Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.23494 del 26/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8555/2016 proposto da:

Comune di Terzo di Aquileia, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Canina n. 6, presso lo studio dell’avvocato Roberto Paviotti, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine de ricorso;

– ricorrente –

contro

Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, in persona del Presidente della Regione pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Colonna n. 355, presso l’Ufficio Distaccato della Regione, rappresentata e difesa dall’avvocato Beatrice Croppo, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 610/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 2/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 14/5/2021 dal Cons. Dott. MARCO MARULLI.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Trieste, con la sentenza richiamata in epigrafe, per quanto qui rileva, ha accolto il gravame della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia avverso la decisione che in primo grado ne aveva pronunciato, su istanza del Comune di Terzo di Aquileia, che agiva in proprio nonché quale capofila di altri Comuni ricadenti nel comprensorio aquileiese ed in aree limitrofe, la condanna al rimborso dei compensi extra orario corrisposti a quattro dipendenti dei citati enti locali per le attività dai medesimi prestate quali componenti della commissione giudicatrice per l’affidamento di incarichi di consulenza esterna in attuazione di un progetto di valorizzazione territoriale da realizzarsi con fondi comunitari erogati dalla Regione.

Il giudice territoriale, nel prendere le distanze dalla decisione di primo grado – dell’avviso che non fossero ravvisabili né profili di contiguità soggettiva tra le attività in questione e le mansioni affidate ai singoli dipendenti dalle amministrazioni di appartenenza né profili di contiguità oggettiva atteso il carattere non ordinario e non preventivabile dell’evento realizzando – si è detto al contrario convinto che detta attività “nel momento in cui venne prestata in attuazione delle finalità istituzionali di tutti i Comuni… interessati alla realizzazione del progetto comunitario, abbia visto come destinatari pure i singoli Comuni… alle dipendenze dei quali già lavoravano in via continuativa le persone che percepiscono il compenso aggiuntivo. Tale personale, dunque, seppur evadendo – in ogni caso con il suo consenso – compiti diversi da quelli inerenti al normale servizio, ha finito per svolgere un’attività istituzionale (pure) per conto del rispettivo ente territoriale di appartenenza, che direttamente ne beneficiò, con la conseguenza che ciò che gli competeva era unicamente il normale trattamento stipendiale e non anche l’ulteriore emolumento.

Per la cassazione di detta decisione il Comune di Terzo di Aquileia nella veste ut supra si affida ad un unico mezzo, illustrato pure con memoria, cui replica la Regione con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. L’unico motivo di doglianza che corrobora il ricorso del Comune si vale dell’argomento ritratto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, che la Corte d’Appello, decidendo nei riferiti termini, avrebbe violato, essendo “assolutamente pacifico che le attività prestata nell’occasione dai citati dipendenti non possano essere fatte rientrare tra le ordinarie mansioni da loro svolte nell’ambito del loro rispettivo rapporto di servizio con l’ente territoriale di appartenenza”. Si tratta, infatti, osserva in modo più specifico il ricorrente, di prestazioni “di eccezionale portata e comunque di dimensioni e fini esorbitanti rispetto a quelli del singolo Comune”, “di attività e prestazioni eccezionali che non rientravano affatto nelle mansioni ordinarie quotidianamente espletate dai dipendenti nell’interesse dei Comuni”, “di incarichi prestati in favore di una “cordata” di 17 Comuni e non già del solo Comune di cui i singoli funzionari sono dipendenti”. Dunque tutte queste circostanze contrastano l’assunto decisorio enunciato dal giudice d’appello che ha considerato le dette attività rientranti nell’espletamento delle ordinarie mansioni di servizio e ne ha escluso conseguentemente la remunerabilità.

3. Il motivo, malgrado la colorazione giuridica impressagli dal ricorrente, si sottrae al chiesto sindacato cassatorio in quanto la sua cognizione impinge nella valutazione di profili meritali della vicenda e per questo esso si rende inammissibile.

4. Per vero la regula iuris di cui il motivo lamenta la violazione si radica sul presupposto – rinvenibile per l’appunto nella norma in indirizzo e pure nel D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 92, comma 2, relativo ai dipendenti degli enti locali – che ai dipendenti pubblici non sia fatto divieto di assumere, oltre a quello presso l’amministrazione di appartenenza, altri impieghi retribuiti per conto di altre amministrazioni a condizione che essi siano autorizzati dall’amministrazione di appartenenza e salvo, ben’inteso, che tale divieto non sia espressamente contemplato dallo Statuto del singolo ente locale o dalla contrattazione collettiva. Essendo il cumulo degli impieghi consentito ex lege, nulla dunque si oppone in linea di diritto, allorché la loro assunzione sia debitamente autorizzata, alla remunerabiltà di essi ovvero al fatto che il dipendente possa essere retribuito per le attività prestate in espletamento dell’impiego presso altra amministrazione percependo un compenso ulteriore rispetto al trattamento stipendiale accordatogli dall’amministrazione di appartenenza. Il principio dell’omnicomprensività della retribuzione, in considerazione del quale gli emolumenti contrattualmente previsti all’atto dell’ingresso in servizio sono satisfattivi di ogni prestazione disimpegnata nell’ambito delle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto, va incontro qui, evidentemente, ad un preciso limite poiché si sottraggono alla sua applicazione quelle ulteriori attività che il dipendente sia stato autorizzato dall’amministrazione di appartenenza a svolgere in favore di altra amministrazione ed in ragione del cui espletamento sia previsto l’erogazione di un trattamento economico aggiuntivo. Più in generale deve osservarsi come bene rimarca la giurisprudenza contabile (C. Conti, Sez. III, 23/05/2007, n. 144) e come pure questa Corte non ha mancato di considerare segnatamente in relazione al lavoro dirigenziale (Cass., Sez. IV, 30/03/2017, n. 8261) – che il principio dell’omnicomprensività della retribuzione opera in stretta correlazione funzionale con il quadro delle mansioni affidate al dipendente, vale a dire con il complesso delle attività che il dipendente disimpegna in coerenza con la posizione lavorativa assunta ed in vista della realizzazione dei fini istituzionali dell’ente. Esso, in sintesi, copre – ed esclude perciò che possano essere autonomamente retribuite – le attività che costituiscono diretto espletamento delle mansioni conferite, mentre non copre – e quindi non osta in ipotesi alla loro remunarazione mediante l’erogazione di un compenso aggiuntivo – le attività il cui espletamento non sia ad esse riconducibile. Ed è questa la regula iuris che si assume qui violata.

5. Ora, allorché si deduce avanti a questa Corte l’erroneità della decisione di merito per contrarietà alla regola di diritto richiamata, se ne sollecita il giudizio, secondo i criteri enucleabili dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 o perché il decidente è caduto in un errore di individuazione violando perciò il comando normativo per averne fatto applicazione quando le attività espletate dal dipendente non ricadono nel mansionario riferibile alla posizione lavorativa del medesimo o perché è caduto in un errore di sussunzione non applicando il comando normativo ed incorrendo così nel vizio di falsa applicazione di legge quando le predette attività siano invece riconducibili tra quelle oggetto di mansionamento.

Qualunque angolazione si adotti, è in ogni caso certo che l’errore di diritto che si vuole vedere sanzionato in questa sede si rende sindacabile a misura del fatto che sia incontroverso l’inquadramento o meno delle predette attività tra quelle identificative delle mansioni affidate al dipendente, inquadramento che in base agli elementi di cognizioni versati in causa e alle acquisizione operate in corso di istruzione è compito esclusivo del giudice di merito effettuare nell’esercizio di poteri di accertamento che gli competono in quanto giudice del fatto storico.

Dunque questa Corte. perché richiesta, potrà dire se la regula iuris dianzi enunciata risulti violata per essere stata applicata quando le attività oggetto di discussione non ricadono nel mansionario affidato al dipendente ovvero per non essere stata applicata quando le dette attività ricadono nel detto mansionario, ma non potrà sostituirsi al giudice di merito nello stabilire se le attività di che trattasi rientrino o meno nelle mansioni conferite al dipendente, giacché ciò integra un accertamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito che si sottrae al giudizio del giudice di legittimità.

6. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

Spese alla soccombenza Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in Euro 2700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2021

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