Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.24469 del 10/09/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29257-2019 proposto da:

+ ALTRI OMESSI, (queste ultime quali successori a titolo universale del Sig. Z.R.V.L.) rappresentati e difesi dall’Avv.to Marco Giuseppe Binetti ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in Roma, Via Lima 5/a;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, *****, in persona del Ministro pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5266/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CLOTILDE PARISE.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con sentenza n. 394 pubblicata il 10 gennaio 2013 il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento della domanda proposta dal signor F.E.S. quale procuratore dei signori Z.R.V.L., + ALTRI OMESSI, tutti eredi di B.V., condannava il Ministero dell’Economia e delle Finanze (di seguito per brevità MEF) al pagamento della somma di Euro425.544,96, importo da suddividere tra le parti attrici in base alle rispettive quote ereditarie, oltre interessi moratori al saggio legale dalla domanda, a titolo differenza tra l’indennizzo liquidato dall’amministrazione in applicazione delle leggi 16/80, 135/85 e 98194 per la perdita di beni siti in Libia appartenuti al de cuius e quello spettante liquidato in giudizio. Il MEF proponeva tempestivo appello chiedendo, in riforma parziale della decisione, che l’importo ancora dovuto in favore degli appellati, oltre a quanto già liquidato in sede amministrativa, fosse rideterminato nella minor somma di Euro50.000,00. Gli appellati si costituivano tempestivamente chiedendo, oltre al rigetto dell’appello principale, l’accoglimento dell’impugnazione incidentale con il riconoscimento del loro diritto al riconoscimento di un indennizzo pari a Euro1.256.333,12, oltre rivalutazione monetaria e interessi, con la condanna dell’appellante principale al pagamento di quanto dovuto.

2. Con sentenza depositata il 30-7-2018 la Corte d’appello di Roma ha rigettato sia l’appello principale, sia l’appello incidentale, compensando le spese del grado.

3. Avverso detta sentenza i ricorrenti in epigrafe indicati propongono ricorso per cassazione affidato a due motivi, a cui resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

4. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere la Corte territoriale, al pari del primo Giudice, tenuto conto delle osservazioni critiche mosse alla valutazione del C.T.U., incaricato in primo grado, circa la stima dei beni perduti, pur essendo state dette osservazioni ampiamente richiamate e argomentate nell’appello incidentale svolto dagli attuali ricorrenti. I fatti decisivi, il cui esame si assume omesso, sono così descritti: i) la valutazione unitaria dell’area adibita a scopi agricoli è stata effettuata sulla scorta di una stima del CTU a sua volta fondata su un valore originariamente assegnato dal Ministero, ma che lo stesso Ministero aveva successivamente riconosciuto ampiamente sottostimato; ii) la valutazione del CTU circa il valore complessivo da attribuire alla restante parte della tenuta è stata dapprima per sua stessa ammissione “arbitraria” e in un secondo momento giustificata a posteriori mediante una suddivisione in tre sotto-aree, da ritenersi palesemente non corretta tenuto conto dei dati censuari forniti; iii) l’abbattimento, nella misura, che si assume spropositata, rispettivamente del 60% e del 40%, operato dal CTU sulle aree adibite a coltivazione di alberi gedari e a pascolo, rispetto ai valori minimi indicati nelle relazioni ministeriali, e condiviso dalla Corte d’Appello in base alla mera collocazione geografica dell’area, senza tenere conto della documentata presenza di acqua ed inoltre erroneamente sovrapponendo i termini “autoctono” e “spontaneo” in riferimento agli alberi gedari. Ad avviso dei ricorrenti, le suddette circostanze sono fatti palesemente “decisivi” ai fini della determinazione del valore dell’indennizzo spettante ai ricorrenti stessi in misura ampiamente maggiore rispetto a quanto riconosciuto dal Ministero e liquidato dai Giudici di merito.

3.1. Con il secondo motivo denunciano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1224 e 1262 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di merito determinato la decorrenza degli interessi a far data dalla domanda giudiziale, sulla base dell’asserita mancanza di precedenti atti di costituzione in mora dell’Amministrazione. La Corte di merito non ha riconosciuto alcun interesse sull’importo liquidato dal M.E.F. in relazione al periodo anteriore all’introduzione del giudizio e, ad avviso dei ricorrenti, tale capo della sentenza impugnata si pone in contrasto con i principi che regolano il calcolo degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, cosi come pacificamente applicati da questa Corte relativamente alla obbligazione indennitaria a carico dell’Amministrazione. In particolare in base a quanto statuito con la sentenza n. 19687/2009 di questa Corte, richiamata nell’impugnata sentenza, il cui contenuto si assume travisato dal Giudice d’appello, in caso di ritardato e colpevole pagamento dell’Amministrazione gli interessi, ove non decorrenti dalla data di entrata in vigore della L. n. 135 del 1985, avrebbero dovuto riconoscersi a decorrere dalla seconda domanda proposta nel corso del procedimento amministrativo in quanto atto idoneo a costituire in mora il debitore, come da domande amministrative (del 1971, del 1980 e del 1994) che i ricorrenti producono nuovamente in allegato al ricorso.

4. Il primo motivo è inammissibile.

4.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte al quale il Collegio intende dare continuità, nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti, come nella specie, con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (tra le tante Cass. 26774/2016; Cass. 20994/2019).

4.2. Nel ricorso per cassazione non è dato rinvenire la puntuale e precisa indicazione circa la diversità delle ragioni di fatto nei termini precisati, e peraltro dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. pag.7) si evince l’integrale condivisione, da parte della Corte di merito, della pronuncia del Tribunale in ordine alla stima del bene, mediante il richiamo della prima relazione del C.T.U. e di quella a chiarimenti.

Nella memoria illustrativa i ricorrenti assumono genericamente di aver fornito quell’indicazione, e ciò in contrasto con il tenore letterale del ricorso (cfr. pag. 9), in cui la doglianza sull’asserita mancata considerazione dei rilievi critici alla C.T.U. è indistintamente rivolta ai “Giudici di merito”, senza che, come già rilevato, siano indicate quali fossero le specifiche ragioni di fatto poste a base della sentenza d’appello, in tesi diverse da quelle fondanti la sentenza del Tribunale.

5. Anche il secondo motivo è inammissibile.

5.1. La censura non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata e difetta di autosufficienza.

La Corte di merito ha testualmente affermato che “gli eredi B. non individuano con il motivo d’appello incidentale altro precedente atto di costituzione in mora del Ministero ignorato dal Tribunale” e ha richiamato la sentenza di questa Corte n. 19687/2009 al fine di rilevare l’infondatezza della pretesa di far decorrere gli interessi dalla data di entrata in vigore della L. n. 135 del 1985, perché contrastante con il disposto dell’art. 1224 c.c..

Alla stregua di detto lineare percorso argomentativo, non è ravvisabile alcun contrasto con i principi affermati con la citata sentenza n. 19687/2009 e la doglianza, così come formulata, è inconferente rispetto al decisum. I Giudici d’appello hanno effettuato una valutazione meritale, peraltro in questi termini richiamata anche nel ricorso (“i ricorrenti non hanno indicato altro precedente atto di costituzione in mora nel motivo di appello incidentale” – pag. 8), che non è stata specificamente censurata. Infatti i ricorrenti avrebbero dovuto dedurre di aver indicato ritualmente nel motivo di appello incidentale quale fosse il precedente atto di costituzione in mora ed anche precisare quale contenuto avesse, trascrivendo, altresì, in ricorso la parte di rilevanza del suddetto motivo, per non incorrere nel vizio di difetto di autosufficienza.

La censura non e’, invece, espressa in questi termini, poiché i ricorrenti svolgono considerazioni in diritto non pertinenti al decisum come sopra puntualizzato, neppure affermano di aver indicato nel motivo di appello incidentale gli atti che richiamano (pag. 27 ricorso – atti che si assumono prodotti nel giudizio di primo grado e che sono allegati al ricorso), né riportano nell’illustrazione del secondo motivo del ricorso per cassazione la parte dell’atto di appello incidentale di eventuale rilevanza.

6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Dagli atti la causa risulta esente dal contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 8.100, oltre spese prenotate a debito come per legge.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2021

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