LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14131-2016 proposto da:
ISTITUTO DIOCESANO PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO PER LA DIOCESI DI TERAMO ATRI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE SANTO 68, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LETIZIA, rappresentato e difeso dagli avvocati SANDRO PELILLO, ANGELO RAFFAELE PELILLO;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI CROGNALETO;
– intimato –
avverso la sentenza n. 7/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Roma ha rigettato il reclamo proposto dall’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero per la Diocesi di Teramo (Istituto) contro la sentenza resa dal Commissario degli Usi Civici per l’Abruzzo, con la quale era stata dichiarata la natura demaniale di terreni siti in agro del Comune di Crognaleto.
Per la cassazione della sentenza l’Istituto ha proposto reclamo, affidato a quattro motivi.
Il Comune di Crognaleto è rimasto intimato.
L’Istituto ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella parte in cui la Corte d’appello ha riconosciuto che “dall’esame dell’elaborato peritale si evince che il c.t.u., pur avendo ricostruito la continuità delle iscrizioni dal Catasto provvisorio (1806/1809) all’attualità dei beni a favore dei danti causa dell’Istituto, ha ritenuto che tali iscrizioni, essendo successive al 1800, non potessero integrare la prova documentale dell’allodialità, non avendo rinvenuto elementi che gli consentissero di verificare la corrispondenza di detti terreni con quelli che l’agente demaniale A., sulla base del catasto Onciario, ha identificato come privati”.
Si sostiene che la relazione A., letta nella sua interezza, aveva dato una chiara ed esauriente spiegazione del perché i beni controversi non furono nella generalità inserite nel catasto Onciario, senza che ne rimanesse per ciò pregiudicata la prova fornita dall’Istituto.
Tale essenziale questione, costituente un fatto decisivo e controverso, non è stata considerata dalla Corte d’appello, che ha reso quindi una motivazione solo apparente, inidonea a giustificare realmente la decisine in relazione a quel fatto.
Con il secondo motivo si censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella parte in cui la Corte d’appello ha riconosciuto che “il primo giudice ha ritenuto che dal verbale dell’agente demaniale C. del 1810/1811 – che ha proceduto alla verifica dei beni demaniali civici, feudali ed ecclesiastici, emergesse che in loco non vi fossero possedimenti privati”.
Si sostiene che il complesso della documentazione acquisita in giudizio risultava che il demanio civico dell’Università di San Giorgio, oggetto di verifica da parte dell’agente C. nel 1811, non comprendeva i beni per cui è causa.
Pure in questo caso la Corte d’appello si è soffermata su un singolo e marginale aspetto, omettendo di considerare il fatto decisivo nella sua interezza.
Con il terzo motivo si censura la decisione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la Corte d’appello ha affermato che l’Istituto non avesse fornito la prova “che i beni oggetto di causa sono stati donati, nell’anno 1206, da d.T.G. al Vescovo P. II di ***** e che da allora detti fondi sono rimasti nel pacifico ed interrotto possesso dei danti causa di esso Istituto tanto che esso, negli anni 1324, 1465 e 1526, è stato tassato per i terreni”.
Al riguardo la corte di merito ha disconosciuto il raggiungimento della prova sulla base della sola considerazione che il primo documento non fu prodotto in originale, in presenza della contestazione di conformità avanzata dal Comune, senza considerare il complesso degli altri documenti prodotti dall’Istituto (elencati nei motivi), che comprovavano la vetustà del possesso.
Il quarto motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 violazione e falsa applicazione della L. n. 1766 del 1927, art. 1. La Corte d’appello, nel regolare l’onere della prova, ha applicato il principio ubi feuda ibi demania, facendo con ciò applicazione della 6^ Massima della Commissione Feudale, secondo cui “Tutti i feudi, tranne le difese costituite secondo le leggi del regno) sono soggetti agli usi civici”. Senonché la massima va intesa in correlazione con 5^ Massima della Commissione Feudale, in base alla quale “Chiunque allega feudalità universale del territorio di un comune deve provarlo, producendo una concessione (…). Sono eccettuati da questa regola feudi da recenti abitati. Non si reputa concessione o investitura l’atto di vendica che il fisco abbia fatto di un feudo”.
La corte d’appello non ha considerato che i confini giurisdizionali di un feudo coincidono con il demanio feudale solo in caso di feudo universale, mentre, fuori da tale ipotesi, da provare nel modo sopra indicato, il demanio feudale costituiva solo una parte del feudo giurisdizionale.
La decisione impugnata, diversamente, ha deciso la fattispecie sulla base della qualificazione dell’intero territorio quale “feudalità universale” pure in assenza della prova dell’investitura del feudatario.
La Corte d’appello ha ritenuto che all’interno del territorio del Comune di Crognaleto non potessero esservi possessi privati, finendo quindi per imporre a carico dell’Istituto l’onere di provare la legittimità dei propri titoli. Era invece onere del Comune provare la natura demaniale dei beni posseduti dal privato, dando prova della natura ex feudale di quelle terre, che erano nel possesso dell’Istituto e sui quali non erano stati esercitati usi civici dopo il 1800.
Si impone in via prioritaria l’esame del quarto motivo, che è fondato nei limiti di seguito indicati; il suo accoglimento determina l’assorbimento delle censure di ci agli altri motivi.
La corte d’appello di Roma inizia l’esame della vicenda, ricordando le vicende del procedimento. Il Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici per l’Abruzzo, con una prima decisione, aveva rigettato l’opposizione dell’Istituto. Tale decisione era stata oggetto di reclamo dinanzi alla Corte d’appello di Roma, che con la sentenza n. 15/2009 aveva rimesso gli atti al primo giudice per una più approfondita valutazione dei documenti forniti dall’Istituto opponente, “gravato dall’onere di fornire una prova idonea a superare la presunzione di demanialità dei fondi”, in applicazione del principio ubi feuda, ubi demania. Ora, il principio ubi feuda ibi demania significa che, laddove un territorio fosse stato soggetto ad usi civici, prima della sua infeudazione a favore di un vassallo, i diritti civici restavano riservati alla popolazione ed il feudatario poteva usarne soltanto quale primo dei cittadini (Cass. n. 3660/1976).
La presunzione della esistenza di usi civici su fondi feudali, fondata sulla considerazione storica che la concessione delle terre dal sovrano al feudatario rispetti sempre i diritti preesistenti delle popolazioni titolari del godimento delle terre stesse nei limiti dei loro bisogni essenziali, opera quando l’infeudazione del territorio sia stata posteriore allo stabilirsi su di esso di un nucleo di popolazione (Cass. n. 2986/1980).
La L. 16 giugno 1927, n. 1766, art. 2 va interpretato in relazione al principio ubi feuda ibi demania, nel senso che, se si tratta di usi esercitati anche posteriormente al 1800, la prova della loro esistenza, natura ed estensione può essere data con qualsiasi mezzo di prova. Qualora, invece, si tratti di usi civici, il cui esercizio sia cessato anteriormente al 1800, la prova dell’esistenza, natura ed estensione deve esser data esclusivamente con documenti, con la conseguenza che, se si assuma che quegli usi vadano su terre ex feudali, va data con documenti la prova della natura feudale di esse e dell’esistenza di un feudo abitato e, una volta che questa sia stata fornita, ne discende direttamente, sulla base del principio ubi feuda ibi demania, l’esistenza, senza bisogno di ulteriore prova, degli usi originari, cioè degli usi necessari, secondo i bisogni della popolazione e la natura delle terre, costituenti il giuridico attributo della feudalità di un determinato territorio abitato (Cass. n. 1952/1966).
E’ stato altresì chiarito che “la norma di cui alla L. 16 giugno 1927, n. 1766, art. 2 – la quale limita la libertà di prova per i diritti civici il cui esercizio sia cessato anteriormente al 1800 – non importa una presunzione di estinzione degli usi, né deroga ai principi fondamentali in materia, bensì costituisce solo un temperamento di indole pratica, ispirato all’interesse di evitare che determinate situazioni, specie se risalenti a tempi antichissimi, rimangano ancora indefinitamente incerte, nonché al sempre immanente principio dell’imprescrittibilità ed inalienabilità degli usi. La prova documentale richiesta – diversa da quella attualmente pretesa nei giudizi di revindica – deve essere data secondo i principi propri della prova documentale nel diritto feudale. Pertanto, non è necessario, in ogni caso, l’atto formale di investitura e di concessione del feudo, in quanto questo, quanto alla dimostrazione della natura feudale di un territorio, sul quale la popolazione abitante accampa diritti di uso civico, può essere costituito da altri documenti, già elencati dalla commissione feudale istituita dopo le leggi eversive della feudalità nel regno delle due Sicilie” (Cass. n. 792/1995; n. 26605/2016).
La Corte d’appello di Roma, nel regolare la ripartizione dell’onere della prova, non si è attenuta a tali principii. Senza preventivamente chiarire se ci fosse stato esercizio di usi civici posteriormente al 1800, la corte di merito ha ritenuto per ciò solo, in forza della regola ubi feudo ibi demania, che l’istituto fosse gravato dall’onere di fornire una prova idonea a superare la presunzione di demanialità dei suoli, dando la dimostrazione della inesistenza di una popolazione preesistente all’infeudazione. In questo modo, però, il principio ubi feuda ibi demania non è stato applicato secondo gli insegnamenti di questa Corte, la quale ha chiarito che l’operatività del principio stesso implica, seppure con tutte le peculiarità della prova documentale nel diritto feudale (supra), che sia stata data la prova della natura feudale di quelle terre.
La preventiva ed essenziale verifica di tale presupposto non emerge dalla sentenza impugnata.
Si impone, pertanto, in accoglimento del quarto motivo, la cassazione della sentenza, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che provvederà a nuovo esame della vicenda in applicazione del corretto criterio di riparto dell’onere probatorio. La corte di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il quarto motivo ricorso; dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2021