LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17987/2020 R.G. proposto da I.J.O., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto Maiorana, con domicilio eletto in Roma, viale Angelico, n. 38;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 5671/19, depositata il 20 dicembre 2019;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 maggio 2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 20 dicembre 2019, la Corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame interposto da I.O.J., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza emessa l’8 novembre 2018 dal Tribunale di Venezia, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante.
Premesso che il Tribunale aveva ritenuto non credibili, in quanto contraddittorie ed intrinsecamente illogiche, le dichiarazioni rese a sostegno della domanda, secondo cui il ricorrente si era allontanato dal suo Paese di origine per sfuggire alle persecuzioni di un gruppo di criminali dal quale si era dissociato per essersi rifiutato di uccidere, la Corte ha rilevato che l’appello non si confrontava con i predetti rilievi, proponendo argomenti ancor più generici e meno puntuali, non recando alcun riferimento alle dichiarazioni contestate e non muovendo pertanto alcuna reale critica alla ratio decidendi del provvedimento impugnato. Ha escluso inoltre che l’intera Nigeria versasse in una situazione di violenza indiscriminata, conflitto armato o anarchia, rilevando che dalle informazioni fornite da fonti autorevoli ed aggiornate emergeva l’azione di contrasto svolta dalle forze armate governative nei confronti dei gruppi fondamentalisti islamici, la cui penetrazione risultava ormai limitata alla zona nordorientale del Paese, non comprendente la regione di provenienza dell’appellante, e ritenendo insufficiente, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 14, lett. c), del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, il ripetersi di attacchi terroristici, inidonei a determinare una situazione di guerriglia diffusa. Ha infine escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando la mancata allegazione dell’esposizione ad uno specifico rischio o a una violazione dei diritti umani in caso di rimpatrio, ritenendo irrilevante la mera situazione d’instabilità politica del Paese di origine, e richiamando comunque la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente.
2. Avverso la predetta sentenza l’ I. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, anziché mediante controricorso: nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. Cass., Sez. I, 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, nonché l’omessa motivazione in ordine alla credibilità delle dichiarazioni da lui rese, rilevando che la sentenza impugnata si è limitata a richiamare il convincimento espresso dal Giudice di primo grado, senza esaminare gli elementi sottoposti alla sua valutazione. Sostiene infatti che la Corte d’appello ha omesso di considerare i fatti da lui narrati e il rischio allegato, avendone affermato l’inverosimiglianza, senza tener conto degli sforzi da lui compiuti per circostanziare la domanda e della tempestiva proposizione della stessa, e senza effettuare alcun riscontro al riguardo.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In quanto riflettenti l’inosservanza dei criteri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ai fini della valutazione della credibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda e la mera apparenza della relativa motivazione, le censure proposte dal ricorrente non attingono infatti la ratio della sentenza impugnata, la quale ha richiamato le argomentazioni svolte dal Tribunale al solo fine di evidenziare la genericità del motivo di appello formulato al riguardo, dichiarandolo inammissibile, in quanto non recante alcun riferimento alle dichiarazioni rese ed alla vicenda narrata, ed astenendosi quindi dal riesaminare nel merito il predetto apprezzamento.
3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14 e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, nonché il difetto di motivazione ed il travisamento dei fatti, censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria senza esaminare la situazione generale del suo Paese di origine, e senza procedere al doveroso bilanciamento tra la situazione in cui egli versava prima di allontanarsi dal Paese di origine e il livello d’integrazione economico-sociale da lui raggiunto in Italia.
4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e art. 19 e dell’art. 10 Cost., nonché l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, osservando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la Corte d’appello ha omesso di adempiere il proprio dovere di cooperazione istruttoria ufficiosa, al fine di verificare la sussistenza di un’eventuale condizione di vulnerabilità personale. Sostiene infatti che, nell’accertare la situazione oggettiva del suo Paese di origine, la sentenza impugnata si è limitata ad escludere la sussistenza di uno stato di violenza indiscriminata, omettendo di valutare le fonti d’informazione riguardanti le condizioni politico-sociali della Nigeria, dalle quali emergevano l’incremento dei casi di povertà estrema e l’inesistenza di strutture di welfare, con conseguente compromissione della possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale. Aggiunge che la sentenza impugnata non ha preso in considerazione il livello d’integrazione sociale ed economica da lui raggiunto in Italia, non avendo tenuto conto del periodo di tempo trascorso dal suo arrivo e del costante svolgimento di attività lavorative e sociali.
5. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono infondati.
Correttamente, infatti, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata ha richiamato il giudizio negativo espresso dal Tribunale in ordine all’attendibilità della vicenda personale narrata dal ricorrente, rilevando inoltre la mancata allegazione di elementi idonei ad evidenziare una condizione di vulnerabilità personale o comunque l’esposizione al rischio di gravi violazioni dei diritti umani, ed escludendo la possibilità di valorizzare a tal fine la mera situazione d’insicurezza ed instabilità politica esistente in Nigeria.
E’ pur vero, che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in favore del cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, postula un confronto tra la situazione soggettiva ed oggettiva in cui il richiedente versava prima dell’allontanamento dal Paese d’origine ed il livello d’integrazione da lui raggiunto in Italia, volto a verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass., Sez. I, 14/08/2020, n. 17130; 23/02/ 2018, n. 4455). E’ stato peraltro precisato che la natura comparativa della predetta valutazione, da condursi caso per caso e con riferimento alla situazione personale del richiedente, esclude la possibilità sia di prendere in considerazione uno solo dei due aspetti, isolatamente ed astrattamente, sia di valorizzare il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di Origine (cfr. Cass., Sez. VI, 28/06/ 2018, n. 17072): si è osservato infatti che, diversamente, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il paradigma normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304). In proposito, è stato richiamato anche il principio affermato dalla Corte EDU, secondo cui il rispetto del diritto alla vita privata, sancito dall’art. 8 della CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (cfr. Corte EDU, sent. 8/4/2008, Nyianzi c. Regno Unito). In quest’ottica, pur non escludendosi in linea di principio la possibilità di tener conto della situazione politico-economica del Paese di origine, quale elemento idoneo ad evidenziare, in correlazione con la vicenda personale e familiare del richiedente, una condizione di particolare vulnerabilità o l’esposizione al rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali, si è affermato che, al di fuori delle ipotesi di grave emergenza umanitaria (quale quella derivante da carestie, eventi naturali disastrosi, cambiamento climatico o insostenibile sfruttamento delle risorse naturali: Cass., Sez. II, 24/02/2021, n. 5022; Cass., Sez. I, 25/09/2020, n. 20334), l’applicazione della misura in esame non può trovare giustificazione nella mera allegazione della situazione di grave difficoltà o anche di estrema povertà in cui il richiedente verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio, non essendo ipotizzabile, in assenza di una condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico, un obbligo dello Stato italiano di garantire parametri di benessere economico e sociale a cittadini stranieri (cfr. Cass., Sez. II, 13/08/2020, n. 17118; Cass., Sez. VI, 7/02/2019, n. 3681). Ciò comporta, sotto il profilo processuale, la necessità che la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria sia sorretta dall’indicazione di circostanze di fatto, riguardanti la vita personale e familiare del richiedente, tali da indurre a ritenere, anche alla luce della situazione politica, economica e sociale esistente nel Paese di origine, che il rimpatrio potrebbe pregiudicare la titolarità o l’esercizio di diritti fondamentali: trattandosi di fatti costitutivi del diritto alla protezione, la relativa allegazione spetta al richiedente, in qualità di attore, non potendo l’individuazione degli stessi costituire oggetto di indagini esplorative affidate al giudice, il cui dovere di cooperazione istruttoria officiosa opera esclusivamente sul versante della prova dei fatti che giustificano la protezione, postulando pertanto l’intervenuto adempimento da parte del richiedente dell’onere posto a suo carico (cfr. Cass., Sez. 2/07/2020, n. 13573; 29/10/2018, n. 27336).
6. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.
PQM
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 12 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021