LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BELLINI Ubaldo – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22923-2016 proposto da:
ISTITUTO DIOCESANO SOSTENTAMENTO DEL CLERO DIOCESI ALIFE CAIAZZO, IN PERSONA DEL PRESIDENTE E LEGALE RAPP.TE PRO-TEMPORE, rappresentato e difeso dall’avv. CIRO FERRUCCI;
– ricorrente-
contro
S.L.A., S.A.M.F., rappresentate e difese dall’avv. BENEDETTO MARIA IANNITTI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2752/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 05/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/04/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.
RITENUTO
che la vicenda qui al vaglio può riassumersi nei termini seguenti:
– l’Istituto Diocesano Sostentamento del Clero della Diocesi di Alife-Caiazzo citò in giudizio S.A.M. e S.L.A. ed esponendo di essere proprietario di un fondo ubicato in *****, che era già stato di proprietà dell’Arcipretura di Sant’Angelo d’Alife e detenuto dalla conduttrice I.M., confinante con il terreno di proprietà delle S. e che quest’ultime vantavano un inesistente diritto di proprietà sullo “stradone”, che faceva parte dell’area di proprietà attorea, chiese che fosse accertato il proprio diritto di proprietà sullo sterrato di cui detto, con esclusione di qualsivoglia diritto delle convenute;
– il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Piedimonte Matese, per un verso accertò il diritto di proprietà dell’attore e, per altro verso, accogliendo la domanda riconvenzionale, dichiarò l’acquisto per usucapione delle convenute, compensando le spese di causa;
– la Corte d’appello di Napoli, rigettato l’appello principale dell’Istituto Diocesano e accolto quello incidentale, rigettò la domanda attorea, qualificata di rivendica e non di mero accertamento, per non essere stata fornita la prova della titolarità, condannando l’Istituto al rimborso delle spese del doppio grado;
ritenuto che l’Istituto Diocesano ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di due motivi, ulteriormente illustrati da memoria, e che la controparte resiste con controricorso;
ritenuto che con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 222 del 1985, artt. 28, 29 e 30, della L. n. 810 del 1929, dell’art. 2653 c.c., n. 1 e dell’art. 42 Cost., assumendo, in sintesi, che:
– l’intero fondo di cui, faceva parte lo “stradone”, già in capo all’Arcipretura del comune di Sant’Angelo d’Alife, era pervenuto all’Istituto Diocesano per effetto dell’estinzione dei benefici parrocchiali, L. n. 222 del 1985, ex art. 28;
– quanto alla continuità delle trascrizioni occorreva rilevare che in forza della citata L. 222 il patrimonio dei benefici parrocchiali era transitato in capo agli istituti diocesani e nel caso di specie ciò risultava dalla nota di trascrizione del 18/11/1988 del decreto del Ministero dell’Interno del 20/12/1985 e successivamente, a seguito della fusione delle Diocesi di Alife e Caiazzo nell’unica Diocesi di Alife-Caiazzo;
– di conseguenza, assolto all’obbligo trascrizionale previsto dalla L. 222, non andava svolto alcun altro incombente; né sussisteva alcun ulteriore titolo di provenienza, trattandosi di bene che si apparteneva all’ente ecclesiastico “da secoli e da tempo immemorabile”;
– avverso gli effetti “erga omnes” della pubblicità non constava “alcuna opposizione da parte di coloro che accampano diritti sulla res”;
– le S. non avevano mai tenuto “l’atteggiamento psicologico proprio del possessore”;
– non si era avuta “interversione del possesso”, la quale non poteva avvenire attraverso un mero atto d’interna volizione;
ritenuto che con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 99 – 112,113,115 e 116 c.p.c., 2697 e 1158 c.c., assumendo, in sintesi, che:
– la sentenza d’appello aveva erroneamente reputato la domanda attorea, qualificata come azione di rivendicazione, non provata dal titolo prodotto dall’Istituto, nonostante che le S. avessero sempre ammesso che la zona in contestazione “era nella titolarità e nel possesso giuridico dell’IDSC”;
– l’immobile, già in capo all’Arcipretura di Sant’Angelo d’Alife, era pervenuto all’Istituto a seguito dell’estinzione del beneficio parrocchiale, L. n. 228 del 1985, ex art. 28 e ciò risultava dalla nota di trascrizione del 18/11/1988 del decreto del Ministero dell’Interno del 20/12/1985; di poi, fuse le Diocesi di Alife e di Caiazzo nella Diocesi di Alife-Caiazzo, il fondo era passato in capo all’Istituto ricorrente; altro titolo non v’era, né poteva esservi, sulla base del Concordato tra lo Stato e la Chiesa (L. n. 810 del 1929 e L. n. 222 del 1985), appartenendo il bene “all’ente ecclesiastico da secoli e da tempo immemorabile”;
– non erano stati compiuti atti materiali dai quali il proprietario avrebbe potuto inferire il mutamento di animus delle S., le quali conoscevano “l’esistenza del contratto di affitto e che l’IDSC proprietario reale – paga le tasse ed i tributi dovuti”;
– l’esistenza di piante non era dimostrativa del possesso utile all’usucapione; né “un fatiscente ed occasionale reticolo composto unicamente da alcuni paletti fradici e qualche filo di ferro che li unisce”, posto a protezione della parte coltivata, poteva costituire segno dimostrativo del possesso vantato dalla controparte;
– continuità delle trascrizioni, pagamento delle imposte e mancanza di abbandono dell’area avrebbero dovuto essere congruamente valutati dal Giudice;
– il passaggio delle S. era stato tollerato;
considerato che i due esposti motivi, tra loro correlati, non possono essere accolti, valendo quanto segue:
a) il ricorrente non contesta la qualificazione della domanda quale rivendicazione e in tema di azione di rivendicazione, come noto, al fine di soddisfare la c.d. “probatio diabolica”, l’attore deve provare la propria titolarità risalendo, attraverso i propri danti causa, fino all’acquisto a titolo originario; ma qui il ricorrente, formula osservazioni, fondate sul richiamo alla normativa concordataria, che non pertinenti al tema, stante che i principi evocati, lungi dall’essere utili a soddisfare l’onere della prova gravante sull’Istituto, regolano, appunto i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, senza influire sul regime probatorio della proprietà e, tantomeno, senza istituire per singoli beni, fra i quali annoverare la parte del fondo di cui qui si discute, forme di acquisto speciali;
b) il ricorrente, sotto altro profilo, non assolve all’onere in parola, limitandosi ad affermare, con congettura apodittica inverificabile, che trattavasi di bene (tutto il fondo, inclusa la striscia in contestazione) che si apparteneva all’ente ecclesiastico “da secoli e da tempo immemorabile”, senza introdurre elemento di prova di sorta posto a corroborazione dell’assunto, che, ovviamente, non può consistere nel richiamo alla normativa concordataria, ma deve consustanziarsi in circostanze fattuali dimostrative dell’asserto;
c) non trova qui applicazione il principio secondo il quale quando il convenuto deduca con eccezione o domanda riconvenzionale di avere acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, si attenua l’onere probatorio a carico dell’attore in rivendicazione, poiché tale onere si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonché alla prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (Sez. 2, n. 12327, 18/10/2001, Rv. 549546 e succ.); invero le controricorrenti assumono di avere posseduto sin dal dopoguerra e il ricorrente non allega con la necessaria specificità un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene (la striscia di terreno di cui qui si discute) ai suoi danti causa in epoca anteriore;
d) solo allo scopo di soddisfare completezza argomentativa va soggiunto che, pur ad ammettere, in ipotesi, che il ricorrente abbia dimostrato continuità di trascrizione, essa non interferisce con l’acquisto per usucapione, poiché in tema di trascrizione, il conflitto fra l’acquirente a titolo derivativo e quello per usucapione è sempre risolto, nel regime ordinario del c.c., a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l’usucapione e dall’anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo, atteso che il principio della continuità delle trascrizioni, dettato dall’art. 2644 c.c., con riferimento agli atti indicati nell’art. 2643 c.c., non risolve il conflitto tra acquisto a titolo derivativo ed acquisto a titolo originario, ma unicamente fra più acquisti a titolo derivativo dal medesimo dante causa (Sez. 2, n. 2161, 3/2/2005, Rv. 579186; conf., ex multis, Cass. n. 18888/2008);
e) nel resto le critiche risultano palesemente dirette a un inammissibile riesame delle valutazioni di merito della sentenza impugnata, la quale prende in rassegna tutte le emergenze fattuali e le risultanze istruttorie, smentendo la tesi del ricorrente;
considerato che il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo;
CONSIDERATO
che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore delle controricorrenti, che liquida in Euro 2.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 27 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2021
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