LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26087-2016 proposto da:
F.I., F.A., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA SESTO RUFO, 2, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ERCOLE MOSCARINI, rappresentate e difesi dagli avvocati RAFFAELE PIGNATARO, ANNA ORLANDO;
– ricorrenti –
contro
FULAT S.R.L., (già FRATELLI F. & C. S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati UMBERTO CANETTI, e RAFFAELE PELLEGRINO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2980/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 03/05/2016 R.G.N. 842/2014.
RILEVATO
che la Fratelli F. & C. S.r.l. ha interposto appello avverso la pronunzia del Tribunale di Torre Annunziata n. 3678/2013, resa il 20.9.2013, con cui la stessa era stata condannata, tra l’altro, a versare, a titolo di differenze retributive, la somma di Euro 198.353, 94, oltre accessori, in favore di F.A. e di Euro 306.743,87, oltre accessori, in favore di Immacolata F., ed altresì a riassumere F.A. entro tre giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, o, in mancanza, a versare alla medesima la somma di Euro 6.935,175, oltre accessori, ed a corrispondere ad F.I.” a titolo di risarcimento del danno, una indennità pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal 30.4.2010 all’effettiva reintegra ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;
che la Corte territoriale di Napoli, con sentenza pubblicata il 3.5.2016, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha respinto tutte le domande proposte da F.I. ed altresì la domanda di differenze retributive proposta da F.A., confermando, nel resto, la sentenza di primo grado;
che i giudici di seconda istanza, per quanto ancora di rilievo in questa sede, hanno osservato che, nella fattispecie, non si ravvisano elementi probatori “a sostegno della subordinazione di F.I. per tutto il periodo oggetto di giudizio, e quindi dal 1990 al 2008” e che, pertanto, tutte le domande dalla stessa proposte “vanno rigettate, non potendosi ipotizzare alcun licenziamento in mancanza di un rapporto di lavoro subordinato con la società appellante”; ed inoltre, che “solo i testi F.I. e A.A. hanno riferito, peraltro in maniera generica, sull’attività lavorativa che sarebbe stata svolta da F.A. nel periodo dal 1988 al 1998, ma tali testi sono inattendibili ed in mancanza di ulteriori riscontri, non può ritenersi raggiunta la prova della subordinazione per tale periodo”;
che per la cassazione della sentenza ricorrono F.A. e F.I. articolando un motivo contenente due censure, cui resiste con controricorso la S.r.l. Fulat (già Fratelli F. & C. S.r.l.);
che il PG non ha formulato richieste.
CONSIDERATO
che, con il ricorso, si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e contraddittorietà della motivazione”, e si lamenta, in particolare, che “la motivazione addotta dalla Corte di Appello per escludere l’attendibilità dei testi in questione è aprioristicamente legata al rapporto di parentela intercorrente tra i testi stessi e la ricorrente e non entra in alcun modo nella valutazione delle dichiarazioni rese dagli stessi”; che “Nel medesimo contesto l’omessa valutazione delle deposizioni rese dai testi in parola ha interrotto l’iter logico volto a determinare un pronunzia che desse conto in pieno degli esiti probatori”; e che la Corte di merito non avrebbe pronunziato “rispetto a due voci retributive che risultano documentalmente non corrisposte a F.A.: la 13 mensilità dal 1998 al 2009 ed il trattamento di fine rapporto dal 1998 al 2009”;
che la prima censura non è meritevole di accoglimento; al riguardo, va premesso che la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (nella fattispecie, peraltro, del tutto congrua, condivisibile e scevra da vizi logici); che i giudici di seconda istanza, invero, hanno dato conto dei motivi per i quali hanno conferito un giudizio di maggiore attendibilità ad alcuni testi rispetto ad altri (v., in particolare, pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata), correttamente sottolineando che la prova della subordinazione deve essere particolarmente rigorosa e che molti dei testimoni escussi in merito erano caduti in contraddizione;
che, pertanto, non corrisponde al vero che alcuni testi non siano stati reputati credibili solo perché legati da vincoli di parentela o di amicizia con le ricorrenti;
che la seconda censura è inammissibile, poiché, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata depositata, come riferito in narrativa, il 3.5.2016, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (v., tra le altre, Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; né, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare” in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015), che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata; peraltro, in ordine all’omessa pronunzia “rispetto a due voci retributive che risultano documentalmente non corrisposte a F.A.: la 13 mensilità dal 1998 al 2009 ed il trattamento di fine rapporto dal 1998 al 2009”, si rileva che, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le ricorrenti non hanno prodotto, né indicato tra gli atti offerti in comunicazione unitamente al ricorso di legittimità, la documentazione di cui si tratta: per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità della doglianza svolta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013);
che, per tutto quanto esposto, il ricorso va respinto;
che le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna le ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 7.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 4 marzo 2020.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2021