di sussidiarietà della revocazione rispetto all’appello (la revocazione è ammissibile solo quando l’appello è escluso).
Il comma 2 stabilisce, ad ulteriore conferma del rapporto intercorrente tra revocazione e appello, che qualora i fatti a cui si ricollega la decorrenza del termine per proporre la revocazione straordinaria sopraggiungano durante il corso del termine per proporre l’appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento, in modo da raggiungere i trenta giorni da esso.
Affinché possa operare la proroga del termine per l’appello, l’appellante deve offrire la prova di aver recuperato, durante il corso di tale termine, documenti decisivi e non semplicemente utili per la definizione della controversia, nonché deve fornire prova della causa di forza maggiore o del fatto dell’avversario che gli avrebbero impedito di produrre prima tali documenti.
Nella fattispecie, già la ricorrente in sede di revocazione alludeva al dolo della controparte che avrebbe sottratto il documento dal fascicolo, con la conseguenza che la “la scoperta del dolo” sarebbe avvenuta prima del decorso del termine per proporre appello.
In ogni caso, la ricorrente non ha allegato né di aver scoperto il dolo successivamente al decorso del termine per impugnare né di aver ricevuto la notifica della sentenza della CTP – impugnata per revocazione – (depositata il 4 maggio 2015) che avrebbe determinato il decorso di un termine più breve per impugnare.
A tal proposito, giova altresì chiarire che la notifica dell’istanza di correzione di errore materiale della sentenza della CTP – proposta per rimediare al dedotto errore e presentata prima del 19 settembre 2015, data in cui veniva emessa l’ordinanza di rigetto della istanza medesima – è inidonea a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., stante la natura amministrativa e non impugnatoria del procedimento di correzione, sicché non può trovare applicazione il principio per il quale, ai fini della decorrenza del detto termine, la notifica dell’impugnazione equivale, sul piano della “conoscenza legale” da parte dell’impugnante, alla notificazione della sentenza impugnata (v. S.U. n. 5053/2017).
Si rileva dunque la palese inammissibilità dell’originario ricorso nonché la sussistenza dei presupposti per l’eventuale revocabilità del provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio, la cui competenza, anche in relazione al giudizio di cassazione, spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi – come questa in esame – di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S. U. n. 4315/2020).
Alla luce del recente arresto delle S.U. n. 4315/2020, inoltre, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non esclude l’obbligo del giudice dell’impugnazione, quando adotti una decisione di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità della stessa, di attestare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo di contributo unificato (c.d. “raddoppio del contributo”); ciò perché l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è suscettibile di essere revocata, anche dopo la pronuncia della sentenza che ha definito il giudizio di impugnazione, allorquando sopravvengano i presupposti di cui all’art. 136 T.U.S.G. Anche con riguardo all’art. 11 del T.U., che stabilisce che il contributo unificato non deve essere versato dalla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (essendo il medesimo prenotato a debito), il giudice dell’impugnazione non sempre è posto in condizioni di conoscere l’avvenuta ammissione al patrocinio della parte e, conseguentemente, il suo diritto di fruire della prenotazione a debito: o perché la parte non ha dichiarato tale avvenuta ammissione o perché ha dichiarato di aver presentato domanda di ammissione ma non ha documentato l’intervenuta adozione del provvedimento ammissivo (solo per il giudizio di cassazione esiste una disposizione – quella dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 1, che prevede l’improcedibilità del ricorso contestualmente al quale non sia depositato il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato; non invece per il giudizio di appello e per gli altri giudizi di impugnazione) o, infine, semplicemente perché il provvedimento di ammissione non è stato inserito nel fascicolo posto a disposizione del giudice.
Il giudice dell’impugnazione non può prevedere se, dopo la pronuncia della sentenza che ha definito il giudizio, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sarà revocata. Quanto appena osservato conferma che l’attestazione del giudice dell’impugnazione circa la sussistenza dei presupposti per la debenza del doppio contributo è condizionata alla effettiva debenza del contributo iniziale, che non compete al giudice stabilire.
Tale compito è proprio dell’amministrazione nell’articolazione della cancelleria dell’ufficio ricevente l’impugnazione, la quale dovrà accertare la debenza o meno del contributo unificato, tenendo conto dell’esistenza di cause di esenzione o di prenotazione a debito, originarie o sopravvenute, e del loro eventuale venir meno (come nel caso della revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato che intervenga dopo la pronuncia del giudice dell’impugnazione).
In conclusione, va ritenuto che il giudice deve limitarsi a dare atto di avere adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, competendo poi esclusivamente all’Amministrazione valutare se nonostante l’attestato tenore della pronuncia, che evidenzia la sussistenza del presupposto processuale costituito dall’esito del giudizio di impugnazione, legittimante “in astratto” la debenza del doppio contributo – la doppia contribuzione – spetti “in concreto”.
Ne deriva che il giudice dell’impugnazione, nell’adottare una pronuncia corrispondente ad uno dei tipi previsti dall’art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, ben può formulare l’attestazione della sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato “condizionandola” alla debenza del contributo inizialmente dovuto, così rendendo esplicito ciò che nella detta norma è implicito.
In questo senso, si sono espresse diverse pronunce delle Sezioni semplici della Corte; e in questo senso si sono espresse anche le Sezioni Unite con una recente pronuncia, che ha adottato la seguente formula: “Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis” (Cass., Sez. Un., n. 23535 del 20/09/2019). Sebbene la natura condizionata dell’attestazione circa la sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato consenta al giudice dell’impugnazione di formularla ogni volta che adotti una pronuncia corrispondente ad uno dei tipi previsti dall’art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, (integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione), ciò non vuol dire, tuttavia, che il giudice sia tenuto a formulare tale attestazione anche quando appaia ictu oculi evidente che il pagamento del contributo unificato sia radicalmente e definitivamente escluso in ragione della materia su cui verte la controversia (ad es.: “equa riparazione” ai sensi della L. n. 89 del 2001; disciplinare magistrati) o della qualità soggettiva delle parti (come le Amministrazioni dello Stato, istituzionalmente esonerate dal materiale versamento del contributo stesso mediante il meccanismo della prenotazione a debito). In tali casi, infatti, l’attestazione del giudice sarebbe vana – apparendo evidente ed indiscutibile che il raddoppio del contributo è precluso – e il giudice può astenersi dalla detta attestazione. In conclusione, “Il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dare atto della non sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato quando il tipo di pronuncia non è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di iimprocedibilità dell’impugnazione), dovendo invece rendere l’attestazione di cui all’art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, solo quando tali presupposti sussistono”; – “Poiché l’obbligo di versare un importo “ulteriore” del contributo unificato è normativamente dipendente – ai sensi dell’art. 13 T.U.S.G., comma 1-quater, – dalla sussistenza dell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, ben può il giudice dell’impugnazione attestare la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento del doppio contributo, condizionandone la effettiva debenza alla sussistenza dell’obbligo di versare il contributo unificato iniziale”;
Quindi, il giudice dell’impugnazione, ogni volta che pronunci l’integrale rigetto o l’inammissibilità o la improcedibilità dell’impugnazione, deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo del contributo unificato anche nel caso in cui quest’ultimo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato); mentre può esimersi dalla suddetta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo. Premesso quanto sopra, si tratta ora di fare applicazione degli enunciati principi di diritto alla fattispecie di cui alla presente causa, nella quale il ricorrente – il cui ricorso è stato ravvisato inammissibile – è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato con provvedimento suscettibile di revoca.
Stante il tenore della pronuncia (declaratoria della inammissibilità del ricorso), va, quindi, dato atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.
Spetterà all’amministrazione giudiziaria competente verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Dispone la trasmissione della copia della presente sentenza, ai sensi dell’art. 388 c.p.c., alla CTR del Lazio, tenuta a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S. U. n. 4315/2020).
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale tenuta ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 17, il 20 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 agosto 2021
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