LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22817-2019 proposto da:
S.F., rappresentato e difeso dall’avv. CARLO BAROTTI, e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– intimato –
avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il 17/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 01/04/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
FATTI DI CAUSA
Con il decreto impugnato il Tribunale di Venezia ha rigettato il ricorso proposto da S.F. avverso il provvedimento con cui la Commissione territoriale competente che aveva denegato il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria invocata dal richiedente.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione S.F. affidandosi a due motivi.
Il Ministero dell’Interno, intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché il Tribunale avrebbe erroneamente escluso il riconoscimento della protezione internazionale senza considerare la condizione di schiavitù che era stata dedotta dal richiedente e senza tener conto del contesto di violenza generalizzata esistente in *****, Paese di origine del richiedente.
La censura è fondata, limitatamente al primo profilo. Il ricorrente aveva infatti riferito di esser stato ridotto in schiavitù dal capo del suo villaggio natale, perché aveva intrattenuto una relazione con la figlia di quegli; di essere fuggito grazie all’aiuto del fratello della ragazza; di essersi risolto ad abbandonare il Paese nel timore di ulteriori persecuzioni. Il Tribunale ha ritenuto la storia non credibile, perché il richiedente avrebbe riferito di aver subito minacce non circostanziate, perché sarebbe illogico che il figlio del capo villaggio abbia aiutato il richiedente a fuggire contro il volere del padre, perché non sarebbe credibile che il padre del fuggitivo non abbia ricevuto punizione a seguito della fuga del figlio, ed infine perché il richiedente non aveva saputo indicare con precisione a quali mansioni sarebbe stato adibito nel corso del periodo in cui era stato ridotto in schiavitù.
In effetti, nessuno degli elementi valorizzati dal giudice di merito per pervenire al giudizio di non credibilità della storia personale del richiedente risulta decisivo. In particolare, non può essere ritenuto illogico che il richiedente sia stato aiutato, nella fuga, dal fratello della ragazza con cui aveva intrattenuto una relazione affettiva, né può attribuirsi alcun peso alla circostanza che, dopo la sua fuga, suo padre non sia stato fatto oggetto di alcuna punizione da parte del capo villaggio. Ancor meno decisivo risulta il fatto che il ricorrente abbia indicato, nel tempo, diverse mansioni alle quali egli era stato adibito durante il periodo in cui era stato ridotto in schiavitù, posto che, per definizione, lo schiavo viene adibito a qualunque attività lavorativa. In definitiva, dunque, non si ravvisa alcun profilo di contraddizione, né alcun indice di scarsa credibilità del racconto, negli elementi valorizzati in negativo dal giudice di merito.
A ciò va aggiunto che questa Corte, proprio in relazione ad un ricorso proposto da un cittadino ***** che assumeva di esser stato ridotto in schiavitù – come il ricorrente – ha affermato che “In tema di protezione internazionale, la riduzione di una persona in stato di schiavitù configura un trattamento persecutorio, rilevante ai fini del riconoscimento dello “status” di rifugiato, non potendosi attribuire alcun rilievo alla liceità o tolleranza di quel trattamento nel Paese di provenienza del richiedente, poiché altrimenti si vanificherebbe l’essenza stessa della tutela internazionale, che è proprio quella di assicurare al richiedente, in fuga dal proprio Paese, la tutela dei suoi diritti inalienabili di persona, tra i quali certamente rientra quello alla libertà personale” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17186 del 14/08/2020, Rv. 658957). Da tale principio, al quale il collegio ritiene di assicurare continuità, discende che, ove venga allegata dal richiedente una condizione di riduzione in schiavitù “… il giudice deve svolgere d’ufficio gli accertamenti necessari a verificare che le leggi o i costumi del paese di provenienza siano tali da autorizzare o tollerare tale pratica” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 29142 del 21/12/2020, Rv. 660124).
Non è infatti possibile ritenere che la riduzione di una persona umana in schiavitù, ancorché consentita o ammessa nel Paese di provenienza del richiedente la protezione, possa essere ammessa dal vigente ordinamento giuridico, tanto interno che internazionale. Ne’ è consentito svalutare detta circostanza come un fatto di rilievo locale correlato ad usanze tribali, poiché l’eventuale liceità, o anche la semplice tolleranza, del fenomeno nel contesto di origine del richiedente la protezione non ha alcuna rilevanza ai fini dell’ammissione del soggetto discriminato alla protezione internazionale. Ai fini del riconoscimento di quest’ultima, infatti, quel che rileva è l’oggettiva sottoposizione, o anche il semplice rischio di sottoposizione, di una persona umana a trattamenti persecutori, inumani, degradanti o gravemente discriminanti in ragione della sua razza, religione, credo politico, appartenenza ideologica, provenienza etnica. Laddove invece si ammettesse una rilevanza della liceità o tolleranza del trattamento persecutorio nel Paese di provenienza del richiedente, si finirebbe per vanificare l’essenza stessa della tutela internazionale, che è proprio quella di assicurare al richiedente, in fuga dal proprio Paese, la tutela dei suoi diritti inalienabili di persona, tra i quali certamente rientra quello alla libertà personale.
Il primo motivo va dunque accolto, limitatamente all’omessa considerazione della riduzione in schiavitù, con conseguente assorbimento delle altre censure. La decisione impugnata va quindi cassata, nei limiti della censura accolta, e la causa rinviata al Tribunale di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di iegittimità. Il giudice del rinvio dovrà quindi procedere ad un nuovo apprezzamento delle circostanze di fatto allegate dal richiedente la protezione ai fini di verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento, in suo favore, dello status di rifugiato, ovvero della tutela sussidiaria, ovvero ancora di quella umanitaria.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, cassa la decisione impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa al Tribunale di Venezia, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 1 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2021