LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 32028/19 proposto da:
-) C.K., elettivamente domiciliato a Milano, via Olmetto n. 5, presso l’avvocato Roberta Nicoletta Roselli, che lo difende in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– resistente –
avverso il decreto del Tribunale di Milano 6.9.2019 n. 7128;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17 marzo 2021 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.
RILEVATO
Che:
1. C.K., cittadino *****, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:
(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;
(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;
(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).
A fondamento della domanda dedusse di avere lasciato il proprio Paese in quanto, secondo le regole del villaggio dove viveva, correva il rischio di essere condannato a morte per essersi lasciato scappare parte dei bovini dei quali gli era stata affidata la custodia.
La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.
2. Avverso tale provvedimento C.K. propose, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, ricorso dinanzi alla sezione specializzata, di cui al D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 1, comma 1, del Tribunale di Milano, che la rigettò con decreto 6.9.2019.
Il Tribunale ritenne che:
-) lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b) non potessero essere concessi perché il racconto del richiedente era inattendibile;
-) la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) non potesse essere concessa, perché nel Paese di provenienza del richiedente non esisteva una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato;
-) la protezione umanitaria di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5 non potesse essere concessa in quanto il richiedente non aveva dimostrato l’esistenza di specifiche circostanze idonee a qualificarlo come “persona vulnerabile”, né il rientro in patria lo avrebbe esposto al rischio di violazione dei suoi diritti fondamentali.
3. Tale decreto è stato impugnato per cassazione da C.K. con ricorso fondato su tre motivi.
Il Ministero dell’interno non ha notificato controricorso, ma solo depositato un “atto di costituzione”, al fine di partecipare all’eventuale discussione in pubblica udienza.
CONSIDERATO
Che:
1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.
Sostiene che il Tribunale sarebbe incorso in un error in procedendo, per non aver proceduto al suo interrogatorio.
Deduce che tale interrogatorio era necessario sia perché mancava la videoregistrazione del colloquio dinanzi alla commissione territoriale; sia perché il Tribunale non avrebbe potuto reputare inattendibile il suo racconto, senza prima procedere ad un nuovo interrogatorio.
1.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.
Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente affermato che “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (Sez. 1 -, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020, Rv. 658982 – 01).
Nel caso di specie, in violazione dei suddetti oneri, il ricorso non contiene alcuna delle indicazioni appena elencate, né spende alcun argomento per superare il suddetto e consolidato orientamento.
2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.
Deduce che, avendo egli trovato in Italia un impiego sin dal 2018, tale circostanza doveva ritenersi di per sé sufficiente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
2.1. Il motivo è infondato perché il ricorrente invoca, a fondamento di esso, una regula iuris inesistente.
Il ricorrente, infatti, in sostanza deduce che deve ritenersi “vulnerabile”, per i fini di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5 (ed avrebbe quindi per ciò solo diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari), colui il quale dimostri di svolgere attività lavorativa in Italia.
Ma un principio di diritto siffatto non esiste nella legge scritta, né è stato mai da questa Corte ricavato in via interpretativa.
Questa Corte ha, al contrario, già più volte affermato che lo svolgimento di attività lavorativa nel nostro Paese, da solo, non costituisce una ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per più ragioni:
-) perché la legge non stabilisce alcun automatismo tra lo svolgimento in Italia di attività lavorativa e la sussistenza di una condizione di “vulnerabilità”;
-) perché il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura temporanea, mentre lo svolgimento di attività lavorativa, in particolare a tempo indeterminato, legittimerebbe un permesso di soggiorno sine die;
-) perché la “vulnerabilità” richiesta ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5 non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 17832 del 3.7.2019; Sez. 1, Ordinanza n. 17287 del 27.6.2019).
Lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, per contro, può essere solo uno dei fattori indizianti che, valutati unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, può dimostrare la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo.
3. Col terzo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3.
Nella illustrazione del motivo si sostiene che il Tribunale non ha assolto all’onere di cooperazione istruttoria, ovvero l’ha assolto in modo sommario e superficiale. Deduce che “consultando on-line le fonti internazionali accreditate quali EASO, COI, UNHCR”, emerge che in ***** esiste una situazione di violenza indiscriminata e l’impotenza dello stato di farvi fronte.
3.1. Il motivo è inammissibile.
Stabilire se in un determinato paese esista o non esista una situazione di violenza indiscriminata è un accertamento di fatto, non una valutazione di diritto.
In punto di diritto legge prescrive unicamente che tale accertamento debba essere condotto sulla base di fonti attendibili ed aggiornate.
Il decreto impugnato, a pagina 7, ha indicato gran copia di fonti di informazione che soddisfano i due suddetti requisiti.
Lo stabilire, poi, se tali fonti di informazione siano state valutate in modo appropriato o meno è questione di puro fatto, sottratta al perimetro del giudizio di legittimità.
4. Non occorre provvedere sulle spese del presente giudizio, non essendovi stata difesa delle parti intimate.
PQM
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 17 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2021