LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14413/2020 R.G. proposto da:
K.N. (o N.K.), rappresentato e difeso dall’Avv. Davide Verlato, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 590/20 depositata il 18 febbraio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31 marzo 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.
RILEVATO
che N.K. (o K.N.), cittadino del Ghana, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, avverso la sentenza del 18 febbraio 2020, con cui la Corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 17 dicembre 2018 dal Tribunale di Venezia, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;
che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
CONSIDERATO
che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);
che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, commi 1, 3 e 5, del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, commi 2 e 3, e art. 27 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver escluso la credibilità delle dichiarazioni da lui rese a sostegno della domanda, senza acquisire d’ufficio informazioni in ordine al funzionamento del sistema giudiziario del Ghana ed all’impossibilità di ottenere dalle forze di polizia un’adeguata tutela anche in riferimento a vicende di carattere privato, e senza avvalersi del fatto notorio o delle massime di esperienza ai fini della prova di circostanze non espressamente dedotte;
che il motivo è infondato;
che, in tema di protezione internazionale, questa Corte ha avuto infatti modo di affermare che le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142);
che l’esito negativo del predetto controllo consente di escludere la necessità di approfondimenti istruttori ulteriori in ordine alla situazione in atto nel Paese di origine del richiedente, in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria officiosa posto a carico del giudice dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, dal momento che tale dovere non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 20/12/2018, n. 33096; 19/02/2019, n. 4892);
che non merita pertanto censura la sentenza impugnata, la quale, dato atto della genericità delle censure rivolte alla sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto intrinsecamente inattendibili le dichiarazioni rese dal ricorrente, e ribadita comunque l’incoerenza e l’implausibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda, ha escluso la configurabilità di un rischio di persecuzione o di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, omettendo quindi di procedere ad indagini ufficiose in ordine alla possibilità di ottenere una tutela effettiva dalle autorità statali;
che la ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente giustifica anche la scelta della Corte territoriale di non avvalersi del fatto notorio o di massime di esperienza, ai fini della prova degli atti persecutori o del danno grave idonei a giustificare il riconoscimento della protezione, trattandosi di una facoltà operante esclusivamente sul piano probatorio, che non dispensa quindi la parte dall’onere di allegare le circostanze di fatto rilevanti ai fini dell’accoglimento della domanda, ed il cui esercizio, rimesso alla discrezionalità del giudice di merito, risulta comunque censurabile in sede di legittimità soltanto nel caso in cui quest’ultimo vi abbia fatto ricorso, e non anche quando non abbia ritenuto necessario avvalersene (cfr. Cass., Sez. VI, 20/03/2019, n. 7726; Cass., Sez. lav., 14/12/2005, n. 27591; Cass., Sez. II, 28/04/1979, n. 2476);
che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1.1, e dell’art. 8 CEDU, nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, in virtù della ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni da lui rese, senza procedere ad un autonomo accertamento in ordine alla sussistenza di una condizione di vulnerabilità personale;
che, ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata ha omesso, in particolare, di procedere alla comparazione tra la situazione in cui egli versava nel Paese di origine ed il livello d’integrazione economico e sociale raggiunto in Italia, non avendo tenuto conto né delle gravi violazioni dei diritti fondamentali in atto nel Ghana né dell’attività lavorativa da lui stabilmente svolta in Italia, né del periodo di tempo da lui trascorso in Libia;
che il motivo è fondato;
che, come già affermato da questa Corte, il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, pur postulando una condizione di vulnerabilità personale, la cui configurabilità deve costituire oggetto di una valutazione autonoma rispetto a quella dei presupposti richiesti per l’applicazione delle altre forme di protezione, non richiede specifici approfondimenti istruttori da parte del giudice di merito allorquando, come nella specie, quest’ultimo abbia già escluso la credibilità della vicenda personale allegata dal richiedente, e non siano state fatte valere ragioni di vulnerabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte a sostegno della domanda di riconoscimento delle forme di protezione maggiori (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29624; Cass., Sez. I, 7/08/2019, nn. 21123 e 21129);
che, una volta esclusa l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente, la sentenza impugnata ha peraltro proceduto ugualmente al raffronto tra la situazione personale e familiare in cui lo stesso versava prima dell’espatrio ed il livello d’integrazione raggiunto in Italia, osservando per un verso che, nonostante la persistenza di violazioni dei diritti umani coinvolgenti categorie di soggetti alle quali il ricorrente è estraneo, la situazione economica e sociale in atto nel Ghana non giustifica la qualificazione dello stesso come persona vulnerabile, ed escludendo per altro verso la rilevanza del nuovo nucleo familiare da lui costituito in Italia e della nascita di una figlia, in quanto idonei a giustificare l’applicazione degli istituti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 28 e ss.;
che l’applicabilità di tali disposizioni, poste specificamente a tutela del diritto all’unità familiare, non può ritenersi tuttavia sufficiente ad impedire il riconoscimento della protezione umanitaria quando, come nel caso in esame, gli elementi di fatto allegati a sostegno della domanda siano costituiti dall’instaurazione di legami familiari in Italia e dalla convivenza con figli minori, dovendosi tenere conto da un lato del carattere atipico e residuale della misura in questione, volta a coprire tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente, e dall’altro del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’art. 8 CEDU, da intendersi come diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente (cfr. Cass., Sez. I, 22/01/2021, n. 1347; 28/10/2020, n. 23720);
che la sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dall’accoglimento del secondo motivo, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Venezia, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 31 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2021