LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24865-2019 proposto da:
S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, Corso Trieste n. 10, presso lo studio dell’avvocato Emanuele Boccongelli, che lo rappresenta con procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 1718/2019 del Tribunale di L’Aquila, depositato il 21/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/10/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona con provvedimento notificato il 1 giugno 2018 rigettava la domanda del ricorrente volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;
– avverso tale provvedimento interponeva opposizione S.M., che veniva respinta dal Tribunale di L’Aquila con decreto del 21.06.2019;
– la decisione impugnata evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando, in primo luogo, che la vicenda narrata, di avere abbandonato il proprio Paese a seguito dei maltrattamenti e delle minacce di morte dello zio, presso il quale era andato a vivere dopo la morte dei genitori, oltre a non essere particolarmente attendibile in quanto racconto del tutto generico, stereotipato e privo di alcun riscontro, peraltro implausibile, non riuscendo a comprendersi per quale ragione lo zio lo cercherebbe per ucciderlo dal momento che sarebbe bastato escluderlo dalla sua casa, atteneva comunque a vicenda del tutto privata e personale-familiare, come tale non riconducibile al concetto di persecuzione. Inoltre rilevava che provenendo il ricorrente dal ***** (villaggio di *****), dal rapporto EASO del dicembre 2017, dal rapporto annuale Amnesty International 2017/2018 e dal rapporto marzo 2018 redatto da Asilo in Europa non venivano riferiti conflitti in atto nel Paese, il quale anzi dopo l’insediamento del presidente legittimamente eletto, B., e la fuga del despota J., si muoveva lungo la strada delle riforme democratiche e sociali. Ne’ sussistevano i presupposti per potersi dire avvenuta l’integrazione del ricorrente in Italia, non rilevando al riguardo le denunciate violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani, trattandosi di elementi da valorizzare necessariamente in correlazione alla vicenda personale del richiedente e la storia del S. non era segnata da episodi nei quali egli aveva dovuto confrontarsi con le dedotte criticità dell’impianto democratico del Paese di provenienza;
– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il S. affidato ad un unico motivo, cui resiste il Ministero intimato con controricorso.
Atteso che:
– con l’unico motivo il ricorrente lamenta la violazione delle norme di diritto che regolano la protezione internazionale, oltre a omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. In particolare, ad avviso del S. il giudice avrebbe omesso di valutare, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 5, lett. c), nonché dell’art. 14, lett. b) medesimo D.Lgs., il timore di un danno grave alla persona, proveniente direttamente da un familiare o da soggetti terzi privati, proprio in ipotesi di violenza domestica il giudice avrebbe dovuto verificare se lo Stato di origine sia in grado di offrire alla vittima adeguata protezione. Inoltre, ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 il giudice di merito avrebbe dovuto tenere conto ai fini dell’accertamento della vulnerabilità del richiedente non solo delle ragioni di età e di salute, ma anche della sussistenza di pregresse esperienze traumatiche.
La censura è priva di pregio.
L’art. 14 definisce il contenuto del “danno grave” che costituisce requisito ineludibile della protezione sussidiaria: “Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. La giurisprudenza di legittimità ha colto tale tratto distintivo rilevando nell’ordinanza n. 6880 del 2011 che “nell’attuale sistema pluralistico delle misure di protezione internazionale, il riconoscimento della protezione sussidiaria non richiede, diversamente da quanto previsto per lo status di rifugiato politico, l’accertamento dell’esistenza di una condizione di persecuzione del richiedente, ma è assoggettato a requisiti diversi, desumibili dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. g) e art. 14. Tale diversità è stata ribadita dalla Corte di Giustizia (Grande sezione, procedimenti riuniti C 175-179/08), in sede d’interpretazione conforme dell’art. 11, n. 1 lett. e) della direttiva 2004/83/CE, proprio al fine di evidenziare che l’eventuale cessazione delle condizioni riguardanti il riconoscimento dello status di rifugiato politico non può incidere sulla concessione della complementare misura della protezione sussidiaria secondo il diverso regime giuridico di questa misura che si caratterizza, alla luce dell’articolo della direttiva, proprio perché può essere concessa a chi non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato”.
La Corte di Giustizia (caso n. 465-07, sent. n. 172 del 2009, caso Elgafaji) ha espressamente precisato che il nesso causale tra situazione generale di danno grave e la diretta esposizione individuale è più sfumato rispetto al rifugio politico ed ha ritenuto che ai fini della protezione sussidiaria “una minaccia alla vita individuale può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti impegnate con una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia”. Questa pronuncia può fornire un’ottima chiave valutativa di situazioni, quali quelle del ***** (e di gran parte della Nigeria), nelle quali i diversi gruppi armati che controllano effettivamente il territorio usano violenza su cose e persone come arma di persuasione per ottenere terreni od altri vantaggi ed il rapimento e la violenza sessuale come rappresaglia o ritorsione con la tacita collusione od inerzia delle autorità. Diversamente in ***** è stata esclusa siffatta situazione proprio a seguito dell’insediamento del presidente legittimamente eletto, B., e la fuga del despota J., per cui il Paese si sta muovendo lungo la strada delle riforme democratiche e sociali.
Con una decisione successiva (sentenza Diakite’ C-285/12), la Corte di Giustizia ha avuto modo di chiarire un ulteriore aspetto relativo all’ipotesi di protezione sussidiaria prevista nell’art. 14, sub c). La Corte si sofferma in particolare sul significato da attribuire alla nozione di “conflitto armato interno”, chiarendo come l’espressione utilizzata dal legislatore dell’Unione non abbia nulla a che vedere con le nozioni poste a fondamento del diritto internazionale umanitario, stante le diversità di fini nonché dei meccanismi di protezione riscontrabili tra quest’ultimo ed il regime di protezione sussidiaria. Pertanto, afferma la Corte, la nozione di “conflitto armato interno” deve essere interpretata sulla base del suo significato abituale “nel linguaggio corrente” (prendendo in considerazione il contesto e gli obiettivi perseguiti dalla normativa) ovverosia “una situazione in cui le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o nella quale due o più gruppi armati si scontrano tra loro”. I giudici specificano, infine, che per ammettere l’esistenza di un conflitto armato interno ai fini dell’applicazione della disposizione di cui alla lett. c), non è necessario che “l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione”.
I principi affermati dalla Corte di Giustizia, ancorché non privi di ambiguità in ordine all’esatta definizione di violenza indiscriminata, si possono ritenere estensibili anche a situazioni non tecnicamente definibili come guerra civile, ma comunque caratterizzate da violenza indiscriminata ed incontrollata alla quale vengono esposte alcune categorie di persone o di gruppi sociali, e si può ritenere sufficiente, ove suffragata dai riscontri oggettivi officiosamente acquisiti D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8 in ordine al contesto socio-politico ambientale, la rappresentazione di una storia personale o familiare che esponga il richiedente a quelle tipologie di violenza, come quella sessuale verso le donne o comunque quella familiare, che costituiscono un metodo di soluzione dei conflitti indiscriminatamente attivo, non potendosi relegare tali pericoli nell’ambito della delinquenza comune soprattutto quando le autorità pubbliche non siano in grado di svolgere attività di polizia e sicurezza, né escludere il diritto alla protezione internazionale solo perché la richiedente grazie alla fuga non sia stata oggetto di minacce dirette come altri componenti della famiglia o gruppo sociale. Il Tribunale ha ritenuto che i fatti lamentati dal ricorrente non costituiscano un ostacolo al rimpatrio né integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali e che non siano da soli sufficienti a giustificare la misura di protezione richiesta l’integrazione raggiunta in Italia.
Il diritto alla protezione umanitaria è collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286 cit.” (Cass. 23 febbraio 2018 n. 4455).
Orbene, la generica contestazione di non avere adeguatamente dato spazio alle vicende personali e familiari del richiedente si risolve in una diversa valutazione dei riscontri probatori.
Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va respinto.
Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo il Ministero svolto nel controricorso alcuna attività difensiva riferibile al caso di specie.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 7 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2021