LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15104-2016 proposto da:
P.M.G., rappresentato e difeso dall’Avvocato EZIO GUERINONI, e dall’Avvocato ROSSELLA VITALI, per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.R., C.M.B., e IMMOBILIARE BOLLATE S.R.L., rappresentati e difesi dall’Avvocato CLAUDIO SALA, dall’Avvocato MARIA SALA e dall’Avvocato STEFANO GATTAMELATA, per procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1991/2015 della CORTE D’APPELLO DI MILANO, depositata il 11/5/2015;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale della Repubblica Dott. ALBERTO CELESTE;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/3/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.
FATTI DI CAUSA
Ca.Ca. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Milano, la Immobiliare Bollate s.r.l., C.R. e Z.C., nella qualità di proprietari del terreno che l’attrice assumeva di aver posseduto uti dominus, insieme al deceduto marito Pa.Ma., sin dal 1969, chiedendo che fosse così accertato il proprio diritto di proprietà acquistato per usucapione.
I convenuti si sono costituiti ed hanno chiesto il rigetto deducendo che C.D., padre di C.R. e marito di Z.C., aveva stipulato con il Pa., nel mese di ottobre del 1975, un contratto verbale di affitto dei terreni ad uso deposito, come risultava dalla denunzia di contratto verbale di affitto, depositata in data 28/10/1975 presso l’Amministrazione del Demanio e delle Tasse, sottoscritta dallo stesso Pa..
Nel corso del giudizio, l’attrice è deceduta. P.M.G., nella qualità di erede universale della de cuius, si è costituito in giudizio in luogo della stessa.
Il tribunale, con sentenza del 2011, ha rigettato la domanda proposta dalla parte attrice, che ha condannato al pagamento in favore dei convenuti dei canoni di affitto del terreno dal mese di gennaio del 2004 fino al rilascio, unitamente alla rimozione delle opere ivi esistenti.
P.M.G. ha proposto appello.
Deceduta la Z., il giudizio è stato riassunto nei confronti degli eredi della stessa C.R. e C.M..
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.
La corte, in particolare, per quanto ancora rileva, dopo aver dichiarato l’inammissibilità della domanda subordinata che l’appellante aveva proposto nel giudizio d’appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c., ha ritenuto, innanzitutto, che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la denunzia del contratto di affitto, “sottoscritta il 28 ottobre 1975 dal Pa. nella sua veste di conduttore”, appariva di data certa e che erano stati dimostrati, attraverso la produzione delle ricevute, i pagamenti dei canoni di locazione, ed, in secondo luogo, che, a fronte del contratto di affitto ed alle ricevute di pagamento dei relativi canoni, “versati dal P. o dai suoi aventi causa”, doveva escludersi che i predetti, pur nella prolungata inerzia dei proprietari, avessero posseduto il bene in questione uti dominus: “la relazione con la res era difatti esercitata come semplice detenzione, che non può tramutarsi in possesso, in assenza di un comportamento di interversione fatta dal possessore o da un terzo, che renda evidente che la parte non intende più conservare una relazione con il bene di tipo detentivo ma trasformarsi in possessore”.
P.M.G., con ricorso notificato il 10/6/2016, ha chiesto, per cinque motivi, la cassazione di tale sentenza.
C.R., C.M.B. e la Immobiliare Bollate s.r.l. hanno resistito con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha chiesto l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.
Il ricorrente ed i controricorrenti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2704 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che la denunzia del contratto d’affitto avesse data certa semplicemente perché sottoscritta dal Pa., nella sua veste di conduttore, in data 28/10/1975, senza, tuttavia, considerare che, a norma dell’art. 2704 c.c., la certezza della data di una scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione non può essere desunta dal contenuto intrinseco del documento, colme ha fatto la corte, ma impone di avere riguardo a fatti oggettivi esterni, come la morte del sottoscrittore. La corte d’appello, pertanto, avrebbe dovuto ritenere che la denunzia del contratto di affitto avesse data certa solo dal giorno della morte di Pa.Ma., avvenuta il *****, vale a dire in un momento nel quale, a fronte di un possesso iniziato nel 1969, era già decorso il termine di venti anni richiesto dall’art. 1158 c.c..
2. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, con motivazione apparente, ha ritenuto che erano stati dimostrati in giudizio i pagamenti dei canoni di locazione da parte di Pa.Ma., senza, tuttavia, illustrare gli elementi e le ragioni logiche e giuridiche in base alle quali ha tratto il proprio convincimento circa il fatto che l’esistenza di ricevute sottoscritte da soggetto diverso rispetto al C. dovrebbero dimostrare l’avvenuto pagamento di somme da parte del Pa..
3. Il primo motivo è infondato, con assorbimento del secondo. La regola dettata dall’art. 2704 c.c. in ordine alle condizioni di certezza e di computabilità della data di una scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione, vale esclusivamente agli effetti dell’opponibilità della stessa scrittura nei confronti dei terzi: non anche, come pretende il ricorrente, nei rapporti tra le parti contraenti (Cass. n. 2573 del 1975; Cass. n. 5926 del 1982), vale a dire coloro che hanno sottoscritto il documento, ovvero, come nel caso in esame, i loro eredi (e cioè dapprima l’originaria attrice e poi l’attuale ricorrente), rispetto ai quali, pertanto, la certezza della data può essere accertata con ogni mezzo di prova previsto dalla legge, comprese le presunzioni. In effetti, con riguardo alle scritture private sottoscritte dal de cuius, l’erede ha veste di terzo, agli effetti di cui all’art. 2704 c.c., solo quando agisce per la reintegrazione della quota di riserva per cui, se la domanda da lui proposta non è riconducibile in tale ambito, come nel caso di azioni di revindica di beni per avvenuta usucapione in favore del de cuius, la verità della data di una scrittura privata sottoscritta da quest’ultimo, rilevante ai fini della decisione (ad esempio, per escludere il possesso ad usucapionem), può essere accertata, come tra le parti che hanno posto in essere la predetta scrittura, con qualunque mezzo di prova (Cass. n. 1.449 del 1981). L’erede, invero, subentrando nella posizione del de cuius, non è qualificabile come terzo rispetto ai contratti stipulati dallo stesso che gli sono, pertanto, opponibili a prescindere, tra l’altro, dalle regole dell’art. 2704 c.c. in tema di certezza della data della scrittura privata nei riguardi dei terzi (Cass. n. 1552 del 1988; Cass. n. 4282 del 1997; Cass. n. 13968 del 2009; Cass. n. 12242 del 2011).
4. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha completamente omesso di esaminare: a) il fatto che il Pa. e la Ca. avevano realizzato, nel biennio 1981 e 1982, senza alcuna autorizzazione da parte dei resistenti, due piccoli fabbricati in legno e muratura sul fondo oggetto della causa, destinandoli al ricovero degli animali e al deposito degli attrezzi per la coltivazione del terreno; b) il fatto che gli stessi avevano recintato l’intero fondo oggetto della domanda di accertamento dell’usucapione, chiudendolo con lucchetti ed impedendone l’accesso anche ai proprietari; c) il fatto che il Pa. e la Ca. avessero occupato, a dispetto della contraria volontà dei proprietari, una posizione di fondo, fino a 3.434,50 mq, di estensione ben maggiore rispetto a quella asseritamente concessa in affitto, pari a soli 100 mq.; pur trattandosi di fatti decisivi per il giudizio, posto che proprio sulla base di essi l’appellante aveva sostenuto, nel giudizio di secondo grado, l’avvenuta interversione del possesso da parte di Pa. e Ca. nei confronti dei proprietari che la corte d’appello ha, invece, escluso.
5. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha dichiarato l’inammissibilità della domanda nuova che l’appellante, in via subordinata, aveva proposto con l’atto d’appello, lì dove, in particolare, aveva chiesto di accertare e dichiarare che il P. era divenuto proprietario per usucapione dell’intera estensione del mappale di circa 3.434,50 mq, ad eccezione di una porzione di 100 mq, senza, tuttavia, considerare che la domanda, a norma dell’art. 345 c.p.c., è inammissibile solo se amplia, attraverso la deduzione di fatti nuovi e diversi, il thema decidendum.
6. Con il quinto motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha dichiarato l’inammissibilità della domanda nuova che l’appellante, in via subordinata, aveva proposto con l’atto d’appello, senza, tuttavia, fornire, in ordine a tale decisione, alcuna reale motivazione.
7.1. Il terzo motivo è infondato con assorbimento del quarto e del quinto.
7.2. La corte d’appello, in effetti, lì dove ha ritenuto che, a fronte del contratto di affitto ed alle ricevute di pagamento dei relativi canoni, “la relazione con la res era… esercitata come semplice detenzione, che non può tramutarsi in possesso, in assenza di un comportamento di interversione fatta dal possessore o da un terzo, che renda evidente che la parte non intende più conservare una relazione con il bene di tipo detentivo ma trasformarsi in possessore”, ha, con ogni evidenza, del tutto omesso di esaminare i fatti che il ricorrente, con la riproduzione in ricorso dei relativi atti difensivi, dimostra di aver dedotto nel corso del giudizio.
7.3. L’omesso esame dei fatti meramente dedotti, tuttavia, non è per sé sufficiente ai fini della cassazione della sentenza. L’art. 360 c.p.c., n. 5 consente, in effetti, di denunciare in sede di legittimità solo il vizio costituito dall’omesso esame da parte del giudice di merito di un fatto storico (principale o secondario) che, alla luce del testo della stessa sentenza impugnata o degli atti del processo, risulti non semplicemente allegato ma anche dimostrato nel corso del giudizio, ove sia stato controverso tra le parti (perché, se non fosse stato tale, il suo mancato esame trasmuterebbe nel vizio di omessa valutazione della relativa prova e, quindi, nella violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2) ed abbia carattere decisivo, tale, cioè, che, se esaminato, avrebbe determinato una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata e, quindi, un esito diverso della controversia (cfr. Cass. SU n. 8053 del 2014; Cass. SU n. 34476 del 2019; Cass. n. 27415 del 2018).
7.4. I fatti che il ricorrente invoca, invece, seppure dedotti in giudizio, non risultano esistenti, nei termini spaziali e temporali in cui sarebbero effettivamente rilevanti ai fini dallo stesso invocati – tali, cioè, da integrare l’interversione della (accertata, oramai definitivamente) detenzione dell’immobile concesso in affitto (iniziata nel mese di ottobre del 1975) in possesso e nella prosecuzione di quest’ultimo (se del caso oltre l’ambito oggettivo dell’affitto) per almeno vent’anni, e, quindi, decisivi (se e nella misura in cui la relativa emergenza probatoria sia ritenuta dal giudice di merito corrispondente al vero) ai fini dell’accoglimento della domanda di usucapione proposta – né dal testo della sentenza impugnata né (con la riproduzione in ricorso delle relative emergenze, che il ricorrente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ha l’onere di indicare: Cass. SU n. 8053 del 2014) dagli atti del processo.
8. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.
9. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
10. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 24 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2021
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