LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. BELLINI Ubalda – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 23509-2016 proposto da:
R.G., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avv. SALVATORE TAURINO giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO, 32, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELLA STURDA’, rappresentato e difeso dall’avvocato VIOLA MESSA giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2160/2016 del TRIBUNALE di LECCE, depositata il 29/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/05/2021 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. P.G. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 42/2011 emesso dal Giudice di Pace di Campi Salentina con il quale era stato condannato al pagamento della somma di Euro 2.689,87 nei confronti dell’avv. R.G., a titolo di compensi professionali per l’attività svolta in favore dell’opponente.
Si costituiva l’opposto che concludeva per il rigetto dell’opposizione.
Il giudice adito con la sentenza n. 310/2012 accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’opponente al pagamento della minor somma di Euro 990,00. Avverso tale sentenza proponeva appello l’avv. R. cui resisteva il P., che proponeva a sua volta appello incidentale.
Il Tribunale di Lecce, con la sentenza n. 2160 del 29/4/2016, in parziale riforma della decisione gravata, condannava l’opponente al pagamento della somma di Euro 722,41, compensando le spese del doppio grado.
Il giudice di appello, dopo aver ritenuto non sindacabile la decisione del giudice di primo grado di non disporre la riunione con altra opposizione avverso diverso decreto ingiuntivo ottenuto dall’avv. R. per prestazioni connesse a quelle per cui è causa, ribadiva che l’onere della prova incombeva, a seguito dell’opposizione, sul creditore ingiungente.
In tal senso doveva reputarsi che però il ricorrente avesse fornito prova delle prestazioni eseguite, atteso anche l’atteggiamento di non contestazione tenuto dall’opponente, dovendosi quindi dare piena applicazione alla regola codificata nell’art. 115 c.p.c. a seguito della novella del 2009.
Passando però alla quantificazione dei compensi, il Tribunale, attesa l’applicabilità ratione temporis dei criteri di cui al D.M. n. 127 del 2004, ricordava che non era stata provata l’esistenza di accordi diversi in punto di determinazione dei compensi, ad eccezione della dichiarazione sottoscritta dall’opponente, con la quale si impegnava a corrispondere un compenso determinato sulla base degli onorari medi.
Quindi liquidava la somma di Euro 405,00 a titolo di onorari e di Euro 225,00 per diritti, per le prestazioni rese dinanzi al Tribunale civile, Euro 464,00 per l’assistenza prestata nel processo penale ed Euro 330,00 per le prestazioni stragiudiziali, per un ammontare di Euro 1.341,00. Tale somma andava poi aumentata del 20 lo ai sensi dell’art. 5 comma 3 del citato DM, attesa l’assistenza plurima prestata dall’opposto, per un totale, comprensivo di Iva, spese generali e CPA, pari ad Euro 2.244,83.
Tale cifra andava poi ripartita tra l’appellato e l’altra parte assistita, in pari misura, sicché il credito dell’appellante ammontava ad Euro 1.122,41, dal quale detrarre l’acconto di Euro 400,00.
Le spese erano poi compensate attesa la reciproca soccombenza.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso R.G., sulla base di tre motivi.
L’intimato resiste con controricorso.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2223 c.c., comma 3, nonché degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., con omessa valutazione delle prove in relazione alla loro efficacia.
Deduce il ricorrente che la sentenza avrebbe violato le dette disposizioni del codice di rito, in quanto, pur avendo, correttamente richiamato i principi in tema di non contestazione ed onere della prova in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, ha errato al momento della quantificazione dei compensi.
Infatti, non ha tenuto conto dell’incarico professionale conferito dal P. in data 27/1/2010, con il quale si era impegnato a corrispondere i diritti e gli onorari nella misura media, sia per l’attività giudiziale che per quella stragiudiziale.
Trattasi di accordo che appare anche rispettoso del requisito di forma imposto dall’art. 2223, comma 3, (rectius 2233) c.c. a seguito della novella del 2006, ma la sentenza ha omesso di considerarne l’incidenza nella fattispecie.
Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, facendosi sempre riferimento a tale conferimento di incarico, del quale non si sarebbe tenuto conto nella sentenza gravata.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono destituiti di fondamento.
La lettura della sentenza gravata, precisamente a pag. 4, nella parte in cui affronta la quantificazione dei compensi, così recita: “… considerato altresì che l’appellato non ha in alcun modo provato l’esistenza di accordi diversi dalla dichiarazione sottoscritta da P.G., con cui lo stesso si impegnava a corrispondere all’avv. R. un compenso determinato sulla base degli onorari medi (circostanza anche questa non contestata)…”, e pertanto ha poi provveduto a determinare i compensi in relazione alle varie attività professionali, svolte in sede giudiziale civile e penale nonché in sede stragiudiziale.
Le espressioni letterali spese dal giudice di appello evidenziano senza incertezze come, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, l’esistenza del patto con il quale il cliente si impegnava a corrispondere gli onorari in base ai valori medi, è stata effettivamente riscontrata dal giudice di appello che ha poi ritenuto di liquidare le spettanze professionali sulla base di tale accordo, e cioè addivenendo ad una quantificazione sulla base dei detti valori medi.
E’ palese quindi come non ricorra alcuna omessa disamina del fatto decisivo individuato dal ricorrente, che è invece posto a fondamento della stessa decisione gravata.
Tale conclusione rende altresì evidente come non ricorra la dedotta violazione dell’art. 2233 c.c., avendo il Tribunale adeguatamente valorizzato l’impegno scritto del P. nei confronti del proprio difensore.
Appaiono poi del tutto inammissibili e generiche le censure di violazione della legge processuale, sempre per effetto del rilievo che investe l’effettiva presa in esame della scrittura volta a predeterminare i criteri di liquidazione dei compensi.
Ove si ritenga invece che le critiche investano la correttezza della liquidazione, sul presupposto che la stessa non corrisponderebbe a quella dovuta sulla base dei valori medi, il ricorso si palesa del pari inammissibile.
Manca una specifica individuazione delle attività professionali che sono state oggetto di liquidazione da parte del giudice di appello, posto che questi ha sì dato atto dell’applicazione del principio di non contestazione ma, proprio in ragione di tale regola, ha reputato superfluo specificare quali fossero le singole e specifiche attività per le quali provvedeva alla liquidazione.
Tale indicazione, che è invece doverosa, ove si intenda contestare la correttezza della liquidazione effettuata in sentenza, in quanto ritenuta non corrispondente a quella imposta dal criterio degli onorari medi, manca del tutto nel ricorso, né la parte ricorrente si perita di indicare quale sarebbe, sempre alla luce della prestazioni rese, il compenso effettivamente dovuto, facendo applicazione della scrittura del 27/1/2010, il che conforta la valutazione di inammissibilità della censura per come formulata.
3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., con erronea regolamentazione delle spese di giudizio e vizio di motivazione. La sentenza gravata ha compensato le spese sul presupposto della reciproca soccombenza, ma nella specie sarebbe stato più opportuno procedere ad una compensazione solo parziale, atteso che all’esito del giudizio è stato comunque riconosciuto un diritto di credito in favore del ricorrente.
La motivazione del Tribunale si riduce ad una mera formula di stile e ciò in contrasto con gli interventi del legislatore che hanno invece inteso sottoporre ad un controllo sempre più stringente la decisione del giudice di merito di compensare le spese di lite.
Il motivo è inammissibile.
Questa Corte ha anche di recente (Cass. n. 516/2020) ribadito che in tema di spese di lite, la reciproca soccombenza va ravvisata nell’ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti e nell’eventualità di accoglimento parziale dell’unica domanda, articolata in più capi, dei quali solo alcuni accolti, o costituita da un unico capo, ove la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (Cass. n. 3438/2016).
In tal caso però (Cass. n. 10685/2019) il potere del giudice di disporre la compensazione delle stesse per soccombenza reciproca ha quale unico limite quello di non poter porne, in tutto o in parte, il carico in capo alla parte interamente vittoriosa, poiché ciò si tradurrebbe in un’indebita riduzione delle ragioni sostanziali della stessa, ritenute fondate nel merito.
E’ stato poi precisato che (Cass. n. 26918/2018), anche nel regime normativo posteriore alle modifiche introdotte all’art. 91 c.p.c., dalla L. n. 69 del 2009 (applicabile al caso in esame), in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, con il detto limite della impossibilità dii condanna della parte sia pure parzialmente vittoriosa (conf. Cass. n. 1572/2018), ma è stato ribadito che (Cass. n. 30592/2017) la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente.
Posti tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, appare incensurabile l’affermazione circa la ricorrenza di un’ipotesi di soccombenza reciproca, attesa la riduzione, all’esito del giudizio, della somma richiesta in via monitoria e riconosciuta all’opposto, e risulta insindacabile la decisione di operare un’integrale compensazione, essendo stato salvaguardato il principio dell’impossibilità di porre le spese a carico dell’opposto, risultato, sia pure in misura parziale, vittorioso.
4. Il ricorso deve quindi essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.
5. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, se dovuti;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione Civile, il 13 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021
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