Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.23297 del 23/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18041-2016 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA STOPPANI n. 1, presso lo studio dell’avvocato ANDREA LO FASO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT REAL ESTATE S.c.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FONTANELLA BORGHESE n. 72, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO VOLTAGGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato TITO MONTEROSSO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1082/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 31/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/03/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione ritualmente notificato C.G. evocava in giudizio il Banco di Sicilia S.p.a. innanzi il Tribunale di Palermo, esponendo di essere proprietario di una porzione immobiliare sita al piano ammezzato dello stabile di *****, lamentando che detto bene fosse stato occupato senza titolo dalla società convenuta, ed invocando la condanna di quest’ultima al rilascio, alla cessazione delle molestie frapposte alla libera utilizzazione del cespite ed al risarcimento del danno. Si costituiva in giudizio la banca convenuta, invocando il rigetto della domanda in quanto il bene non era mai stato occupato, ma costituiva semplicemente porzione interclusa.

Con sentenza n. 4932/2010 il Tribunale accoglieva la domanda, condannando il Banco di Sicilia S.p.a. al rilascio del bene, ma rigettando le altre domande proposte dal C.; la prima, di cessazione delle molestie, in quanto la società convenuta si era comunque dichiarata disposta a consentire al C. l’accesso al bene di cui è causa; la seconda, in quanto il danno non era stato dimostrato dall’attore.

Interponeva appello avverso tale decisione Unicredit Real Estate S.c.p.c., avente causa dell’originaria convenuta, e si costituiva in seconde cure il C., per resistere al gravame.

Con la sentenza impugnata, n. 1082/2016, la Corte di Appello di Palermo accoglieva l’impugnazione, ritenendo che non fosse stato accertato né il fatto che il bene del C. avesse un accesso autonomo, né la circostanza che la società appellante lo avesse effettivamente occupato.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione C.G., affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso Unicredit Real Estate S.c.p.a.

La parte controricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140,948 e 949 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché la Corte di Appello non avrebbe considerato che Unicredit, nel corso di un precedente giudizio instaurato da tale Ci.Ma.Ca., ed avente ad oggetto la medesima porzione immobiliare oggetto del presente giudizio, si era difesa allegando di aver comunque usucapito il bene immobile predetto. Ad avviso del ricorrente, in tal modo Unicredit avrebbe espressamente riconosciuto il possesso, e quindi l’occupazione, del bene stesso. La linea difensiva della banca sarebbe stata la stessa anche nel presente giudizio, poiché il consenso all’accesso del C. manifestato da Unicredit costituiva manifestazione di una signoria di fatto sulla porzione oggetto di causa.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226,2043 e 2056 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte distrettuale avrebbe dovuto rilevare l’esistenza di un danno risarcibile, derivante dall’occupazione senza titolo del bene immobile ad opera di Unicredit.

Le due censure, che meritano un esame congiunto, sono infondate. La Corte panormitana ha ritenuto che “… il C. sostanzialmente ammette, in diversi suoi atti difensivi, che la porzione di ammezzato oggetto del contendere, di sua proprietà, è interclusa o non ha comunque accesso autonomo.

In primo luogo, in citazione esplicitamente riferisce che l’ammezzato de quo, allo stato, non ha autonomo accesso; nello stesso atto riferisce che “quest’ultimo immobile (e intende l’immobile limitrofo acquistato dal Banco di Sicilia) che costituisce allo stato necessario accesso al piano ammezzato de quo…”; sempre in citazione, enunciando formalmente la domanda giudiziale, chiede, nei confronti di parte convenuta, “la restituzione di esso piano ammezzato e la cessazione delle molestie di fatto e di diritto, oltre che la determinazione del periodo in cui l’attore potrà accedere al proprio immobile transitando per quello del Banco di Sicilia, per esercitare i propri diritti, nonché eseguire i lavori edili previsti…”. Tali frasi sembrano assolutamente in contraddizione con l’affermazione che l’immobile abbia un autonomo accesso dalla hall condominiale” (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata). La Corte siciliana aggiunge poi che il C. non ha comunque dimostrato l’esistenza dall’autonomo accesso al proprio bene, “… essendosi limitato a produrre in primo grado alcune planimetrie e foto dalle quali non emerge con chiarezza la situazione dei luoghi e quindi la condizione degli accessi all’ammezzato” (cfr. pag. 3 della sentenza). Ed infine, ha escluso che il Banco di Sicilia avesse mai riconosciuto di occupare il bene controverso, “… poiché anche la dichiarata messa a disposizione ovvero la disponibilità dei propri funzionari a consentire la visita dell’immobile va spiegata alla luce della condizione di interclusione dell’ammezzato del C., condizione che, a questo punto, è da considerare accertata” (cfr. ancora pag. 3). Su tali considerazioni, che si risolvono in un accertamento di fatto non utilmente censurabile, in sé stesso, in questa sede, la Corte distrettuale ha ritenuto che “Si deve pertanto concludere che l’appellante non detiene l’immobile, ma, piuttosto, che l’ammezzato, in quanto intercluso, non è liberamente accessibile dal proprietario”.

Il ricorrente propone, con le censure qui esaminate, una diversa lettura degli atti e delle risultanze istruttorie acquisite al giudizio di merito, invocando dunque un riesame del convincimento della Corte territoriale, da ritenersi contrario alla finalità ed alla natura del giudizio di legittimità (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).

Peraltro, la decisione impugnata è condivisibile, poiché l’accertamento della natura interclusa di un bene non implica l’automatica sussistenza di una sua occupazione abusiva da parte del proprietario del fondo intercludente. La prova di detta occupazione, pertanto, deve essere specifica e va fornita a cura della parte che abbia interesse a far valere l’occupazione stessa. Nel caso di specie, era dunque il C. a dover conseguire detta dimostrazione, cosa che – ad avviso del giudice di merito – non è avvenuta. Il rigetto della domanda di rilascio del bene e di risarcimento del danno da occupazione costituisce dunque diretta conseguenza della mancanza della prova del suo fatto costitutivo, rappresentato -appunto – dall’occupazione del cespite di cui è causa.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché il giudice di seconde cure lo avrebbe erroneamente condannato anche alla refusione delle spese di prime cure, senza considerare che Unicredit aveva concluso invocando soltanto la compensazione delle spese del giudizio di primo grado.

La censura è inammissibile. Il governo delle spese del doppio grado di giudizio costituisce conseguenza della riforma della sentenza di prime cure, disposta dalla Corte di Appello con la sentenza oggi impugnata. Sul punto, il collegio ritiene di dover dare continuità al principio per cui “Il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9064 del 12/04/2018, Rv. 648466). Pertanto, in tutti i casi in cui il giudice di appello accolga l’impugnazione principale, riformando la decisione di prime cure, egli è tenuto a regolare le spese del doppio grado, anche a prescindere dall’esistenza di un motivo di gravame sul punto, posto che la pronuncia sulle spese costituisce una diretta conseguenza di quella sui motivi di impugnazione (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23985 del 26/09/2019, Rv. 655106). Solo nei casi in cui l’appello sia rigettato, ovvero accolto in senso maggiormente favorevole per la parte già vittoriosa in prime cure, le spese di prime cure possono essere riviste dal giudice dell’impugnazione solo a condizione che, sul punto, sia stato proposto specifico motivo di gravame (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 27606 del 29/10/2019, Rv. 655640), poiché in tale ipotesi viene meno il rapporto di necessaria conseguenzialità tra le due pronunce, sul merito e sulle spese.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità, regolate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2021

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