LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22605-2019 proposto da:
I.O., rappresentato e difeso dall’Avvocato ALESSANDRO FABBRINI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in BOLZANO, VIA CARDUCCI 13;
– ricorrente –
contro
MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è
domiciliato;
– resistente –
avverso il decreto n. 1171/2019 del TRIBUNALE di TRENTO, depositato in data 14/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/01/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
I.O. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, della protezione umanitaria.
Sentito dalla Commissione Territoriale, il richiedente aveva riferito di essere cittadino ***** (***** – *****), di religione *****; di essere orfano di padre e il terzo di sei figli, tutti però affidati – a eccezione di lui – ad altre famiglie; di aver frequentato la scuola primaria e di aver lavorato come agricoltore insieme al padre; di aver lasciato la ***** il 27 maggio 2015 in seguito all’omicidio del padre (al quale aveva assistito) da parte del proprietario del terreno coltivato dal genitore e poiché aveva accidentalmente investito e ucciso una persona mentre lavorava come taxista di moto; che era ricercato dai familiari della vittima e dalla polizia; che giungeva in Italia nel giugno 2016; temeva, in caso di rimpatrio, di essere ucciso in quanto testimone dell’assassinio del padre; temeva inoltre sia i familiari della persona uccisa che lo stavano cercando, sia di essere arrestato.
Con decreto n. 1171/2019, depositato in data 14.6.2019, il Tribunale di Trento rigettava il ricorso, ritenendo di condividere la decisione della Commissione Territoriale in merito alla non credibilità del racconto reso dal ricorrente, in quanto sommario, non circostanziato e molto contraddittorio. Alla Commissione il ricorrente aveva riferito di non aver denunziato l’assassino del padre perché nel suo villaggio non esisteva una stazione di polizia, mentre davanti al Tribunale aveva dichiarato che nel suo Paese la Polizia chiedeva soldi e che, siccome lui non li aveva, non avrebbero fatto niente.
A causa delle plurime e gravi contraddizioni, la vicenda narrata non era credibile nella parte in cui si riferiva all’assassinio del padre, mentre non era credibile, oltre a essere irrilevante, nella parte relativa all’omicidio stradale, non avendo il ricorrente riferito alcun elemento in merito all’eventuale procedimento penale pendente o concluso a suo carico. Il Tribunale sottolineava che, in base alle fonti internazionali, la zona di ***** non risultava interessata da una violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato. Pertanto, sia la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato che quella relativa alla protezione sussidiaria dovevano essere rigettate. Infine, si evidenziava che il ricorrente non avesse alcun serio motivo umanitario che potesse giustificare la sua permanenza in Italia, non avendo provato di rientrare in categorie soggettive in relazione alle quali fossero ravvisabili lesioni di diritti umani di particolare entità (patologie gravi, persone impossibilitate ad autodeterminarsi). Peraltro, il ricorrente non si trovava in alcuna condizione di vulnerabilità poiché le vicende narrate non attestavano alcuna correlazione specifica con eventuali violazioni dei diritti umani. Era irrilevante che egli avesse svolto lavori a tempo determinato in Italia e avesse seguito corsi di formazione poiché non può essere riconosciuto allo straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Cass. n. 4455 del 2018).
Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione I.O. in base a due motivi. Il Ministero dell’Interno si è costituito tardivamente al solo fine dell’eventuale partecipazione alla udienza di discussione della causa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 4 – valutazione di inattendibilità l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5”, poiché il Tribunale avrebbe omesso di valutare un fatto decisivo e cioè l’esame della documentazione prodotta, che confermerebbe la veridicità del vissuto narrato dal medesimo.
1.1. – Il motivo non è ammissibile.
1.2. – In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. n. 8368 del 2020).
Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018; Cass. n. 19443 del 2011).
1.3. – Va, d’altronde rilevato che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa (come già detto), l’allegazione di un’altrettanto erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.
Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).
1.4. – Dal canto suo, invece, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’e’ specifica adeguata indicazione.
Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).
1.5. – Ciò detto, va altresì posto in evidenza che le censure, nei termini in cui sono stati formulati, risultano caratterizzati dal medesimo vizio di assoluta assenza di specificità, in quanto non si confrontano in alcun modo con l’apparato argomentativo della sentenza, limitandosi ad affermazioni meramente di carattere generale, quanto all’interpretazione delle norme pertinenti, e della giurisprudenza anche di merito, accompagnata da mere asserzioni riferite alla specifica situazione della ***** (cfr. Cass. n. 18564 del 2020; cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 22980 del 2020; Cass. n. 2125 del 2020).
Viceversa, il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare con chiarezza nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; essendo, pertanto, inammissibile la critica generale (e inevitabilemente generica) della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di doglianze non riferibili al provvedimento impugnato, e quindi non chiaramente individuabili (Cass. n. 11603 del 2018).
1.6. – Resta, in conclusione, da porre in evidenza come le censure, nel loro complesso, si risolvano nella evidente sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).
Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 9275 del 2018); la qual cosa, nella specie, è ampiamente dato riscontrare.
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione, falsa ed erronea interpretazione e/o applicazione del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3, nonché D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, artt. 5 e 19, artt. 3 e 25 della CEDU, artt. 2 e 10 Cost. motivazione assente nonché errata valutazione dei presupposti e mancata concessione della protezione umanitaria in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, poiché il Tribunale avrebbe del tutto omesso la valutazione in merito alla sussistenza di una situazione di vulnerabilità, causata dal pericolo di rimpatrio di fronte a emergenze umanitarie, anche di carattere socio-economico.
2.1. – Il motivo è fondato, nei limiti di cui in motivazione.
2.2. – La ***** è un paese con altissimo tasso di povertà, difficoltà di accesso al lavoro, carenza del sistema sanitario ed enormi problemi in termini di sicurezza a causa delle aggressioni da parte del gruppo terroristico di *****. Pertanto, la conflittualità nel Paese, anche se non è tale da definirsi come conflitto armato, determina una situazione di insicurezza e di rischi, non evitabili a causa dell’inefficienza delle Forze Armate.
Per contro, i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno (individuati, alternativamente in “seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato Italiano, non sono definiti in maniera altrettanto analitica.
In particolare, non viene fornita alcuna indicazione normativa, sul modo e soprattutto sui limiti entro i quali debba essere circoscritta la nozione di “motivi umanitari”; la cui protezione deve essere riconosciuta in capo a quei soggetti che si trovino esposti a particolari condizioni di vulnerabilità per cause dipendenti da fattori soggettivi, come ad esempio motivi di salute o di età, oppure per ragioni di carattere oggettivo connesse, in paricolare, alla situazione sociale, economica, politica, umanitaria nella quale si trova il paese di provenienza del migrante (come, ad es., una grave instabilità politica, violenza generalizzata, persistenti violazioni dei diritti umani, carestie, disastri naturali o ambientali o altre situazioni similari).
D’altronde, l’ampio margine di discrezionalità, che il legislatore sembra avere riservato nella interpretazione della norma richiamata, rende necessario l’impiego di un rigoroso vaglio critico da parte del giudice, al fine di non vanificarne la ratio di protezione ed evitare, al tempo stesso, una non dovuta estensione dell’istituto.
2.3. – Orbene, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.
Con riferimento al percorso di integrazione avviato in Italia, tale elemento da solo non consentirebbe di addivenire alla chiesta protezione umanitaria, onde fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 23855 del 2020; Cass. n. 4455 del 2018). Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio.
In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza (Cass. n. 23855 del 2020).
2.4. – Risulta allora lesiva del paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 la mancata possibilità di ampliare l’ambito di estensione della protezione umanitaria allorquando (come nella specie) la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente, con riferimento al Paese di origine, lasci ragionevolmente presumere, in caso di rimpatrio, il rischio di violazione di diritti di matrice universale; violazione tanto più grave in ragione dell’alto grado di inserimento in Italia del richiedente medesimo.
3. – Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Viceversa va accolto il secondo, nei limiti di cui in motivazione; va cassato il decreto impugnatato, con rinvio del processo al Tribunale di Trento, in diversa composizione, che, attenendosi al principio enunciato, procederà ad un nuovo esame del merito e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo; accoglie il ricorso, nei limiti di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e rinvia il giudizio al Tribunale di Trento, in diversa composizione, che, attenendosi al principio enunciato, procederà ad un nuovo esame del merito e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2021