LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22153-2019 proposto da:
O.E., rappresentato e difeso dall’Avvocato GIUSEPPINA MARCIANO ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in MILANO, VIA FONTANA 3;
– ricorrente –
contro
MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore;
– intimato –
avverso la sentenza 2190/2019 della CORTE d’APPELLO di MILANO depositata il 20/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/01/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
O.E. proponeva appello avverso l’ordinanza del 5.8.2018 del Tribunale di Milano, con la quale era stato rigettato il ricorso avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, della protezione umanitaria.
Con sentenza n. 2190/2019, depositata in data 20.5.2019, la Corte d’Appello di Milano rigettava il gravame, ritenendo di condividere il giudizio già espresso dal Giudice di primo grado secondo cui il racconto sarebbe stato inattendibile, in quanto confuso, a tratti stereotipato e sfornito del benché minimo riscontro probatorio, sia circa l’asserita persecuzione e le minacce dei cultisti, sia circa le asserite aggressioni subite e le lesioni riportate. Non risultava, quindi, superabile l’assoluta scarsa credibilità del racconto, per cui il Giudice d’appello riteneva di negare lo status di rifugiato e le altre forme di protezione richieste in subordine. Quanto allo status di rifugiato, la Corte di merito rilevava la carenza di prova di una persecuzione personale e diretta ai sensi della Convenzione di Ginevra che giustificasse il riconoscimento della protezione internazionale. Anche la domanda di protezione sussidiaria non poteva essere accolta, in quanto non sembrava sussistere nessun effettivo rischio per l’appellante di subire un danno grave, in quanto (in base alle informazioni reperibili presso le fonti maggiormente attendibili) nella zona di provenienza (Edo State) non sussisteva una violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, tale da sottrarre la popolazione alla protezione dello Stato, o comunque tale da pregiudicare in concreto l’appellante per il solo fatto del rimpatrio, presupposti necessari per l’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Infine, anche la domanda di protezione umanitaria doveva essere rigettata, in quanto nessuna specifica vulnerabilità ricollegabile a esigenze di natura umanitaria era ravvisabile nella posizione personale dell’appellante con riferimento all’asserita insicurezza della zona di origine, escludendosi la sussistenza in essa di una situazione di guerriglia e/o di violenza generalizzata tale da giustificare un’impossibilità di rimpatrio; né era stata dedotta alcuna vulnerabilità ricollegabile a problemi di carattere sanitario o necessità di cure particolari. Inoltre, anche il livello di integrazione in Italia risultava di fatto nullo. Evidenziava la Corte territoriale che comunque il mero fatto dell’integrazione sociale non potesse essere considerato in sé elemento sufficiente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che trovava fondamento nella violazione dei diritti umani nel Paese d’origine.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione O.E. sulla base di due motivi. L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c): contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione in merito all’attuale situazione sociale, politica ed economica e sulla pericolosità sociale del Paese di provenienza del richiedente asilo, la Nigeria”; avendo la Corte di merito omesso di effettuare la concreta indagine sulla reale situazione nella regione di provenienza anche tramite i poteri istruttori officiosi. Si sottolinea che la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile non sia subordinata alla condizione che lo straniero fornisca la prova di essere interessato in modo specifico, ma sussista anche qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che il rimpatrio esponga lo straniero al rischio di subire concretamente gli effetti della minaccia.
1.1. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5: omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e contraddittorietà della motivazione sui presupposti del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari”. Osserva il ricorrente che l’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto costituiscono il punto di partenza dell’accertamento da compiere. Laddove il giudice, secondo il ricorrente, ometteva di comparare la situazione individuale del richiedente con quella vissuta prima della partenza, a cui si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio; e omettevano altresì ogni valutazione sull’effettiva integrazione in Italia senza considerare che l’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese d’origine e la verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria incombono sul Giudice a ragione del dovere di cooperazione istruttoria officiosa (Cass. n. 4455 del 2018).
2. – Il primo motivo è fondato.
2.1. – Il richiedente aveva riferito di aver lasciato la Nigeria (Edo State) dapprima per la minaccia rappresentata dal gruppo *****, poi, innanzi alla Commissione, per il timore di essere ucciso da un gruppo cultista, che avrebbe già giustiziato il fratello maggiore e dal quale aveva ricevuto minacce e persecuzioni; senza tuttavia spiegare per quale motivo fosse fuggito solo quattro anni dopo la morte del fratello che collocava nei ricordi all’anno 2010.
Con riguardo al riconoscimento della protezione sussidiaria, ammissibile nel caso di sussistenza di un darthe grave in cui potrebbe incorrere lo straniero nel suo Paese di origine, va posto in rilievo che l’esistenza di una minaccia per il ricorrente può essere considerata in via eccezionale provata, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza un conflitto armato in corso raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi per ritenere che un civile rientrato nel Paese o nella Regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi un rischio effettivo di subire detta minaccia (Corte Giust. UE, sentenza 17 febbraio 2009, nel procedimento C-465/07, Elgafaji, ed in questo senso anche la giurisprudenza interna). Nel caso in esame non sembra sussistere nessun effettivo rischio per l’appellante di subire un danno grave giacché, come sopra esposto, in base alle informazioni reperibili presso le fonti maggiormente attendibili e in particolare nella pubblicazioni dell’UNHCR, si deve escludere che la Nigeria nel suo complesso (tranne per l’attività terroristica del gruppo ***** nelle regioni del nord-est ma non nell’Edo State di provenienza dell’appellante) versi in una situazione configurabile come di conflitto armato e nemmeno da un contesto di violenza generalizzata tale da sottrarre la popolazione alla protezione dello Stato o comunque tale da pregiudicare in concreto il ricorrente per il sol fatto di ritornare nel Paese, presupposti questi necessari per la applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che recepisce l’art. 15, lett. c) Direttiva 2004/83/CE.
2.2. – Nella recente ordinanza (Cass. n. 29056 del 2019) della Sez.1 del 11/11/2019 n. 29056, la Corte muove dal principio che la ricerca delle COI (country origin informations) è attività di “integrazione istruttoria” svolta in cooperazione con la parte interessata (Cass. n. 16411 del 2019); e non di totale sostituzione del giudice alla parte nei suoi doveri di offrire, nei limiti delle possibilità date dalla sua peculiare condizione, fatti, riscontri ed elementi di prova. Il predetto dovere deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro riferirsi a circostanze non dedotte, mentre, nel caso in cui si affievolisca l’importanza del riscontro individuale, entro i limiti rigorosi indicati dalla CGUE nelle sentenze del 17/2/2009 (Elgafaji, C-465/07, cit.) e del 30/1/2014 (Diakite’ C- 285/12) e cioè quando la violenza indiscriminata sul territorio raggiunge livello talmente elevato da far ritenere che un civile correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il potere dovere di acquisire le COI discendende direttamente dalla allegazione della provenienza dalla zona interessata dal conflitto (Cass. n. 17069 del 2018).
Il problema sollevato dal ricorrente attiene al dovere del giudice di sottoporre preventivamente al contraddittorio le COI che egli intende utilizzare ai fini della decisione e se, in difetto, si configuri una violazione dell’art. 101 c.p.c. ovvero, più in generale, del diritto alla difesa e del principio del giusto processo (artt. 111 e 24 Cost., art. 6 CEDU). In tale prospettiva assume rilievo l’onere del richiedente asilo di allegare e circostanziare tutti i fatti rilevanti che lo riguardano e di rendere un racconto per quanto possibile completo e specifico, poiché il dovere di cooperazione del giudice non si estende alla ricerca dei fatti storici, intesi come vicende personali che hanno interessato il richiedente asilo.
2.3. – In tale prospettiva assume rilievo l’onere del richiedente asilo di allegare e circostanziare tutti i fatti rilevanti che lo riguardano e di rendere un racconto per quanto possibile completo e specifico, poiché il dovere di cooperazione del giudice non si estende alla ricerca dei fatti storici, intesi come vicende personali che hanno interessato il richiedente asilo.
La circostanza che il giudice non possa modificare i fatti posti a fondamento della domanda, il cui onere di allegazione grava sul richiedente, già di per sé esclude in radice che possa prospettarsi, per il solo fatto della assunzione officiosa delle COI, una c.d. “sentenza della terza via”, intesa nel senso di una pronuncia che modifichi o ampli il thema decidendum, con conseguente violazione dell’art. 101 c.p.c.. Le COI devono infatti essere pertinenti e dirette a far luce sui fatti già dedotti dal ricorrente, ed il concetto stesso di pertinenza va necessariamente coniugato con quello della loro attualità. Inoltre la denuncia di vizi fondati sulla violazione di norme processuali non deve essere vista in funzione meramente autoreferenziale e di tutela dell’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma in un’ottica funzionale volta a garantire l’eliminazione del pregiudizio concretamente sofferto dal diritto di difesa della parte.
In altre parole, la parte che lamenti la violazione del diritto di difesa e del giusto processo deve specificare in cosa consiste il concreto pregiudizio subito, e non semplicemente dedurre la violazione della norma procedurale o genericamente riferirsi alla lesione del diritto di difesa. Applicando questi principi alla questione delle COI, deve concludersi che, qualora la parte non abbia offerto alcuna informazione precisa, pertinente e aggiornata sulle condizioni del paese di origine, e cioè informazioni idonee a supportare la valutazione della credibilità e del rischio, l’acquisizione d’ufficio delle COI costituisce attività integrativa che sana la sua inerzia, e quindi non diminuisce le garanzie processuali del soggetto, anzi le amplia, né lede in alcun modo i suoi diritti.
Nessun vulnus concreto al diritto di difesa si può in questo caso prospettare se il giudice non sottopone preventivamente le COI assunte d’ufficio al contraddittorio, purché renda palese nella motivazione a quali COI ha fatto riferimento, onde consentire, eventualmente, la critica in fase di impugnazione.
Diverso e’, infine, il caso in cui la parte abbia esplicitamente indicato COI, aggiornate e pertinenti, specificamente riferite al rischio che è stato dedotto, indicandone la fonte e la data e prendendo posizione sulle condizioni del paese di origine, sulla loro incidenza nella posizione individuale del richiedente, e su come le COI indicate consentano di ritenere il racconto attendibile, nonché concreto ed attuale il rischio dedotto. In tal caso, il giudice, se ritiene di utilizzare altre COI, di fonte diversa o più aggiornate, che depongono in senso opposto a quelle offerte dal richiedente, deve sottoporle preventivamente al contraddittorio, perché diversamente si arrecherebbe, in concreto, un irredimibile vulnus al diritto di difesa.
2.5. – Nel caso concreto, il ricorrente assume che, le affermazioni svolte in ordine alla sussistenza o meno dei requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, siano affermazioni del tutto generiche, che non tengono conto della reale, effettiva ed attuale situazione politica, sociale ed economica del paese di provenienza del richiedente.
Ne consegue, dunque, l’omessa acquisizione da parte della Autorità giudicante di informazioni aggiornate in merito alla situazione politica, sociale ed economica del Paese, nonché di quella personale dello straniero.
3. – Il primo motivo di ricorso, pertanto, va accolto, con assorbimento del secondo motivo; va cassata la sentenza impugnata, con rinvio del processo alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che, attenendosi al principio enunciato, procederà ad un nuovo esame del medito e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia il giudizio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che, attenendosi al principio enunciato, procederà ad un nuovo esame del merito e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021