Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24041 del 06/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14532/2017 R.G. proposto da:

S.R., rappresentato e difeso dall’Avv. Rosario Magnano di San Lio, con domicilio eletto in Roma, via dei Gracchi, n. 187, presso lo studio dell’Avv. Marcello Magnano di San Lio;

– ricorrente –

contro

SA.MA., rappresentata e difesa dagli Avv. Wanna Del Buono, e Simona Napolitano, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via A. Mordini, n. 14;

– controricorrente –

e S.M., S.A. e SG.MI.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 77/17, depositata il 17 gennaio 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30 marzo 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ragusa, dopo aver pronunciato, con sentenza non definitiva del *****, la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da S.R. con Sa.Ma., con sentenza definitiva del 6 giugno 2015 revocò l’assegnazione in uso della casa familiare alla donna, ordinandole di rilasciare l’immobile, e pose a carico dell’uomo l’obbligo di corrispondere un assegno divorzile di Euro 1.800,00 mensili, un assegno di Euro 1.000,00 mensili per il mantenimento della figlia maggiorenne M. ed un assegno di Euro 1.500,00 mensili ciascuno per il mantenimento dei figli A. e *****, anch’essi maggiorenni, oltre all’obbligo di contribuire nella misura del 70% alle spese streerdinarie.

2. Sull’appello proposto dallo S., si costituì la Sa., proponendo appello incidentale, e spiegarono intervento nel giudizio i tre figli, chiedendo l’accertamento del loro diritto al mantenimento nei confronti di entrambi i genitori, oltre al diritto di M. al rimborso dei costi sostenuti per la frequentazione di una scuola di specializzazione e degli altri due figli al rimborso della quota del canone di locazione dell’immobile in cui risiedevano.

2.1. Con sentenza del 17 gennaio 2017, la Corte d’appello di Catania ha dichiarato inammissibili gl’interventi spiegati dai figli, ha accolto parzialmente l’appello principale e ha rigettato quello incidentale, revocando l’obbligo di corrispondere l’assegno dovuto per il mantenimento della figlia con decorrenza dal mese di aprile 2013 e quello dovuto per il mantenimento degli altri due figli con decorrenza dal mese di ottobre 2014, nonché ogni altra statuizione della sentenza di primo grado riguardante i beni mobili esistenti nella casa familiare.

A fondamento della decisione, la Corte ha rilevato innanzitutto la nullità assoluta degl’interventi, in quanto spiegati dai figli con la rappresentanza e l’assistenza del medesimo difensore della madre, e quindi in evidente conflitto d’interessi, rilevabile anche d’ufficio, in quanto costituente violazione del diritto di difesa. Ha aggiunto che i figli maggiorenni non erano legittimati all’intervento in appello, non rientrando nel novero dei soggetti indicati dall’art. 344 c.p.c., e non essendo configurabile nei loro confronti un pregiudizio giuridico diretto ed immediato ricollegabile alla sentenza di secondo grado; precisato infatti che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 155-quinquies c.c., che ha previsto il versamento diretto dell’assegno di mantenimento in favore dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve ritenersi confermata la legittimazione autonoma e concorrente degli stessi e del genitore convivente ad agire per il riconoscimento di tale contributo, ha affermato che l’intervento nel giudizio di separazione o divorzio pendente tra i genitori è riconducibile all’art. 105 c.p.c., e non può quindi aver luogo in secondo grado.

Nel merito, la Corte ha poi ritenuto che la Sa. non fosse più legittimata a richiedere l’assegno per il mantenimento dei figli, non più conviventi con lei, dal momento che M. era andata a vivere con il proprio compagno dal 2 aprile 2013, mentre A. e ***** erano andati a vivere da soli dal mese di ottobre 2014. Ha pertanto revocato l’obbligo di corrisponderle il predetto assegno, confermando invece la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile ed il relativo importo: richiamato infatti l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la spettanza dell’assegno presuppone l’accertamento dell’indisponibilità da parte del richiedente di mezzi adeguati a consentire il mantenimento di un tenore di vita assimilabile a quello goduto in costanza di matrimonio e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, ha rilevato che, mentre la Sa. non svolgeva alcuna attività lavorativa, lo S. risultava dipendente della Provincia di Ragusa, con uno stipendio lordo annuo di Euro 40.000,00, nonché titolare di un cospicuo patrimonio immobiliare e di un ingentissimo patrimonio mobiliare (in parte derivante dalla cessione di una quota societaria della S. Prefabbricati S.r.l., a sua volta titolare di un’azienda alienata per il prezzo di Euro 1.000.050,00), oltre ad aver movimentato ingenti somme sui suoi conti correnti bancari.

La Corte ha revocato infine la condanna della Sa. alla liberazione della casa coniugale dai beni mobili ivi esistenti, in quanto viziata da ultrapetizione, ha confermato la condanna dello S. al pagamento della metà delle spese del giudizio di primo grado, avuto riguardo alla reciproca soccombenza parziale delle parti, e ha dichiarato integralmente compensate le spese del giudizio d’appello.

3. Avverso la predetta sentenza lo S. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. La Sa. ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, rilevando che, nel riconoscere alla Sa. il diritto all’assegno divorzile, la sentenza impugnata ha omesso di procedere all’accertamento del tenore di vita goduto dal nucleo familiare, essendosi limitata a porre a confronto le situazioni economiche delle parti. Premesso che incombeva alla richiedente l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento del predetto diritto, sostiene che le stessa Sa. aveva negato che a famiglia godesse di un elevato tenore di vita, aggiungendo che l’attribuzione dell’assegno avrebbe comportato la formazione di una rendita parassitaria, in quanto, come da lui dimostrato, la donna, già titolare di un’attività commerciale, ceduta senza motivo, era proprietaria di un immobile sito in *****, nonché titolare di valori mobiliari e di somme depositate su un conto corrente per un importo complessivo di Euro 126.354,47.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente ribadisce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno divorzile, ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale, ormai superato, che attribuiva rilievo al tenore di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimonio. Premesso che il riferimento a tale nozione, non contenuta nell’art. 5, comma 6, cit., non tiene conto dell’estinzione del vincolo coniugale, derivante dalla pronuncia della sentenza di divorzio, sostiene che la natura assistenziale dell’assegno impone di valutare se il richiedente dispone di mezzi sufficienti a garantirgli non già la conservazione del predetto tenore di vita, ma l’autosufficienza economica.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente insiste sulla violazione e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, rilevando che nella quantificazione dell’assegno la sentenza impugnata è pervenuta alla determinazione di un importo nettamente superiore a quello necessario per garantire l’autosufficienza economica della richiedente, in tal modo procurando a quest’ultima un ingiustificato arricchimento. Afferma infatti che la Corte territoriale si è limitata a dare atto dei redditi e delle sostanze di esso ricorrente, omettendo di valutare le disponibilità economiche della Sa. e l’attività lavorativa dalla stessa precedentemente svolta ed ingiustificatamente abbandonata, nonché di tener conto degli altri elementi indicati dalla norma citata, aventi funzione moderatrice della misura dell’assegno.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., sostenendo che, nel porre a suo carico la metà delle spese del giudizio di primo grado e nel disporre la compensazione di quelle del giudizio di appello, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del parziale accoglimento delle domande proposte da entrambe te parti e del rigetto dell’appello incidentale e delle domande proposte con l’intervento.

5. Così sintetizzato il contenuto del ricorso, non merita accoglimento l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa della controricorrente, secondo cui le censure proposte dal ricorrente, oltre a non essere precedute da un’adeguata esposizione dei fatti di causa ed a cumulare in un unico contesto i vizi di violazione e falsa applicazione di legge, non risultano accompagnate da puntuali riferimenti agli atti processuali ed ai documenti prodotti, né dalla indicazione delle circostanze di fatto che, se considerate, avrebbero potuto condurre ad una decisione diversa.

Ai fini dell’osservanza dei requisiti di forma-contenuto prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la redazione del ricorso deve infatti rispondere a criteri di chiarezza e sinteticità espositiva, i quali impongono al ricorrente di selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda dedotta in giudizio che assumono rilievo ai fini dell’esame delle censure proposte, in modo tale da fornire a questa Corte una concisa rappresentazione della intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e risolte in modo non condiviso dalla sentenza impugnata, per poi formulare le proprie motivate critiche nel rispetto della tipologia di vizi elencata dall’art. 360 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. V, 30/04/2020, n. 8425; 21/03/2019, n. 8009; Cass., Sez. II, 20/10/2016, n. 21297). Tali criteri nella specie devono ritenersi sostanzialmente osservati, avendo il ricorrente fatto precedere le proprie doglianze da una ricostruzione piuttosto scarna dello svolgimento del processo, recante comunque la chiara indicazione delle domande formulate dalle parti e delle statuizioni adottate dai giudici di merito, per poi riportare nell’ambito dei motivi d’impugnazione le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, immediatamente seguite dalle proprie censure. La tecnica espositiva prescelta, focalizzando l’attenzione sulle questioni sollevate, si sottrae alle critiche formulate dalla difesa della controricorrente, la quale, nel lamentare la mancanza dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, è d’altronde costretta a riconoscere che, come ripetutamente precisato dalla giurisprudenza di legittimità, la stessa non deve necessariamente formare oggetto di un’autonoma partizione del ricorso, ben potendo risultare dallo svolgimento dei motivi, a condizione che dal contesto dell’atto emergano con chiarezza gli aspetti della vicenda sostanziale e processuale indispensabili per consentire di cogliere il significato e la portata delle censure proposte, senza dover accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. III, 28/06/2018, n. 17036; Cass., Sez. I, 31/07/2017, n. 19018; Cass., Sez. VI, 3/02/2015, n. 1926). La natura della questione sollevata, avente ad oggetto la correttezza della regula juris posta a fondamento della decisione adottata nella sentenza impugnata, esclude poi la necessità del richiamo a specifici atti o documenti, non essendo stata censurata la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Corte territoriale, ma l’iter logico-giuridico sulla base del quale essa è pervenuta al riconoscimento del diritto all’assegno, in conformità dell’orientamento all’epoca uniformemente applicato dalla giurisprudenza. Ininfluente risulta infine la denuncia cumulativa dei vizi di violazione e falsa applicazione di legge, i quali, pur consistendo rispettivamente in un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, che implica un problema d’interpretazione della stessa, e nella sussunzione della fattispecie concreta in una previsione normativa non pertinente o nella deduzione dalla stessa di conseguenze giuridiche difformi da quelle previste (cfr. Cass., Sez. V, 25/09/2019, n. 23851; Cass., Sez. I, 14/ 01/2019, n. 640; Cass., Sez. III, 24/10/2007, n. 22348), non risultano reciprocamente incompatibili, essendo accomunati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nell’unica previsione del n. 3.

5.1. I primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono peraltro fondati.

Ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, la Corte napoletana ha infatti richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, all’epoca indiscusso, secondo cui l’accertamento prescritto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, doveva articolarsi in due fasi, nella prima delle quali occorreva verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre nella seconda doveva procedersi alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico fornito da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, e valutando tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 9/06/2015, n. 11870; 15/05/2013, n. 11686; 4/10/ 2010, n. 20582).

A sostegno dell’impugnazione, il ricorrente invoca invece i principi enunciati da una pronuncia successiva, la quale, rimeditando il predetto orientamento, ha confermato la struttura bifasica dell’accertamento in questione, ma ha sostenuto la necessità di una più netta distinzione tra la verifica relativa all’an debeatur e la determinazione del quantum, ribadendo che alla seconda fase può accedersi soltanto nel caso in cui la prima si concluda con esito positivo, ma affermando che, mentre la liquidazione dell’assegno è improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione del contributo in favore dell’altro coniuge quale persona economicamente più debole, il riconoscimento del relativo diritto dev’essere effettuato sulla base del principio di autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quale persona singola; premesso che tale principio trova fondamento nella natura eminentemente assistenziale dell’assegno, giustificata dall’intervenuto scioglimento del rapporto matrimoniale sul piano non solo personale, ma anche economico-patrimoniale, la pronuncia invocata dal ricorrente ha sostenuto che nella valutazione dell’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente occorre avere riguardo non già al tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di matrimonio, la cui considerazione comporterebbe un’illegittima ultrattività del vincolo coniugale, ma alle risorse necessarie per condurre un’esistenza libera e dignitosa, nella prospettiva del raggiungimento dell’indipendenza o dell’autosufficienza personale da parte dell’ex coniuge economicamente svantaggiato (cfr. Cass., sez. I, 10/03/2017, n. 11504).

Il contrasto in tal modo determinatosi nelle giurisprudenza di i2littimità è stato risolto da una più recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, la quale, discostandosi dai principi invocati dal ricorrente, ma sottoponendo a revisione anche l’orientamento tradizionale, ha attribuito all’assegno divorzile una funzione non solo assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, discendente direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e ritenuta idonea a legittimare il riconoscimento di un contributo volto a consentire al richiedente non già il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, ma il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, avuto riguardo in particolare alle aspettative professionali sacrificate. In quest’ottica, è stato affermato che, ai fini della valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi economici e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, occorre tener conto sia dell’impossibilità per il richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo che dimostri di avere fornito, nel corso della vita coniugale, alla formazione del patrimonio comune o di quello dell’altro coniuge, mentre è stata esclusa la possibilità di attribuire rilievo, a tal fine, al solo squilibrio economico esistente tra le parti o all’alto livello reddituale dell’altro coniuge, in quanto la differenza reddituale risulta coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ormai estraneo alla determinazione dell’assegno, e l’entità del reddito dell’obbligato non giustifica di per sé la corresponsione di un assegno commisurato alle sue sostanze (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18287; nel medesimo senso, successivamente, Cass., Sez. I, 9/08/2019, n. 21234; 28/02/2020, n. 5603).

5.2. Nella prospettiva inaugurata dalla pronuncia delle Sezioni Unite, la possibilità di condurre un’esistenza autonoma e dignitosa e l’apporto fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare rappresentano dunque i parametri essenziali della valutazione da compiere ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, la cui funzione assistenziale e al tempo stesso perequativo-compensativa assegna un ruolo fondamentale, al di là del confronto tra le situazioni patrimoniali e reddituali delle parti, alla considerazione della durata e dello svolgimento concreto del rapporto coniugale, a detrimento di quello preminente finora attribuito all’astratta individuazione dello standard economico-sociale della vita familiare.

I predetti parametri non sono stati tenuti presenti dalla sentenza impugnata, la quale, essendo stata pronunciata in epoca anteriore al segnalato revirement della giurisprudenza di legittimità ed alla successiva composizione del contrasto, si è conformata all’orientamento precedentemente diffuso, concentrando la propria indagine sull’indisponibilità da parte della controricorrente di mezzi economici idonei a consentirle il mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, e quindi sulla sperequazione esistente tra i redditi ed i patrimoni delle parti, senza fare alcun cenno all’apporto fornito dalla richiedente alla soddisfazione delle esigenze quotidiane del nucleo familiare, alla crescita ed all’educazione dei figli ed alla formazione del patrimonio della famiglia e dell’ex coniuge, né alle aspettative di lavoro da lei eventualmente sacrificate in funzione della prestazione di tale contributo. L’approfondimento di tali profili, indispensabile alla stregua dei principi enunciati dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, era reso nella specie ancor più necessario dalla circostanza, fatta valere dallo stesso S., che nel corso della convivenza o a seguito della cessazione della stessa la Sa. aveva rinunciato a svolgere l’attività commerciale di cui era precedentemente titolare, cedendola a terzi asseritamente senza motivo: qualora fosse stato invece accertato che l’alienazione aveva costituito il frutto di una scelta condivisa da entrambi i coniugi o comunque era stata imposta dalla necessità di dedicarsi interamente alle attività domestiche, il relativo sacrificio non avrebbe potuto essere trascurato ai fini della valutazione delle conseguenze economiche del divorzio, risultando pacifico che all’epoca dello scioglimento del vincolo coniugale la donna non svolgeva alcuna attività lavorativa ed aveva ormai raggiunto un’età in cui difficilmente avrebbe potuto reperire un’occupazione idonea a consentirle di provvedere autonomamente al proprio sostentamento.

6. L’accoglimento delle predette censure, comportando la caducazione della sentenza impugnata anche nella parte concernente il regolamento delle spese processuali, comporta l’assorbimento del quarto motivo d’impugnazione, con cui il ricorrente ha censurato l’imposizione a suo carico dell’obbligo di pagare la metà delle spese del giudizio di primo grado e la compensazione di quelle del giudizio di appello.

7. La sentenza impugnata va pertanto cassata, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Catania, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie i primi tre motivi di ricorso, dichiara assorbito il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata, e rinvia alla Corte di appello di Catania, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.

Così deciso in Roma, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2021

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