LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26567-2019 proposto da:
H.A., rappresentato e difeso dall’avvocato Felice Patruno, del foro di Bari ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA presso CORTE DI CASSAZIONE;
– intimato –
avverso il decreto n. 6206/2019 del Tribunale di Milano, depositato il 12/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– con provvedimento notificato il 22.03.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;
– avverso tale provvedimento interponeva opposizione H.A., che veniva respinta dal Tribunale di Milano con decreto n. del 12.07.2019, pubblicato il 28.07.2019;
– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, rilevando preliminarmente una valutazione di non credibilità del richiedente asilo, proveniente dal *****, regione posta nella zona sud della *****, nella quale non vi erano notizie che fosse oggetto di repressione l’attività di evangelizzazione del culto cristiano, ragione posta dal richiedente a base della sua fuga dal Paese di origine, per essersi convertito al cristianesimo, di cui era poi divenuto anche pastore (Pastore della Chiesa *****), svolgendo opera di proselitismo invisa al re del villaggio di Idumuesah; aggiungeva, inoltre, che il ricorrente sostanzialmente aveva dimostrato di ignorare le pratiche legate al culto dell’oracolo *****, praticato nel suo villaggio, ignoranza che non poteva essere giustificata neanche dalla poca cultura del richiedente per avere lo stesso ricevuto una elevata scolarizzazione, oltre al fatto che egli aveva per 4 anni svolto attività di evangelizzazione in una comunità in cui detto rito era molto diffuso. Ne’ sussistevano i presupposti per ritenere esistente un conflitto armato generalizzato alla luce delle fonti esaminate (Easo Country of Origin Information Report ***** Security Situation del novembre 2018). Del pari veniva negata la ricorrenza dei presupposti per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari in difetto di prova di una effettiva integrazione sociale, non conoscendo egli la lingua italiana, né essendo munito di un regolare rapporto di lavoro, oltre ad essere precaria la sua stessa situazione abitativa;
– propone ricorso per la cassazione di tale decisione – notificato in data 28.08.2019 – H.A. affidato a due motivi, cui il Ministero dell’interno resiste con controricorso.
Atteso che:
– con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) in considerazione delle lacune motivazionali riscontrabili nel decreto stesso a proposito della situazione della specifica zona di provenienza – distretto di ***** in ***** – sotto l’aspetto della violenza indiscriminata generalizzata nonché della specifica persecuzione religiosa.
La censura è inammissibile giacché non sono ravvisabili lacune nel provvedimento per motivazione apparente, posto che il Tribunale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento della protezione sussidiaria sub lett. c). In particolare, il Tribunale dopo avere giudicato il racconto del ricorrente inattendibile, poco credibile – richiamando le fonti internazionali consultate, ha evidenziato che il richiedente proviene dalla ***** (*****) ed è vissuto a *****, che ne è la capitale, regione posta nella zona sud della *****, attualmente non caratterizzata da episodi di violenza generalizzata o di matrice terroristica.
Il giudice di merito ha, comunque, fatto specifico riferimento all’ultimo rapporto annuale EASO del 2018 (diversamente da quanto asserito dal ricorrente: v. pag. 7 del provvedimento impugnato) ed ha escluso che l’area di provenienza del richiedente fosse interessata da una situazione di violenza generalizzata di tale gravità e diffusione da mettere a repentaglio l’esistenza ed incolumità della persona.
A fronte di tale accertamento, il ricorrente neanche indica specifiche circostanze, limitandosi a riferire di azioni di repressione religiosa che oltre a non essere dimostrate, non risultano neanche decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).
Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare possibili orientamenti della giurisprudenza di merito, asserendo che va riconosciuta tale forma di protezione ai cittadini ***** in virtù della situazione di instabilità del Paese, anche per quanti provengono dalle regioni meridionali.
Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019 n. 24647).
Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c) della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakite’, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).
Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721).
I giudici di merito hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto non sussistente la violenza generalizzata nel paese di origine e tale statuizione è conforme a diritto;
– con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere il Tribunale riconosciuto la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela. In particolare, ad avviso del ricorrente la circostanza di avere in sede di audizione fatto ricorso ad interprete non dimostra la scarsa conoscenza della lingua italiana e quanto al reddito, a quello percepito con il rapporto di lavoro domestico, provato dalle buste paga, andava integrato con la retribuzione ricevuta come ministro di culto, circostanza del tutto ignorata dal giudice di merito.
E’ da ritenere inammissibile anche siffatta censura.
Questa Corte, infatti, ha già avuto occasione di chiarire, nella recente sentenza 23/02/2018, n. 4455, che, “se assunti isolatamente, né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza integrano, di per sé soli e astrattamente considerati, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto” alla protezione umanitaria, in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06 caso Nnyanzi c/ Regno Unito, par. 72 ss.)”.
Ne’ la contestazione di non avere preso adeguatamente in esame il processo di integrazione del ricorrente, svolgendo egli attività lavorativa anche quale ministro di culto integra la lamentata violazione di legge, considerato, comunque, che in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (cfr Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019; Cass. n. 4455 del 2018 cit.), circostanze escluse nella specie dal Tribunale (v. pagg. 8 e 9 del provvedimento impugnato).
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio vanno interamente compensate fra le parti non avendo il Ministero svolto nel controricorso alcuna attività difensiva riferibile al caso di specie.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso;
dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 3 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2021