Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.23203 del 20/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20922/2020 R.G. proposto da:

O.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Stefania Santilli, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 5194/19 depositata il 30 dicembre 2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 aprile 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 30 dicembre 2019, la Corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame interposto da O.A., cittadino della *****, avverso l’ordinanza emessa il 26 maggio 2017 dal Tribunale di Milano, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante.

Premesso che a sostegno della domanda l’appellante aveva riferito di aver abbandonato il suo Paese di origine in quanto indotto dal padre ad allontanarsi dal suo villaggio a causa del rifiuto di aderire a riti tribali e di non potervi tornare perché nessuno voleva vivere con lui, la Corte ha ritenuto che, indipendentemente dal carattere lacunoso e stereotipato della narrazione, la predetta vicenda non fosse riconducibile alle ipotesi previste dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7 aggiungendo che la situazione della sicurezza esistente in ***** risultava fortemente differenziata tra le varie regioni, con la localizzazione delle zone a rischio nell’area nordoccidentale e la prevalenza di conflitti motivati da ragioni economiche in quella meridionale, dalla quale proveniva l’appellante. Ha escluso quindi la sussistenza dei presupposti necessari per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, osservando invece, in ordine a quella umanitaria, che non erano stati provati né la sussistenza di una condizione di vulnerabilità personale dell’appellante, né l’avvio da parte di quest’ultimo di un percorso di socializzazione ed inserimento: ha precisato infatti che l’appellante, pur vivendo da quattro anni in Italia, non era in grado di esprimersi in Italiano, non svolgeva attività lavorativa regolare e non era in grado di vivere autonomamente.

2. Avverso la predetta sentenza l’ O. ha proposto ricorso per cassazione, per quattro motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione ai soli fini della partecipazione alla discussione orale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, anziché mediante controricorso: nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, artt. 8 e 27 e degli artt. 2 e 3 della CEDU, anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo ritenuto attendibile la vicenda personale da lui allegata, ha rigettato la domanda di protezione, attraverso il richiamo alla valutazione compiuta dall’ordinanza di primo grado, la quale non aveva affatto escluso la credibilità della narrazione, ma si era limitata a rilevare la non riconducibilità della vicenda alla tutela prevista dalla Convenzione di Ginevra. Sostiene che, anche a voler ritenere che la sentenza impugnata abbia escluso l’attendibilità della predetta vicenda, la relativa valutazione non risulta conforme ai criteri previsti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5: premesso infatti che non gli è stata offerta la possibilità di fornire chiarimenti, osserva che i fatti narrati avrebbero dovuto essere valutati sulla base d’informazioni relative al Paese di origine, tenendo conto del rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, cui egli andrebbe incontro in caso di rimpatrio, nonché del rischio di essere arrestato senza poter beneficiare delle garanzie di legge.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Le censure, oltre a risultare confuse ed incomprensibili nella parte concernente l’asserito contrasto tra la valutazione compiuta dalla Corte territoriale e quella risultante dall’ordinanza di primo grado, non attingono la ratio della sentenza impugnata, la quale, nel rigettare la domanda di protezione, ha accennato soltanto marginalmente al carattere lacunoso e stereotipato delle dichiarazioni rese dal ricorrente, avendo confermato la conclusione cui era pervenuto il Tribunale, secondo cui, indipendentemente dalle carenze della narrazione, la vicenda personale riferita non era riconducibile ad alcuna delle fattispecie di persecuzione previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7. Non risultano quindi pertinenti le considerazioni svolte dalla difesa del ricorrente in ordine all’inosservanza dei criteri di valutazione previsti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, che presuppongono un giudizio d’inattendibilità delle dichiarazioni, né quelle riguardanti l’omessa valutazione del rischio di arresto o sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, le quali non hanno alcun rapporto con la credibilità dei fatti narrati, attenendo invece all’idoneità degli stessi a giustificare il riconoscimento della protezione. Quanto infine alla lamentata impossibilità di fornire chiarimenti in ordine alle predette dichiarazioni, la stessa trova smentita nella circostanza, desumibile dalla premessa del ricorso e dalla narrativa della sentenza impugnata, che al ricorrente è stata ripetutamente offerta l’occasione di precisare ed integrare la propria narrazione, essendone stata disposta l’audizione personale sia nel giudizio di primo grado che in appello.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. n. 722 del 1954, della direttiva 2004/83/CE e del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,7,8 e 14, ribadendo che la Corte territoriale ha omesso di acquisire informazioni in ordine all’ordinamento giuridico ed alla situazione del suo Paese di origine. Premesso che dalla vicenda da lui narrata emergono atti persecutori collegati all’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, in relazione ai quali lo Stato non è in grado di fornire un’adeguata protezione, osserva che la relativa valutazione avrebbe dovuto essere condotta alla luce delle prove da lui fornite e, in caso d’insufficienza, d’informazioni acquisite d’ufficio in ordine al contesto socio-politico della *****.

3.1. Il motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, il dovere, posto a carico del giudice dal D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, di acquisire informazioni in ordine alla reale ed attuale situazione del Paese di origine dello straniero non sorge per il solo fatto che sia stata proposta una domanda di protezione, postulando invece che il richiedente abbia adempiuto l’onere di allegazione dei fatti costitutivi del diritto azionato, mediante l’esposizione di una vicenda personale non solo intrinsecamente attendibile e plausibile sul piano razionale, ma anche idonea a giustificare il timore, da lui prospettato, di restare esposto, in caso di rimpatrio, ad atti persecutori, da intendersi nel senso di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 7 e 8, o ad un danno grave, nel senso di cui all’art. 14 medesimo decreto. Qualora pertanto, come nella specie, tali rischi siano ritenuti insussistenti, perché i timori prospettati non sono collegati ad atti o situazioni connotati dalle caratteristiche prescritte dalle norme indicate, nessun approfondimento si rende necessario in ordine alla situazione generale esistente nel Paese di origine del richiedente, dal momento che, indipendentemente dall’attendibilità delle dichiarazioni da lui rese e dal contesto politico-sociale cui si riferiscono, la vicenda narrata deve considerarsi comunque inidonea a giustificare l’applicazione delle misure invocate.

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. g) e art. 14, lett. c), nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nell’escludere la sua esposizione al rischio di un danno grave alla vita o alla persona in caso di rimpatrio, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della situazione esistente nella sua regione di origine, avendo omesso di indicare le fonti di cui si è avvalsa e di tener conto delle informazioni fornite dal suo difensore. Aggiunge che la Corte territoriale ha omesso di valutare la vicenda narrata alla luce delle condizioni personali di esso ricorrente e della capacità delle autorità statali di fornire protezione ai cittadini e di assicurare il controllo del territorio.

4.1. Il motivo è parzialmente fondato.

Premesso che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, nella ipotesi di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), il requisito dell’individualità della minaccia grave alla vita o alla persona non è subordinato alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è coinvolto in modo specifico nel conflitto armato in corso, a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, potendo essere desunto anche dalla diffusione e dall’intensità della situazione di violenza indiscriminata determinata dagli scontri, ove la stessa consenta di presumere che la mera presenza nell’area interessata possa costituire un pericolo per chi vi risiede (cfr. Cass., Sez. III; 3/02/ 2021, n. 2387; Cass., Sez. I, 15/09/2020, n. 19224; Cass., Sez. VI, 30/07/ 2015, n. 16202), si osserva comunque che la valutazione compiuta dalla sentenza impugnata in ordine alla configurabilità della predetta fattispecie non può ritenersi inficiata dall’omessa considerazione della vicenda personale riferita dal richiedente, non essendo stato neppure dedotto che la stessa abbia qualche relazione con il conflitto armato asseritamente in atto nella sua regione di provenienza. Nell’escludere la sussistenza del predetto conflitto, la Corte d’appello si è peraltro limitata a rilevare che in ***** lo stato della sicurezza risulta fortemente differenziato da regione a regione, individuando le aree maggiormente a rischio in quelle nordorientali e centrali e settentrionali ed affermando che negli Stati meridionali (ivi compreso l'*****, dal quale proviene il ricorrente) i conflitti sono determinati prevalentemente da motivazioni economiche, ma astenendosi dall’indicare le fonti d’informazione utilizzate ai fini della formazione del proprio convincimento. Tale omissione risulta di per sé sufficiente a far ritenere inadempiuto il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il quale postula non solo l’acquisizione anche d’ufficio da parte del giudice delle informazioni necessarie per la valutazione della situazione in atto nel Paese di origine del richiedente, ma anche la puntuale indicazione delle relative fonti, in modo tale da consentire al richiedente di formulare eventuali rilievi ed al giudice dell’impugnazione di verificare la pertinenza e la specificità delle informazioni utilizzate, nonché l’affidabilità e l’aggiornamento delle fonti da cui sono state desunte (cfr. Cass., Sez. I, 30/06/2020, n. 13255; 17/05/2019, n. 13449; Cass., Sez. VI, 26/04/2019, n. 11312).

5. La sentenza impugnata va pertanto cassata, per quanto di ragione, restando assorbito il quarto motivo, con cui il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3,4,7,14,16 e 17, D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, artt. 8,10 e 32, dell’art. 10 Cost. e art. 111 Cost., comma 6 e degli artt. 112,132c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, nonché per apparenza della motivazione ed omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria.

La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’appello di Milano, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo, accoglie parzialmente il terzo, dichiara assorbito il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021

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