LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1207-2020 proposto da:
A.V., elettivamente domiciliato presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE APRILE;
– ricorrente –
contro
CASSA NAZIONALE di PREVIDENZA e ASSISTENZA FORENSE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GREGORIO VII 108, presso lo studio dell’avvocato BRUNO SCONOCCHIA, rappresentata e difesa dall’avvocato MAURIZIO CINELLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 689/2019 della CATANIA, depositata il 26/06/2019; udita la relazione della causa svolta partecipata del 22/04/2021 dal GABRIELLA MARCHESE.
RILEVATO
che:
la Corte di appello di Catania respingeva l’appello proposto da A.V. nei confronti della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense e confermava la decisione del Tribunale di Ragusa che aveva rigettato l’opposizione avverso il ruolo e la cartella esattoriale notificata all’ A. il 10 febbraio 2015, avente ad oggetto le sanzioni dovute alla Cassa Forense per la mancata comunicazione del modello 5 relativamente ai redditi professionali degli anni dal 2007 al 2009;
per quanto qui solo rileva, la Corte di appello ha ritenuto inammissibili, in quanto integranti domande nuove, i motivi di appello con cui l’appellante aveva introdotto le questioni dell’omessa notifica dell’ordinanza ingiunzione e della decadenza ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 25;
con riferimento alla prima questione, la Corte di appello ha osservato come la L. n. 689 del 1981, art. 28, invocato in primo grado, disciplinasse il termine di prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, decorrente dalla data di commissione dell’illecito, e, correttamente, il Tribunale avesse interpretato le censure e considerato interrotto il termine di prescrizione in virtù della raccomandata del 14 novembre 2011;
quanto al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 25, la Corte territoriale ha osservato, altresì, che “quand’anche” la questione della decadenza “fosse stata implicitamente invocat(a) in primo grado” la stessa, in ogni caso, era infondata giacché la disposizione riguarda i contributi previdenziali e le sanzioni civili (somme aggiuntive) e non anche le sanzioni amministrativi quale quella in esame: la sanzione stabilita per l’inottemperanza all’obbligo di comunicare alla cassa nazionale forense l’ammontare del reddito professionale entro trenta giorni dalla dichiarazione dei redditi ha, infatti, natura amministrativa;
avverso la decisione, ha proposto ricorso per cassazione A.V., con due motivi, cui ha opposto difese la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense (di seguito, per brevità, Cassa), con controricorso;
la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale.
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo, parte ricorrente deduce la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 28. Secondo il ricorrente, la Cassa avrebbe dovuto procedere, previamente, alla notifica della contestazione nel termine di giorni 90 dalla violazione e poi notificare l’ordinanza ingiunzione e, quindi, solo successivamente, nei termini fissati dall’art. 28, procedere alla riscossione coattiva della sanzione; critica la statuizione di inammissibilità della questione;
con il secondo motivo, è dedotta, invece, la violazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 25; il ricorrente assume che il ruolo opposto era stato reso esecutivo il 31.12.2012 mentre la cartella era stata notificata il 10.2.2015;
i due motivi possono esaminarsi congiuntamente, presentando analoghi profili di inammissibilità;
la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possano rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Nel ricorso, infatti, devono essere illustrate le ragioni per le quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta, oltre alla esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata, l’esposizione di argomenti che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero i vizi di motivazione (Cass. n. 17125 del 2007 e negli stessi termini Cass. n. 20652 del 2009; in motivazione, Cass. n. 9384 del 2017);
nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che i motivi con i quali l’appellante devolveva le questioni “dell’omessa notifica dell’ordinanza ingiunzione e della decadenza D.Lgs. n. 46 del 1999, ex art. 25” in quanto “integranti domande nuove” fossero inammissibili; in relazione al secondo profilo (quello della decadenza) ne ha, poi, comunque, rilevato l’infondatezza;
le censure del ricorrente non colgono la ratio della decisione perché non sviluppano argomenti idonei a confutare, in modo specifico, la statuizione di “novità” espressa dal giudice di appello e, pertanto, non sono conformi alla previsione del citato art. 366 c.p.c., n. 4;
sotto diverso profilo, deve aggiungersi, con riferimento al secondo motivo, che le censure si confrontano solo con la statuizione di infondatezza della eccepita decadenza, resa dalla Corte di appello dopo aver dichiarato, come si è detto, inammissibile la relativa questione (id est: il relativo motivo di appello). Ed è noto che quando, come nella specie, il giudice, dopo aver dichiarato inammissibile una domanda o un capo di essa o un motivo di impugnazione, in tal modo spogliandosi della potestas judicandi al riguardo, abbia ugualmente proceduto all’esame degli stessi nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione, e quindi prive di effetti giuridici, con la conseguenza che la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnarle, essendo invece tenuta a censurare la dichiarazione d’inammissibilità, la quale costituisce l’unica vera ragione della decisione (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. Un., n. 24469 del 2013; Cass., n. 11675 del 2020; Cass. n. 30393 del 2017; Cass., n. 17004 del 2015);
il secondo motivo è anche inammissibile perché si fonda su un documento (l’estratto di ruolo – id est la cartella – recante la data di esecuzione dello stesso, sulla cui base è argomentata la tardività del procedimento di riscossione) non depositato in questa sede di legittimità e neppure localizzato in atti;
alla stregua delle esposte argomentazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
sussistono, altresì, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove il versamento risulti dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.500,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 22 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2021