Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.23457 del 26/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19747-2016 proposto da:

T. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FERDINANDO DI SAVOIA n. 3, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO MONTANI, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO ALBERTO RACCHIA n. 2, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO NACCARI, rappresentato e difeso dall’avvocato RAFFAELE CALABRESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1399/2016 del TRIBUNALE di TORRE ANNUNZIATA, depositata il 16/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/04/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 28.4.2009 S.M. evocava in giudizio la T. S.r.l. innanzi il Giudice di Pace di Pompei, invocandone la condanna alla restituzione della somma di Euro 850, corrispondente a quanto pagato dall’attore per l’acquisto di un abito difettato. L’attore esponeva, in particolare, che il vestito da lui acquistato presso il negozio della convenuta presentava un difetto nella trama dei pantaloni; che tale difetto era stato prontamente segnalato; che la convenuta lo aveva riconosciuto rilasciando all’attore una ricevuta per “reso per difetto di trama sui pantaloni”. Nella resistenza della società convenuta, il Giudice di Pace, con sentenza n. 1166/2012, dichiarava risolto il contratto di compravendita intercorso tra le parti ed accoglieva la domanda, condannando la convenuta alle spese.

Interponeva appello T. S.r.l. e si costituiva in seconde cure il S., resistendo al gravame.

Con la sentenza oggi impugnata, n. 1399/2016, il Tribunale di Torre Annunziata rigettava l’impugnazione, condannando l’appellante alle spese del grado.

Propone ricorso per la cassazione di detta pronuncia T. S.r.l., affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso S.M..

Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1495 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché il Tribunale avrebbe omesso di ravvisare la decadenza dell’attore dalla garanzia per i vizi della cosa venduta. La denuncia del vizio di cui è causa, infatti, sarebbe stata – secondo la prospettazione della società ricorrente – formulata dal S. oltre i termini di cui all’art. 1495 c.c. Lo stesso, infatti, si sarebbe recato presso il negozio di T. S.r.l. a restituire il vestito soltanto un mese dopo averlo acquistato, come dichiarato dal solo teste attendibile, il Te., all’epoca commesso dell’esercizio commerciale di cui anzidetto. La deposizione del teste To., secondo il quale invece il S. avrebbe denunciato il vizio il giorno successivo all’acquisto, sarebbe – secondo la società ricorrente -inattendibile perché contraddetta, su altre circostanze, dall’altro teste indotto dall’attore, I..

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1491 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché il Tribunale avrebbe errato nel configurare il difetto di cui è causa – consistente in una irregolarità della trama dei pantaloni – come vizio occulto, in base ad una scorretta valutazione delle prove acquisite nel corso del giudizio di merito. Secondo la società ricorrente, la testimonianza Te., che avrebbe dovuto essere ritenuta, anche su questo punto, decisiva, avrebbe dimostrato che il difetto non poteva esistere al momento della vendita, in quanto il commesso aveva dichiarato di aver mostrato al cliente diverse simulazioni di pieghe al pantalone, nel corso delle quali il vizio, se vi fosse stato, sarebbe stato certamente notato.

Le due censure, che meritano un esame congiunto, sono inammissibili.

Il Tribunale ha ritenuto che i documenti acquisiti agli atti del giudizio e le deposizioni dei testimoni escussi avessero dimostrato che il vizio era di natura occulta; “Infatti, data la posizione dell’anomalia del tessuto del vestito è naturale che solo una ispezione accurata poteva evidenziare il difetto. Nei locali di un negozio è quasi impossibile per la presenza di luci artificiali accorgersi di un difetto di trama” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). Inoltre, il giudice di seconde cure ha affermato che le risultanze della prova orale – in particolare, la deposizione del teste To. – avesse confermato che il vizio fosse stato denunciato dal S. già il giorno successivo all’acquisto. Tali conclusioni si fondano su un apprezzamento delle risultanze istruttorie che rientra tra le attribuzioni riservate al giudice di merito, dovendosi ribadire il principio secondo cui “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).

Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2719 c.c., artt. 214,215,216 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che il venditore avesse, con l’emissione della ricevuta di reso prodotta dal S. in atti del giudizio di merito, riconosciuto l’esistenza del vizio. Ad avviso della società ricorrente, tale documento era stato tempestivamente disconosciuto ed il S. non aveva tempestivamente proposto istanza di verificazione dello stesso, La censura è infondata.

Il Tribunale ha affermato che tale documento “… è stato disconosciuto dall’appellante nel primo grado di giudizio, ma poi provato con CTU nel corso di giudizio di primo grado” (cfr. ancora pag. 3 della sentenza impugnata). Ha, inoltre, ritenuto che l’istanza di verificazione fosse stata proposta dal S., poiché “… per la proposizione in via incidentale dell’istanza di verificazione non sono richieste determinate forme, potendo il giudice ravvisare la volontà di chiedere la verificazione, e quindi di servirsi del documento disconosciuto, in un comportamento concludente, anche senza l’uso di formule sacramentali o mezzi specifici” (cfr. pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata).

Tale passaggio della motivazione è pienamente coerente con i precedenti di questa Corte, secondo cui “L’istanza di verificazione della scrittura privata disconosciuta può essere anche implicita, come quando si insista per l’accoglimento di una pretesa che presuppone l’autenticità del documento e non esige la formale apertura di un procedimento incidentale, né l’assunzione di specifiche prove, quando gli elementi già acquisiti o la situazione processuale siano ritenuti sufficienti per una pronuncia al riguardo” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 16383 del 04/07/2017, Rv. 644865; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8272 del 24/05/2012, Rv. 622419).

Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 194,195 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché il giudice di merito avrebbe omesso di pronunciarsi sulle eccezioni che erano state mosse dalla difesa della società venditrice alle modalità con cui era stata svolta la C.T.U. in prime cure. In particolare, la ricorrente lamenta che l’ausiliario non abbia comunicato alle parti, dopo il primo incontro di avvio delle operazioni peritali, le successive date di svolgimento delle indagini tecniche, e che non abbia inviato alle parti la bozza del suo elaborato, prima di depositarlo in cancelleria. Dette censure, che sarebbero state sollevate dalla difesa di T. S.r.l. all’udienza del 27.4.2012 e successivamente ribadite in conclusionale, non sarebbero state in alcun modo valutate dal giudice di merito.

La censura è inammissibile.

La T. S.r.l. non indica, con il necessario livello di precisione, in quale momento processuale le censure all’operato del C.T.U. sarebbero state sollevate per la prima volta. Non è sufficiente, al riguardo, la sola affermazione secondo cui ciò sarebbe avvenuto all’udienza del 27.4.2012, poiché il motivo non riporta, neanche per riassunto, il verbale di detta udienza, né precisa per quale adempimento essa fosse stata fissata, né specifica che la stessa fosse la prima udienza utile dopo il deposito della C.T.U. oggetto di contestazione. Tali carenze sono decisive, tenuto conto del consolidato principio secondo cui “Le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2 dovendo, pertanto, dedursi – a pena di decadenza – nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 19427 del 03/08/2017, Rv. 645178; conformi Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4448 del 25/02/2014, Rv. 630339 e Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15747 del 15/06/2018, Rv. 649414). Era quindi onere della parte ricorrente dimostrare che le eccezioni di cui al motivo in esame fossero state tempestivamente sollevate nel corso del giudizio di merito, con la prima difesa utile dopo il deposito dell’elaborato peritale; in difetto di tale prova, che – come detto – non emerge dalla doglianza, la stessa va ritenuta inammissibile.

Con il quinto ed ultimo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 2475 bis c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, perché il Tribunale non avrebbe considerato che T.D. – che aveva materialmente compilato e sottoscritto la dichiarazione di “reso per difetto di trama sui pantaloni” oggetto di verificazione nel corso del giudizio di merito – sarebbe stato in realtà privo di legittimazione ad impegnare la società, ed avrebbe pertanto, al massimo, potuto agire come falsus procurator; il cui operato, tuttavia, non sarebbe stato in seguito riconosciuto dalla società venditrice. Di conseguenza, ad avviso della ricorrente, le dichiarazioni rese dal predetto T.D. non avrebbero potuto spiegare effetti pregiudizievoli per la società.

La censura è inammissibile perché nuova. La ricorrente ricostruisce il contenuto della propria comparsa di costituzione in prime cure (cfr. pag. 2 del ricorso), nel quale non risulta compresa la specifica deduzione oggetto del motivo in esame. Ne’ la stessa risulta dalla lettura della sentenza impugnata, che non fa alcun cenno al problema della potestà del T.D. di impegnare la società T. S.r.l. Quest’ultima avrebbe dovuto chiarire in quale momento del giudizio di merito l’eccezione sarebbe stata introdotta; al contrario, non soltanto il motivo non contiene tale specificazione, ma -al contrario- il ricorso contiene (come detto, a pag. 2) la conferma della mancata indicazione della specifica difesa nel novero delle argomentazioni che erano state spese in prime cure dall’odierna ricorrente.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 850 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2021

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