Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24005 del 06/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12943/2016 proposto da:

Comune di Licata, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Antonio Bertoloni n. 35, presso lo studio dell’avvocato Cappella Federico, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.C., V.F., V.G., elettivamente domiciliati in Roma, Via Oslavia n. 12, presso lo studio dell’avvocato Pallottino Alessandro, rappresentati e difesi dall’avvocato Paterniti La Via Pietro, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1746/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 23/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/03/2021 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 1746/2015 depositata il 23-11-2015, la Corte d’Appello di Palermo accoglieva parzialmente l’opposizione alla stima proposta da V.C., V.G. e V.F., subentrati quali eredi alla madre C.M.C. e condannava il Comune di Licata al versamento in favore degli attori, presso la Cassa Depositi e Prestiti, della somma di Euro 702.500, detratto quanto già versato per lo stesso titolo, oltre interessi legali come specificato nella motivazione della sentenza.

2. Avverso questa sentenza, il Comune di Licata propone ricorso affidato ad un motivo, resistito con controricorso da V.C., V.G. e V.F..

3. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis.1 c.p.c.. Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con unico articolato motivo il Comune di Licata lamenta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 42 Cost., nonché del D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 32 e 40, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il ricorrente, riportando in ricorso ampi stralci della sentenza impugnata e della relazione peritale, deduce che la Corte territoriale, nel recepire integralmente le argomentazioni del C.T.U., ha erroneamente valutato il valore del terreno espropriato, avente natura pacificamente inedificabile, come se fosse dotato di vocazione edificatoria, sia pure per insediamenti produttivi. Ad avviso del Comune, la Corte di merito non ha osservato i corretti criteri valutativi nella determinazione della giusta indennità di espropriazione, con particolare riferimento ai requisiti specifici ed alle caratteristiche del bene espropriato, a cui, di fatto, aveva attribuito un’edificabilità della quale era pacificamente privo ed un valore finanche superiore a quello di un terreno utilizzabile per campi sportivi, come pure risultava dalla C.T.U..

2. Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

2.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di espropriazione per pubblica utilità, l’attuale sistema indennitario e risarcitorio è fondato sul valore venale del bene, applicabile non soltanto ai suoli edificabili, da ritenersi tali sulla base del criterio dell’edificabilità legale ma anche, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 2011, ai suoli inedificabili, assumendo rilievo per tale ultima categoria ai fini indennitari e risarcitori la possibilità di utilizzazioni intermedie tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative etc.), sempre che siano assentite dalla normativa vigente sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative (tra le tante Cass. n. 3168/2019).

2.2. La Corte d’appello ha affermato che l’area in questione non può essere considerata legalmente edificabile, dovendo farsi riferimento alla destinazione urbanistica in essere alla data del decreto di espropriazione – anno 2005 – (zona per attrezzature di quartiere e segnatamente sottozona V – area a verde pubblico). Ha inoltre richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 181/2011 e la giurisprudenza di questa Corte in tema di indennità di aree non edificabili ed ha dichiarato di condividere il criterio di stima sintetico comparativo utilizzato dal C.T.U.. In base allo stralcio della relazione peritale riportata nel ricorso (cfr. pag. 9 e 10) risulta che il C.T.U., avuto riguardo alla destinazione urbanistica, alle caratteristiche del terreno e alla sua ubicazione, ha preso in considerazione una scala di valori tra il minimo (zona agricola Euro 35/mq.) ed un massimo (zona edificabile per insediamenti produttivi, quale gradino più basso dei terreni edificatori, Euro 70/mq.), ed ha ritenuto congruo il valore mediano di Euro 50/mq., considerando che “il terreno espropriato è ubicato in un quartiere fortemente urbanizzato ed in una posizione centrale nel contesto di un’area densamente edificata che lo rende di particolare appetibilità per qualsiasi utilizzazione esclusa quella edificabile” (cfr. pag. 10 ricorso, in cui riportato stralcio della C.T.U.). La Corte territoriale ha, dunque, proceduto a determinare l’indennità di espropriazione in base al valore venale dei beni apprezzandone concretamente l’utilizzabilità, pur limitata all’uso pubblicistico (così Cass. n. 3168/2019 già citata). Il valore edificatorio, considerato già al livello più basso, è stato, infatti, ulteriormente abbattuto, per utilizzo intermedio tra agricolo ed edificatorio.

La Corte di merito si e’, pertanto, attenuta ai principi affermati da questa Corte e non ricorrono le violazioni di legge denunciate dal ricorrente.

Sono inammissibili le doglianze nella parte in cui sono dirette a contestare il valore in concreto attribuito al bene perché asseritamente troppo elevato per un’area non edificabile, in quanto si risolvono in una richiesta di rivalutazione di un accertamento di fatto effettuato dai giudici di merito, peraltro in conformità alle conclusioni del C.T.U. e adeguatamente motivato.

3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, e le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Non ricorrono i presupposti per la condanna del Comune ex art. 96 c.p.c., comma 3, contrariamente a quanto addotto dai controricorrenti nella memoria illustrativa, non ravvisandosi sussistente una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, in considerazione della sussistenza di un certo margine di controvertibilità della materia oggetto del contendere (cfr. Cass. n. 3830/2021).

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 12.200, di cui Euro200 per esborsi, oltre rimborso spese generali ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2021

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