LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 34125-2019 proposto da:
D.G.A., rappresentato e difeso da se medesimo, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAURA MANTEGAZZA 24, presso e nell’abitazione di GARDIN MARCO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositato il 08/04/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/10/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA BESSO MARCHEIS.
PREMESSO CHE:
L’avvocato D.G.A. ricorre in cassazione avverso il decreto 9 aprile 2019 della Corte d’appello dell’Aquila che ha rigettato l’opposizione da egli proposta avverso il decreto con il quale, in parziale accoglimento della sua domanda, era stato ingiunto al Ministero della giustizia il pagamento di Euro 2.800, quale riparazione dell’irragionevole durata di un processo di risarcimento dei danni conseguenti a un sinistro stradale per il periodo intercorso tra l’aprile del 2009 e l’11 aprile 2017, data della pubblicazione della sentenza di questa Corte che aveva definito il processo presupposto.
Resiste con controricorso il Ministero della giustizia.
Il ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
CHE:
I. Il ricorso è articolato in sette motivi.
1) Il primo motivo denuncia “violazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di applicare il principio espresso da Cassazione 28 novembre 2012, n. 21177, pronunciata nel precedente procedimento di equa riparazione riguardante il medesimo giudizio presupposto oggetto della controversia”.
Il motivo è infondato. Quella in esame è la seconda domanda di riparazione proposta dal ricorrente. In relazione al medesimo processo presupposto, che era iniziato nel 1985, D.G. aveva già fatto valere una domanda di riparazione, domanda sulla quale si è pronunciata questa Corte, con la sentenza n. 21177/2012, determinando l’indennizzo in misura pari a 750 Euro per i primi tre anni e 1.000 Euro per gli anni successivi. Tale determinazione, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, non ha efficacia vincolante nel presente giudizio, facendo stato – come ha precisato la Corte d’appello – limitatamente al periodo in relazione al quale è stata effettuata.
La Corte d’appello dell’Aquila, con il decreto qui impugnato, ha deciso la domanda di riparazione del danno causato dalla durata del successivo arco temporale del processo presupposto, domanda che è stata proposta il 29 settembre 2017, nella vigenza pertanto dei parametri di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2-bis così che legittimamente l’indennizzo è stato determinato sulla base di tali parametri.
2) Il secondo motivo contesta “violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4”; la pronuncia della Corte d’appello conterrebbe affermazioni tra loro inconciliabili: da un lato ha affermato (v. il precedente motivo) che la sentenza di questa Corte n. 21177/2012 non è vincolante circa il quantum dell’indennizzo, dall’altro lato invece ha stabilito che la richiesta di ottenere l’indennizzo anche con riferimento agli anni di ragionevole durata del processo si scontra con il giudicato della medesima pronuncia laddove tali anni ha scomputato.
Il denunciato vizio di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” non sussiste. La Corte d’appello, nel decreto impugnato, ha da lato, per le ragioni appena viste, escluso che la determinazione del quantum dell’indennizzo stabilita in relazione alla prima domanda fosse vincolante rispetto alla successiva domanda decisa sulla base di uno ius superveniens; dall’altro lato ha correttamente ritenuto sussistente il giudicato su quanto dalla pronuncia n. 21177/2012 deciso, ossia lo scomputo della durata ragionevole del processo.
3) Il terzo motivo contesta “violazione degli artt. 13,41 e 46 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonché della L. n. 848 del 1955, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. e dei principi in materia di equa riparazione per la durata non ragionevole del processo affermati dalla Corte Europea ed illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, artt. 2, commi 2-bis e 2-quater, art. 2-bis, comma 1 per contrasto con gli artt. 3,111 e 117 Cost.”: la Corte d’appello ha “liquidato a titolo di equa riparazione una somma di gran lunga inferiore all’importo che sarebbe dovuto” secondo la giurisprudenza della Corte Europea, facendo applicazione prima della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quater e poi dell’art. 2-bis medesima legge, disposizioni da ritenersi entrambe incostituzionali.
La prospettata questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata. Questa Corte ha escluso il contrasto tra le disposizioni in tema di misura dell’indennizzo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, introdotte prima dal D.L. n. 83 del 2012 e poi dalla L. n. 208 del 2015, e l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione e la ragionevolezza del criterio di 500/400 Euro per anno di ritardo recepivano comunque, nella sostanza, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della stessa Corte di cassazione (Cass. 25837/2019, Cass. 19897/2014, Cass. 22772/2014). Invero, l’indennizzo calcolato in Euro 400 per anno di ritardo non può essere di per sé considerato irragionevole, e quindi lesivo dell’adeguato ristoro per violazione del termine di durata ragionevole del processo. E’ vero che si è più volte affermato, nei precedenti di questa Corte, che la quantificazione del danno non patrimoniale dovesse essere, di regola, non inferiore a Euro 750 per i primi tre anni di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata, e salire per il periodo successivo a Euro 1.000; si è però anche costantemente affermato che la valutazione dell’entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco) può giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non legittimandosi unicamente il riconoscimento di un importo irragionevolmente inferiore a quello risultante dall’applicazione dei predetti criteri, dal momento che solo la liquidazione di un indennizzo poco più che simbolico o comunque manifestamente inadeguato contrasta con l’esigenza, posta a fondamento della L. n. 89 del 2001, di assicurare un serio ristoro al pregiudizio subito dalla parte per effetto della violazione dell’art. 6, par. 1, della convenzione (v. Cass. 12937/2012, Cass. 17404/2009, Cass. 22772/2014).
4) Il quarto motivo fa valere “violazione degli artt. 13,41 e 46 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonché della L. n. 848 del 1955, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. e dei principi in materia di equa riparazione per la durata non ragionevole del processo affermati dalla Corte Europea ed illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-bis per contrasto con gli artt. 3,111 e 117 Cost.” per avere “la Corte d’appello commisurato l’indennizzo di equa riparazione dovuto in questa sede solo a un periodo di ulteriori sei anni, rispetto a quelli considerati nella precedente sentenza della Suprema Corte”.
Il motivo non può essere accolto. Come si è già visto, la Corte d’appello ha correttamente rilevato l’efficacia vincolante sul punto della sentenza di questa Corte n. 21177/2012, né al riguardo è prospettabile il contrasto con le norme costituzionali richiamate per le ragioni indicate supra, sub 3).
5) Il quinto motivo denuncia “violazione degli artt. 13,41 e 46 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonché della L. n. 848 del 1955, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. e dei principi in materia di equa riparazione per la durata non ragionevole del processo affermati dalla Corte Europea ed illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quater per contrasto con gli artt. 3,111 e 117 Cost.” per avere la “Corte d’appello determinato l’indennizzo di equa riparazione senza tenere conto del periodo intercorso tra il giorno iniziale di decorrenza del termine per proporre l’impugnazione e quello di effettiva proposizione della stessa”.
Il motivo non può essere accolto. La Corte d’appello ha infatti applicato il disposto di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quater secondo cui “ai fini del computo non si tiene conto del tempo (..) intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa”, disposto che “esprime un chiaro elemento interpretativo della ratio della legge sull’equa riparazione”, in quanto “non può essere addebitato all’amministrazione della giustizia il lasso di tempo di stasi processuale, nel quale nessun giudice è incaricato della trattazione del processo, come quello relativo al decorso del termine per proporre impugnazione” (Cass. 26833/2016), il che rende manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale avanzato dal ricorrente.
6) Il sesto motivo contesta “violazione degli artt. 13,41 e 46 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonché della L. n. 848 del 1955, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. e dei principi in materia di equa riparazione per la durata non ragionevole del processo affermati dalla Corte Europea ed illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, comma 2 per contrasto con gli artt. 3,111 e 117 Cost.”, per avere la Corte d’appello commisurato l’indennizzo a parametri notevolmente inferiori a quelli stabiliti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Il motivo non può essere accolto: vengono infatti riproposte le doglianze relative alla determinazione dell’indennizzo già proposte con il terzo e il quarto motivo.
7) Il settimo motivo denuncia “violazione o falsa applicazione degli artt. 91,92,112 c.p.c., art. 2233, comma 2 c.c., 6, 41, e 46 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, per avere la Corte d’appello liquidato, nel giudizio di opposizione, onorari e compensi professionali senza tenere conto dei parametri stabiliti dalla legge per i procedimenti contenziosi e nel rispetto dei minimi tariffari”: la liquidazione delle spese nella misura di Euro 450 per la fase sommaria “si porrebbe in rotta di collisione con la ormai pacifica giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui la liquidazione deve essere effettuata sulla base della tariffa riguardante i procedimenti contenziosi e con il rispetto dei minimi tariffari”.
Il motivo non può essere accolto. La Corte d’appello ha ritenuto corretta la quantificazione delle spese per la fase monitoria avendo confermato il decreto che aveva accolto solo parzialmente la domanda del ricorrente e d’altro canto “in tema di giudizio di equa riparazione per irragionevole durata del processo, la liquidazione delle spese della fase destinata a svolgersi dinanzi al consigliere designato deve avvenire sulla base della tabella n. 8, rubricata procedimenti monitori, allegata al D.M. n. 55 del 2014” (Cass. 16512/2020), tabella che appunto prevede per le cause dal valore sino a 5.200 Euro la liquidazione di Euro 450.
II. Il ricorso va quindi rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore del controricorrente che liquida in Euro 1.000, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della sezione seconda civile, il 22 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2021
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