LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21992-2019 proposto da:
R.S., alias M.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANTONELLA MACALUSO, per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi 12, domicilia per legge;
– resistente –
avverso il DECRETO n. 1244/2019 del TRIBUNALE DI CALTANISSETTA, depositato il 17/6/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/1/2021 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.
FATTI DI CAUSA
Il tribunale, con il decreto in epigrafe, ha rigettato l’impugnazione che R.S., nato in ***** il *****, aveva proposto avverso il provvedimento con il quale la commissione territoriale, a sua volta, aveva respinto la domanda di protezione internazionale presentata dallo stesso.
R.S., con ricorso notificato il 13/7/2019, ha chiesto la cassazione del decreto, dichiaratamente comunicato in data 17/6/2019.
Il ministero dell’interno ha depositato atto di costituzione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, anche ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, , ha censurato il decreto impugnato, innanzitutto, nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che le dichiarazioni rese dal dichiarante innanzi alla commissione territoriale ed allo stesso giudice fossero non credibili e contraddittorie ed ha, quindi, ritenuto che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria.
1.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, il tribunale, senza colmare le affermazioni del richiedente ritenute non credibili attraverso l’esercizio degli ampi poteri istruttori che la legge riserva al giudice ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, ha omesso di valutare il fatto che, in realtà, il richiedente, tornando nel suo paese d’origine, potrebbe subire torture o trattamenti inumani o degradanti. Questi, infatti, come emerge dalle dichiarazioni rese, ha lasciato il proprio Paese perché perseguitato dalla famiglia dello zio, per ragioni economiche legate alla proprietà di un terreno, ed è ricercato dalla polizia, per la denuncia sporta nei suoi confronti per l’aggressione dello zio.
1.3. La storia narrata dal richiedente, del resto, è verosimile se calata nella realtà socio-culturale del *****, dove le vicende familiari, soprattutto di natura economica, come nel caso in questione, sono risolte con la violenza che spesso si trasforma in vere e proprie faide.
1.4. Il ricorrente, poi, ha censurato il decreto impugnato anche nella parte in cui il tribunale, richiamando il report pubblicato dall’EASO 2017, ha ritenuto che, in *****, non ricorre un conflitto armato ed ha, quindi, escluso la sussistenza del presupposto richiesto per la concessione della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c).
1.5. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha considerato che le COI dell’EASO riportano, in ragione della sua perduta indipendenza, riportano un quadro totalmente diverso dalle reale situazione e tendente al diniego dell’asilo in Europa.
1.6. Il tribunale, d’altra parte, lì dove ha escluso che la regione di provenienza del richiedente sussista una situazione di violenza indiscriminata, ha omesso di compiere un esame comparativo tra le informazioni provenienti dal ricorrente e la situazione nelle aree dallo stesso indicate, da eseguirsi con la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giudiziaria.
1.7. In effetti, ha concluso il ricorrente, il rapporto di Amnesty International del 2017-2018 dimostra la sussistenza, nel suo Paese d’origine, di potenziali rischi per l’incolumità dei cittadini.
2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, artt. 2,5, comma 6 e art. 19, ha censurato il decreto impugnato, innanzitutto, nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria, omettendo, tuttavia, di considerare che il richiedente, arrivato in Italia da minore e, quindi, in una situazione intrinseca di vulnerabilità connessa alla giovanissima età, ha dimostrato di aver intrapreso in Italia un fattivo percorso di integrazione sociale, partecipando a tutti i progetti, anche lavorativi, organizzati dal centro in cui è accolto, nonché la situazione di generale insicurezza in cui versa il suo Paese e la violazione dei diritti umani che in esso costantemente avviene. Il richiedente, del resto, lontano dal suo Paese sin dal 2016, in caso di rimpatrio incorrerebbe nelle difficoltà tipiche di un nuovo inserimento sociale e lavorativo. Il *****, d’altra parte, è caratterizzato, oltre che da emergenze ambientali e geologiche, da gravi ed oggettive difficoltà economiche, da diffusa povertà e da limitato accesso per la maggior parte della popolazione ai più elementari diritti della persona, tra cui il diritto alla salute e all’alimentazione.
2.2. Il richiedente, quindi, se rimpatriato, verrebbe a trovarsi in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a sostituire un significativo vulnus agli interessi di rango primario della persona, con conseguente vulnerabilità, che giustifica la concessione della protezione umanitaria.
3. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità del provvedimento impugnato per violazione del diritto di difesa per mancanza del contraddittorio su elementi di prova, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha utilizzato informazioni sul Paese d’origine del richiedente rimaste estranee al dibattito processuale. Le COI, infatti, ha osservato il ricorrente, sono elementi di prova che, però, il giudice deve formalmente acquisire e sottoporre al contraddittorio delle parti.
4.1. Il primo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
4.2. In effetti, ai fini della protezione internazionale, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva previsti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, , l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente circa la sua personale esposizione a rischio grave per la vita o la persona, essendo solo in tal caso possibile considerare “veritieri”, se pur sforniti di prova (perché non reperibile o non richiedibile), i fatti che lo stesso ha narrato (cfr. Cass. n. 16925 del 2018).
La valutazione d’inattendibilità del richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto che può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. n. 33858 del 2019).
Nel caso di specie, il tribunale, avendo riguardo ai fatti che il richiedente aveva narrato, così come incontestatamente esposti nel decreto impugnato, ha ritenuto che il racconto svolto dallo stesso in ordine alle ragioni che lo avevano indotto a lasciare il suo Paese erano inverosimili e contraddittorie ed ha, pertanto, correttamente escluso, in conformità ai predetti indicatori normativi (tra cui quello, previsto dalla lett. c), secondo il quale i fatti narrati dal richiedente sono considerati “veritieri” solo se le dichiarazioni dello stesso siano ritenute, appunto, “coerenti e plausibili”), che lo stesso fosse soggettivamente credibile.
Si tratta, per il resto, di un apprezzamento in fatto (del quale il tribunale – corretto o meno che fosse – ha esposto le ragioni in modo nient’affatto apparente o contraddittorio) che il ricorrente non ha specificamente censurato con la precisa indicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, dei fatti, principali o secondari, che il giudice di merito, nell’accertamento svolto circa l’intrinseca attendibilità della sua narrazione, avrebbe del tutto omesso di esaminare, ancorché dedotti nel corso del giudizio di merito e decisivi nel senso che la loro valutazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto diversa rispetto a quella affermata dalla decisione impugnata.
Ed è noto che l’inattendibilità del racconto del richiedente, così come (oramai incontestabilmente) accertata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare, per quanto rileva ancora, la domanda di concessione della protezione sussidiaria dallo stesso invocata ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. b), senza che sia a tal fine necessario procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità (nella specie neppure specificamente invocata né comunque accertata nel giudizio di merito) di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 33858 del 2019; Cass. n. 8367 del 2020; Cass. n. 11924 del 2020).
La vicenda narrata dal richiedente, del resto, ove mai fosse stata ritenuta veritiera dal giudice di merito, sarebbe stata nondimeno irrilevante ai fini della protezione internazionale che lo stesso ha invocato. In tema di protezione internazionale, infatti, le liti tra privati non possono essere addotte quale causa di danno grave nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007 (Cass. n. 19258 del 2020).
4.3. Per ciò che riguarda la protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), intanto va ribadito il principio in virtù del quale quando le dichiarazioni dello straniero sono inattendibili non è necessario un approfondimento istruttorio officioso, se è applicabile ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o di quelli per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), non può invece essere invocato nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c) cit., poiché, in quest’ultimo caso, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione non credibile dei fatti attinenti alla vicenda personale del richiedente (Cass. n. 10286 del 2020).
Peraltro, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c) cit., la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019).
La sussistenza di tale presupposto dev’essere accertata dal giudice di merito mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione (cfr. Cass. 9230 del 2020). Il giudice, però, a norma del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ha il dovere di indicare la fonte a tal fine utilizzata nonché il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (Cass. n. 13449 del 2019, Cass. n. 13450 del 2019, Cass. n. 13451 del 2019, Cass. n. 13452 del 2019).
Nel caso di specie – escluso ogni rilievo alle censure svolte in ordine alla invocata inutilizzabilità delle COI dell’EASO, trattandosi di questione cui il decreto impugnato non accenna senza che il ricorrente ne abbia prospettato, con la riproduzione dei relativi passi, la sua formale deduzione innanzi al giudice di merito – la decisione impugnata, indicando le fonti in concreto utilizzate (e cioè, precisamente, il rapporto EASO aggiornato al mese di dicembre del 2017) ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, ha (legittimamente) ritenuto che nel Paese di provenienza del richiedente non sussiste alcun conflitto armato nella senso fatto proprio dalla citata sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 30/1/2014, così implicitamente ma inequivocamente escludendo che la violenza abbia raggiunto un livello così elevato da comportare per i civili, in ragione della loro mera presenza sul posto, il concreto rischio della vita o di un grave danno alla persona.
Di tratta, per il resto, di un apprezzamento, del quale il tribunale ha indicato le ragioni in modo nient’affatto apparente o contraddittorio, che il ricorrente non ha censurato per avere il giudice distrettuale del tutto omesso l’esame di uno o più fatti specificamente dedotti in giudizio e decisivi ai fini di una ricostruzione della fattispecie diversa e allo stesso più favorevole. Ed e’, invece, noto che, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito che può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 23942 del 2020).
2.1. D’altra parte, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere – che, però, nel caso di specie è rimasto inadempiuto – di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019) e sempre che siano tali da far ritenere, in termini di certezza e non di mera probabilità, che, nella zona di provenienza del richiedente, per effetto di un conflitto armato interno tra le forze governative e uno o più gruppi armati ovvero tra due o più gruppi armati, sussista un grado di violenza indiscriminata di livello talmente elevato che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio effettivo di subirne la conseguente minaccia.
4.4. L’inadempimento di tale onere esclude, peraltro, ogni rilievo alla censura, svolta nel terzo motivo, che ha prospettato la nullità della decisione per aver il tribunale utilizzato COI sul Paese d’origine del richiedente senza disporne la formale acquisizione e senza sottoporle al contraddittorio tra le parti. Nel giudizio di protezione internazionale, infatti, l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché in tal caso l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il tribunale (com’e’ accaduto nel caso in esame) renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica (nella specie, come detto, omessa) in sede di impugnazione. D’altra, non risulta né dal decreto impugnato né dal ricorso (che, pertanto, risulta sul punto privo della necessaria specificità) che il tribunale abbia disposto o comunque acquisito ed utilizzato informazioni ulteriori e diverse da quelle già utilizzate dalla commissione e, come tali, acquisite agli atti del giudizio di protezione ai sensi dell’art. 35 bis, comma 8, in fine, del D.Lgs. n. 25 del 2008.
5.1. Il terzo motivo è parimenti infondato. La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017). I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).
5.2. Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando, in sostanza, che il richiedente non presenta una situazione di effettiva vulnerabilità personale che potesse giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta, com’e’ evidente, di un accertamento in fatto che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata. Nel caso di specie, però, ciò non è accaduto: il ricorrente, infatti, pur avendone l’onere (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, ancorché dedotti in giudizio, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, né, infine, la loro decisività ai fini di una differente pronuncia a lui favorevole: a partire dalla dedotta situazione di instabilità economica e geografica in cui versa il suo Paese d’origine. Ne’ può rilevare la minore età in cui il richiedente è entrato in Italia, una volta che lo stessi sia divenuto maggiorenne e non versi, come accertato nella specie, in una situazione attuale di vulnerabilità personale.
5.3. D’altra parte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018). Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, però, il tribunale, con apprezzamento che il richiedente non ha censurato per omesso esame di fatti specificamente dedotti in giudizio e decisivi ai fini di una differente ricognizione della fattispecie concreta, ha escluso, non potendo, comunque derivare dallo svolgimento di un’attività lavorativa (Cass. n. 8367 del 2020).
6. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poiché il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.
7. Nulla per le spese di lite, in mancanza di un’effettiva attività difensiva da parte del ministero.
8. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 20 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021