LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22824-2019 proposto da:
U.J., domiciliato in ROMA, piazza Cavour n. 1, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, difeso dell’Avv. Antonino Ciafardini, del foro di Pescara, che lo rappresenta con procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– resistente –
avverso il decreto n. 1531/2019 del Tribunale di L’Aquila, depositato l’11/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/10/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona con provvedimento notificato il 20 aprile 2018 rigettava la domanda del ricorrente volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;
– avverso tale provvedimento interponeva opposizione U.J., che veniva respinta dal Tribunale di L’Aquila con decreto dell’11.06.2019;
– la decisione impugnata evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando, in primo luogo, che la vicenda narrata, di avere abbandonato il proprio Paese a seguito dell’uccisione del padre nel 2009, che era l’enogie (ossia il re) di ***** per mano dei membri della comunità di ***** (un villaggio vicino) a causa di dispute per alcuni terreni che il padre coltivava per la propria comunità, e poi del fratello minore, nel 2011, sempre ad opera degli abitanti di *****, episodio in cui lui era stato ferito alla coscia e alla spalla con un vetro di bottiglia, non era particolarmente attendibile, giacché dalla copia di un giornale *****, nel quale si parlava degli sviluppi delle indagini sull’omicidio avvenuto il ***** in danno del sovrano tradizionale del clan *****, U.S., emergeva che l’uccisione non era affatto dovuta a dispute per la coltivazione di terreni, ma da porre in connessione “con la guerra in corso per la corona di ***** che attualmente infuria tra la città di ***** e *****, un villaggio vicino a *****”. Dunque una lotta per la carica di sovrano tradizionale, per cui al momento non potevano più essere riscontrati per avere lo stesso ricorrente riferito che al momento il re del villaggio e suo fratello maggiore, con la conseguenza che la disputa per la corona dal lontano 2010 poteva ritenersi ormai sopita. Inoltre rilevava che provenendo il ricorrente dall'***** (in *****), dal rapporto COI redatto dal Dipartimento di Giurisprudenza di “Roma Tre” nel maggio 2018 risultava che vi era un progressivo miglioramento nelle condizioni di vita e le notizie relative alla sussistenza di un conflitto armato erano relative alla diversa zona del *****. Quanto alle informazioni del rapporto annuale 2017/2018 redatto da Amnesty International e relative a diffuse violazioni dei diritti umani, di arresti arbitrari, di trattenimenti illegittimi, di episodi di tortura e di maltrattamenti non determinavano una condizione di vulnerabilità del ricorrente, la cui storia personale non era segnata da episodi nei quali egli aveva dovuto confrontarsi con le criticità dell’impianto democratico del Paese di origine. Ne’ sussistevano i presupposti per potersi dire avvenuta l’integrazione del ricorrente in Italia, al di là dello svolgimento di saltuari lavori temporanei presso un vivaio;
– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione l’ U. affidato a quattro motivi;
– il Ministero dell’Interno intimato ha depositato solo “atto di costituzione” per eventualmente partecipare alla discussione.
Atteso che:
– con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la nullità della sentenza di appello (rectius: del decreto del giudice di merito) per motivazione carente, contraddittoria e/o apparente per non essere percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni inidonee, contraddittorie ed illogiche per giustificare il rigetto del gravame (rectius: dell’opposizione).
La censura è inammissibile prima che infondata.
Non è ravvisabile la nullità del provvedimento per motivazione apparente, posto che il Tribunale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione. In particolare, il Tribunale ha giudicato il racconto del ricorrente inattendibile, poco credibile, confuso e privo di una logica unitaria, soprattutto per la mancanza corrispondenza di quanto riferito alle notizie esposte nella pagina di quotidiano esibita; ha, inoltre, rilevato che ove veritiera la circostanza della morte del padre, questa era dovuta ad una lotta per la carica di sovrano tradizionale, per cui al momento non poteva più essere riscontrato alcun rischio per avere lo stesso ricorrente riferito che al momento il re del villaggio era suo fratello maggiore, con la conseguenza che la disputa per la corona dal lontano 2010 poteva ritenersi ormai sopita. Il giudice di merito ha, altresì, escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutando nel merito la vicenda narrata ha in ogni caso ritenuto che la stessa esulasse dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale in quanto il racconto del ricorrente aveva ad oggetto vicende che non integrano il c.d. timore persecutorio, in mancanza di atti persecutori diretti e personali.
Tale statuizione è conforme a diritto;
– con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, comma 1, lett. c) nonché dell’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, ribadito dall’art. 8 della direttiva n. 2011/95/UE del 13.12.2011, per non avere il Tribunale riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata, come meglio definita nella sentenza della Corte di Giustizia proc. n. C-465/07.
La censura è priva di pregio per avere fatto il giudice di merito specifico riferimento al rapporto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Roma Tre” e valutato anche l’ultimo rapporto annuale di Amnesty International escludendo che l’area di provenienza del richiedente fosse interessata da una situazione di violenza generalizzata di tale gravità e diffusione da mettere a repentaglio l’esistenza ed incolumità della persona.
A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c).
Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare le norme e talune pronunce della giurisprudenza di merito, asserendo che è da tempo orientata a riconoscere tale forma di protezione ai cittadini *****ni in virtù della situazione di instabilità del Paese, anche per quanti provengono dalle regioni meridionali.
Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).
Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakite’, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).
Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721).
Ne’ rileva il numero di fonti prese in considerazione dal giudice nelle sue valutazioni, ma l’autorevolezza delle stesse e la riferibilità al caso concreto, come nella specie è accaduto per l’ultimo rapporto di Amnesty International;
– con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, art. 3, comma 5, artt. 5,6 e 14, del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, per non avere il Tribunale valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri legali e fatto applicazione nella specie del principio dell’onere della prova attenuato, come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27310 del 2008, oltre a vizio della sentenza di appello (rectius: decreto del tribunale) in parte qua ex art. 134 c.p.c., n. 2 per motivazione contraddittoria e/o apparente non essendo percepibile il fondamento della decisione.
Anche il terzo mezzo non può trovare ingresso.
In materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona. Qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925/2018). Secondo l’indirizzo espresso da questa Corte, in tema di protezione internazionale, il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3 oltre a sancire un onere del richiedente consistente nell’allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, pone a carico dell’autorità decidente un più incisivo dovere di cooperazione istruttoria a carico dell’ufficio di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta, soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti.
Ciò posto, l’attivazione del suddetto potere di cooperazione istruttoria, che in questa materia deroga al principio dispositivo del processo civile, postula che ricorrano i presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 ed in particolare che il ricorrente abbia circostanziato la domanda, abbia fornito un’idonea motivazione della mancanza di altri elementi significativi, ed appaia attendibile dai riscontri effettuati.
Nel caso di specie il Tribunale ha escluso che siffatti presupposti sussistessero, ritenendo pertanto che non fosse necessaria l’attivazione del potere d’indagine suppletiva d’ufficio, non avendo il ricorrente giustificato in alcun modo la veridicità dei fatti narrati e che in ogni caso essendo nell’attualità sovrano del villaggio di origine del ricorrente il fratello maggiore, dovevano ritenersi sopiti gli asti e la disputa per la corona iniziati nel lontano 2010.
I giudici di merito grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto inattendibile la narrazione del richiedente, elemento questo di fondamentale importanza, poiché secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5” (Cass. 12 giugno 2019 n. 15794).
Con la conseguenza che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e con l’ulteriore corollario che il giudice deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.
Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa stessa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass. 29 ottobre 2018 n. 27336).
Non si può, quindi, dire omessa alcuna attività da parte del giudice di merito in quanto non è stato indicato il contenuto delle allegazioni da verificare, quand’anche in via ufficiosa. E quanto all’attuale situazione della *****, il Tribunale ha svolto un accertamento di merito sulla base di COI di fonte istituzionale, oltre ad osservare quanto al rapporto annuale di Amnesty International che le riferite diffuse violazioni dei diritti umani, di arresti arbitrari, di trattenimenti illegittimi, di episodi di tortura e di maltrattamenti in ***** non determinavano una condizione di vulnerabilità del ricorrente, la cui storia personale non era segnata da episodi nei quali egli aveva dovuto confrontarsi con le criticità dell’impianto democratico del Paese di origine. Ne’ sussistevano i presupposti per potersi dire avvenuta l’integrazione del ricorrente in Italia;
– con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente deduce la violazione del combinato disposto del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, per non avere il Tribunale riconosciuto la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela, oltre a vizio del decreto in parte qua ex art. 134 c.p.c., n. 2 per motivazione contraddittoria e/o apparente per avere il Tribunale respinto la richiesta di protezione umanitaria non essendo percepibile il fondamento della decisione.
E’ da ritenere inammissibile anche siffatta censura.
Questa Corte, infatti, ha già avuto occasione di chiarire, nella recente sentenza 23/02/2018, n. 4455, che, “se assunti isolatamente, né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza integrano, di per sé soli e astrattamente considerati, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto” alla protezione umanitaria, in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06 caso Nnyanzi c/ Regno Unito, par. 72 ss.)”.
La censura del ricorrente, invece, come si è visto, non va oltre l’allegazione di una generica criticità della situazione in cui versa la *****, *****, superata dal giudice del merito, come osservato con riferimento ai mezzi due e tre.
Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va respinto.
Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo il Ministero svolto alcuna attività difensiva.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 7 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2021